La Stampa 31.10.16
“Costretti a prescrivere più terapie per salvarci dalle accuse dei pazienti”
Il libro dell’oncologo processato e assolto per la morte di una ragazza
“Sommersi di cause, l’unica tutela che abbiamo è la medicina difensiva”
di Alberto Mattioli
Alla
fine, non è stato né un caso di malasanità, perché non ci sono stati
errori nelle cure, né di malagiustizia, perché non ci sono stati nemmeno
nelle sentenze. Però è una storia indicativa del sistema che in Italia
regola, anzi sregola, i rapporti fra sanità e giustizia. E anche un caso
personale angoscioso, «perché se sei una persona perbene e ti arriva un
avviso di garanzia ti crolla il mondo addosso».
Parola del dottor
Pietro Bagnoli, che la sua storia l’ha raccontata in un libro
appassionato e appassionante, «Reato di cura» (Sperling & Kupfer,
pagg. 238, euro 16). Bagnoli, 50 anni, è un chirurgo oncologo
dell’apparato digerente che lavora nell’hinterland milanese, un’autorità
in materia. Nel 2009, finì sotto processo insieme a tutta l’équipe,
altri due chirurghi e un radiologo, per la morte di una ragazza. I
genitori fecero causa, Bagnoli e i suoi colleghi furono rinviati a
giudizio, poi assolti in primo grado e riassolti in appello «perché il
fatto non sussiste». Una vicenda lunga quasi quattro anni che gli è
costata molto «in termini economici, ma per fortuna lì c’è
l’assicurazione, e soprattutto di qualità della vita, perché devi
combattere per dimostrare la tua innocenza e adattarti alle regole di un
mondo che non conosci. Un esempio? L’accusa sosteneva, sbagliando, che
un certo antibiotico avesse una certa azione. Portai al mio avvocato il
foglio illustrativo del farmaco, insomma il “bugiardino”, per
dimostrarlo. Lui sorrise: “Avrà scritto degli errori, ma li ha scritti
in modo convincente”. Per un medico, questo è incomprensibile».
Però
Bagnoli non si limita a raccontare la sua disavventura e il sollievo
perché è finita. Ci ragiona anche sopra. E allora il suo caso diventa
tipico in un Paese, «uno dei tre al mondo, gli altri sono Polonia e
Messico», dove la colpa medica è collocata nell’ambito penale. Intasando
la giustizia (30 mila cause contro i medici ogni anno) ma anche
peggiorando la sanità. «Perché provoca la cosiddetta “medicina
difensiva” che, secondo un’indagine ministeriale, costa all’Italia 10
miliardi l’anno». E qui bisogna spiegare. «C’è la medicina difensiva di
tipo attivo: il medico prescrive esami che servono, più che a saperne di
più sul paziente, ad accumulare referti per contestare un’eventuale
contestazione. Pezze d’appoggio, insomma. Che chiaramente fanno crescere
la spesa sanitaria e i tempi d’attesa per gli altri pazienti».
Poi
c’è la medicina difensiva «passiva»: «Il medico è portato a evitare
atti terapeutici impegnativi e rischiosi. Perché se vanno bene, nessuno
ti dice grazie. Se vanno male, ti portano dritto in tribunale». Insomma,
una specie di autocensura preventiva, per evitare possibili grane.
Secondo Bagnoli, però, una soluzione al problema è possibile. Si tratta
di passare a una medicina «basata sull’evidenza» che esca
dall’autoreferenzialità dell’appartenenza alle «scuole». «La Cochrane
Collaboration mette a disposizione tutti i più autorevoli studi
scientifici prodotti nel mondo e ne trae delle “evidenze” terapeutiche.
Difficilmente un giudice può orientarsi fra perizie tecniche
contrastanti. Bisognerebbe spiegargli che a livello mondiale il problema
tale viene affrontato nel modo talaltro, e allora ci sarebbero
finalmente dei criteri oggettivi per valutare l’operato del medico».
Poi
ci sono gli avvocati. «Ormai si vedono scene degne di quel romanzo di
Grisham, “L’uomo della pioggia”. Gente che si apposta fuori dagli
ospedali distribuendo biglietti da visita e proposte: faccia causa, non
la facciamo pagare e se vinciamo dividiamo il risarcimento. Non è chiaro
se sia legale, però succede». Bagnoli ne ha anche per i media: «Spesso
la notizia del processo è già una condanna. Certo, i giornali hanno
scritto che io e miei colleghi eravamo stati assolti. Ma senza l’enfasi
retorica che aveva accompagnato il nostro rinvio a giudizio».
Resta
la frase terribile e bellissima sulla ragazza morta che chiude il
libro: «Non passa giorno che non pensi a lei». Perché, dottore? «Perché
il nostro compito è preservare la vita e la morte di un paziente pesa
come un macigno. È una tragedia per lui e per i suoi cari, certo. Ma
anche per chi ha fatto di tutto per evitarla e non ci è riuscito».