La Stampa 2.10.16
Guerra dei due Saloni
Le ragioni per stare con Torino
Al Lingotto i lettori non incontrano solo libri e autori, ma tutti quelli che lavorano nell’editoria
di Sandro Ferri
fondatore e direttore editoriale di E/O
Rispondo
a Ernesto Franco su alcuni punti del suo intervento, mentre apprendo
con tristezza la sua intenzione di non partecipare al Salone del Libro
di Torino. Per iniziare vorrei definire quella che secondo me è la
differenza di fondo tra chi ha appoggiato il Salone di Torino e chi (i
grandi gruppi editoriali in primis) ha voluto la creazione di una nuova
fiera a Rho.
Ernesto Franco scrive, per minimizzare l’importanza
della presenza degli editori al Salone: «Gli editori sono, in essenza, i
loro autori e i loro libri. Nessuno è mai andato a un salone del libro
per spiare nei corridoi la silhouette di questo o di quell’editore in
carne e ossa…».
Questo è vero, caro Ernesto, ma moltissimi lettori
sono invece venuti per trent’anni al Salone di Torino per parlare con
gli editori, i redattori, gli uffici stampa, i grafici, gli editor, le
persone che lavorano nelle case editrici, che fanno i libri e che
possono raccontare ai lettori questa bellissima storia di lavoro e di
passione e che possono ascoltare le mille domande che il pubblico fa
perché vuole sapere come nascono i libri. Negli stand dei grandi editori
è difficile incontrare queste persone perché in generale questi editori
affidano le vendite a degli standisti o a dei librai. Ma negli stand
dei medi e piccoli editori il lettore trova l’editore in persona o
l’editor o le altre persone che per tutto l’anno concorrono direttamente
a pubblicare le opere.
È questa secondo me la grande differenza
tra il Salone del Libro di Torino e una fiera commerciale o la «libreria
più grande del mondo» sostenuta dai «milanesi-rhodensi». Ed è pure la
differenza tra una fiera con gli editori e un festival letterario
solamente con gli scrittori.
I visitatori del Salone di Torino
hanno trovato per trent’anni in quella sede l’occasione d’incontrare non
solo gli autori e i loro libri, ma tutte quelle persone che attorno ai
libri lavorano e che con loro condividono questa passione
ineguagliabile. E hanno potuto verificare che questi editori sono tanti,
alcuni piccoli e poveri ma tutti con la stessa passione. È stata una
festa durata trent’anni. Al centro di questa festa c’era per i lettori
l’incontro con queste migliaia di persone che lavorano nell’editoria,
gli autori ovviamente (che non pubblicano di certo solo nelle grandi
case editrici), ma anche tutti quegli addetti senza il cui lavoro,
entusiasmo e abnegazione i libri non esisterebbero, l’Italia sarebbe un
paese senza libri e senza idee e con povere emozioni.
Torino, il
suo Salone del Libro, è questo: questa festa, questo amore e questa
consapevolezza. Pochi giorni fa l’autore francese Mathias Enard mi
parlava dell’erotismo della cultura, ossia di come la cultura possa
essere un piacere erotico. Per me Torino è questo. Il piacere di mille
incontri attorno al libro.
Un secondo punto dell’intervento di
Ernesto Franco che mi pare quantomeno strano è che lui dice di scegliere
Milano, ma poi dedica metà dell’articolo a dare consigli su come
bisognerebbe fare il Salone a Torino. Credo che i consigli suoi e
dell’editore Einaudi sarebbero preziosi per la miglior riuscita del
Salone, ma allora perché non partecipare?
Franco scrive che «gli
editori, ed Einaudi con essi, alla fine andranno a Milano perché nessuno
ha le risorse per finanziarsi il lusso di doppi stand e doppie
spese….». A parte il fatto che non è vero che gli editori andranno a
Milano: ce ne sono almeno oltre cento che hanno già dichiarato che
andranno a Torino. Ma poi non vogliamo credere che Einaudi, la grande
casa editrice di Torino, non possa partecipare a una manifestazione
nella propria città perché non ha le risorse per farlo (in un anno poi
in cui si prevedono comunque prezzi più bassi per gli spazi espositivi).
Il
Salone di Torino è l’idea - che molto piaceva a Giulio Einaudi - che il
libro è un bene unico, non riconducibile al generico mondo delle merci,
un bene che trasmette passione e che mette così in contatto milioni di
esseri umani. È l’idea che questo bene non può essere prodotto solo
secondo le leggi del profitto, ma che richiede una qualità extra: la
passione.
Pochi giorni fa mia figlia Eva, 28 anni, mi diceva che
il bello del Salone di Torino è che non ha niente di «fighetto». Credo
intendesse dire che è una manifestazione autentica, dove si vedono le
persone che fanno i libri in carne e ossa, senza cosmesi e mitologie,
dove editori e lettori (e editori tra di loro) vanno all’osso della
questione: l’osso che è il libro, il piacere e la fatica di leggerlo e
il piacere e la fatica di pubblicarlo. Niente stilose quanto fumose
«installazioni» o «web-platforms» o sfilate di brand, solo libri e
persone che li fanno e li leggono.
Se vogliamo conquistare nuovi
lettori è meglio non illuderli, ma fargli capire che per accedere al
magnifico piacere della lettura non ci sono scorciatoie. Chi può
convincerli meglio di chi di questa passione ha fatto una ragione di
vita?