La Stampa 3.10.16
Per il Sì
Perché non sarà una dittatura della maggioranza
di Giovanni Sabbatucci
Mancano
ancora due mesi al referendum sulla riforma della Costituzione. Ma già
con l’inedito confronto televisivo fra Matteo Renzi e Gustavo
Zagrebelsky – il politico puro e l’alto magistrato impegnato in
politica, il giovane comunicatore e l’autorevole studioso – il dibattito
tra favorevoli e contrari è entrato nel vivo; e ha suscitato echi
importanti, facendo emergere non solo strategie politiche fortemente
divaricate, ma anche approcci culturali diversi e difficilmente
conciliabili in tema di democrazia.
Mi ha colpito – e non credo
abbia colpito solo me – una frase pronunciata da Zagrebelsky nel corso
del dibattito trasmesso da La7. L’ex presidente della Corte
costituzionale ha in sostanza criticato l’uso di termini come
«vincitore» o «perdente» a proposito di una consultazione elettorale.
Sottesa a questo apparente paradosso è l’idea che, in un quadro di
collaborazione virtuosa fra diverse forze politiche, tutti abbiano
qualcosa da guadagnare cooperando al bene comune. Di più: che il
Parlamento sia essenzialmente un luogo di discussione, più che di
deliberazione; e che lo stesso governo debba anteporre la ricerca del
consenso più ampio all’efficienza realizzativa. Siamo, come si vede,
agli antipodi rispetto allo stile e al modo di operare del presidente
del Consiglio.
Questa concezione «debole» e non competitiva della
democrazia non è nuova né isolata. Si riallaccia per un verso al filone
liberale ottocentesco (Tocqueville) che metteva in guardia contro il
pericolo di una «dittatura della maggioranza»; e può essere fatta
rientrare per altro verso nella categoria politologica della «democrazia
consociativa»: una democrazia fondata sulla rappresentanza
proporzionale (e contrapposta al bipolarismo del «modello Westminster»),
buona per governare società attraversate da fratture troppo profonde.
Certo il modello non è estraneo alle tradizioni del nostro sistema
politico, da sempre poco aduso alla competizione e all’alternanza. Quel
che non è chiaro è come tutto questo possa applicarsi alla situazione
italiana di oggi e in particolare alla scelta sulla riforma
costituzionale. La tesi dei sostenitori del no, secondo cui il
«combinato disposto» fra le due riforme, costituzionale ed elettorale,
contiene i germi di una piegatura autoritaria e oligarchica del sistema,
poggia su basi francamente deboli. A meno che non si pensi, con
Zagrebelsky, che la prospettiva di un governo di legislatura in cui
l’esecutivo possa contare su una solida maggioranza sia cosa in sé
pericolosa e non rientri invece nella sana fisiologia di un sistema
parlamentare, in cui esecutivo e legislativo sono uniti da un forte
vincolo fiduciario in quanto entrambi legittimati dallo stesso voto
popolare (chi volesse separarli o distinguerli più nettamente, dovrebbe
optare per il presidenzialismo all’americana).
Non è solo un
problema di teoria politica. Chi a sinistra oggi si oppone, per paura
del temibile «combinato disposto», a un sistema elettorale come
l’Italicum, che consente di dar vita comunque a una maggioranza scelta
dagli elettori mediante ballottaggio, dovrebbe spiegare con quali
alleanze pensa poi di poter governare il paese: non con Berlusconi
(visto che basta qualche contatto impuro con spezzoni del centro-destra
per far gridare al trasformismo); non con i Cinque stelle, che di
coalizione non vogliono nemmeno sentir parlare e preferiscono lucrare
sul logoramento dei partiti concorrenti. In realtà chi invoca il
compromesso, pensa a qualche ulteriore concessione alla minoranza del Pd
in tema di riforma elettorale. E’ possibile, anzi probabile, che a
questo si arrivi. Che Renzi sia disposto a sacrificare qualche pezzo
anche importante del suo pacchetto di riforme per salvarne ciò che
considera essenziale. Ma allora smettiamola di parlare di «dittatura
della maggioranza».