lunedì 31 ottobre 2016

La Stampa 31.10.16
L’Islanda emblema della crisi dei sistemi politici dell’occidente
di Massimiliano Panarari

Le democrazie nordiche vanno sempre osservate con attenzione. Perché per quanto piccole, e un po’ periferiche ed eccentriche, se viste dalla nostra latitudine, vantano gloriose tradizioni civiche e partecipative e sperimentazioni istituzionali e sociali che ne hanno fatto spesso dei laboratori della politica. Oppure degli esemplari casi di studio, vetrine di tendenze generali che investono i sistemi politici dell’intero Occidente.
Così è stato anche per le elezioni politiche anticipate svoltesi in Islanda, dove i 245 mila cittadini aventi diritto di voto sono stati chiamati a rinnovare il Parlamento (l’Althing, erede di fatto della più antica assemblea deliberativa della storia europea) dopo lo scandalo dei Panama papers che ha travolto alcuni mesi fa il governo del premier Sigmundur Gunnlaugsson del Partito progressista (di centro liberale). Un esecutivo che aveva fatto ripartire l’economia, dopo l’apocalittica crisi bancaria del 2008, ma al prezzo di politiche di austerity che avevano fatto crescere il malcontento, ed è finito travolto dalle rivelazioni sui patrimoni personali di alcuni politici occultati nei paradisi fiscali.
Il contesto di partenza islandese è quello tipico dell’attuale fase postdemocratica dei sistemi politici liberal-rappresentativi, in cui si mescolano, a vario titolo, crisi della sovranità popolare, sfiducia nelle classi dirigenti, ripercussioni della finanziarizzazione dell’economia sulla politica, media alternativi che fanno giornalismo d’inchiesta e whistleblowing. Così come, altro trend assai radicato, si rivela sempre più difficoltosa e meno attendibile l’efficacia della demoscopia per capire gli umori dei cittadini-elettori: i sondaggi davano infatti in testa il partito dei Pirati, ma sono stati smentiti, per l’ennesima volta, dagli esiti delle urne.
L’Islanda conferma la crisi profonda in cui si trovano praticamente dovunque - in maniere differenti - l’usuale dicotomia destra-sinistra e i tradizionali cleavage politici. I Pirati, formazione che declina molto «alla scandinava» l’uragano antisistema - tra organizzazione del dissenso per via digitale e di hacking, valori postmaterialisti e un gruppo di leaders (intellettuali di tipo umanistico, letterati e artisti) - si proclamano difatti oltre la destra e la sinistra. E manifestano un atteggiamento naturalmente piuttosto «impolitico» nella gestione dei rapporti con gli altri partiti della coalizione (riconducibili invece alle varie tipologie delle sinistre nordiche), risultando dunque per molti versi similari all’italianissimo Movimento 5 Stelle. Il centrodestra, come avviene attualmente di frequente tra Europa e America, vede una frammentazione e moltiplicazione delle liste: da ultima la formazione Vidreisn, il potenziale ago della bilancia per dare la maggioranza all’alleanza capitanata dal Partito dell’Indipendenza, la forza conservatrice e di governo dal 1929 a oggi, che è arrivata prima (mostrando la richiesta di stabilità come preoccupazione forte di una parte dell’elettorato).
Deficit di rappresentanza, da un lato, e crisi di governabilità, dall’altro: e un voto per risolvere l’uno anziché l’altro problema. Come se nei sistemi politici postmoderni fosse giustappunto impossibile riuscire a riportare a sintesi i due termini fondamentali della questione democratica. E in questo la piccola isola dell’Atlantico si conferma emblematica dei travagli della politica in tutto l’Occidente.