La Stampa 2.10.16
Il leader se la gioca come al Rischiatutto
Una campagna referendaria lunghissima. Personalizzatissima. Molto diversa da tutte le altre del passato, recente e lontano.
di Fabio Martini
Matteo
Renzi, per difendersi dalla suggestione del plebiscito sul governo da
lui stesso evocato e poi disconosciuto, da settimane ripete che il 4
dicembre si voterà sul merito della riforma costituzionale. Ma la
personalizzazione della sfida oramai è impetuosa. Anzitutto per la
durata anomala della competizione. Il presidente del Consiglio ha
iniziato a propagandare le buone ragioni della riforma costituzionale
sin dal maggio scorso: allora lo fece per «oscurare» elezioni
amministrative che si profilavano minacciose, ma è pur vero che il
presidente del Consiglio è in campo oramai da cinque mesi e ne mancano
ancora due al voto. Sette mesi sono tanti.
E quanto alla
personalizzazione - della quale Renzi si è pentito e che il presidente
emerito Giorgio Napolitano ancora gli rimprovera - quella è nei fatti:
un centinaio di comizi attendono il capo del governo nelle prossime 9
settimane, per non parlare dei dibattiti televisivi. Renzi ha già
affrontato i due sfidanti più ostici e più ostili, il professor Gustavo
Zagrebelsky e il direttore del «Fatto quotidiano» Marco Travaglio, ed è
improbabile che, per onorare la sua promessa di spersonalizzare, da
domani scompaia dagli schermi televisivi.
Una campagna
all’americana, quella di Renzi, perché come accade negli Stati Uniti,
stavolta il capo del governo si gioca la «vita»: o vince o perde.
Stavolta è bianco o nero, non è contemplato il grigio che nella politica
domestica ha imperato per decenni. Certo, intimamente Renzi può
coltivare la speranza del «win-win» - posso tornare a vincere anche se
perdo - ma conosce troppo bene il suo partito per non sapere che, in
caso di vittoria del No, i suoi detrattori interni punterebbero a
detronizzarlo.
Certo, l’alternativa secca vittoria-sconfitta sta
nella natura dicotomica del referendum, ma la postura del capo del
governo è stata decisiva: per legittimarsi definitivamente Renzi ha
deciso di mettere in gioco - e a rischio - un patrimonio personale,
politico e nazionale che lui stesso ha incrementato in due anni e mezzo.
Ma proprio in questo gusto per la sfida personale - quasi a voler
dimostrare continuamente di essere il migliore di tutti - sta la vera
peculiarità di questa campagna referendaria così diversa dalle altre: la
sfida di un leader contro tutti. A ben guardare l’intero sistema
politico e partitico, compreso un terzo del Pd (e forse del suo
elettorato), è contro Renzi, al netto delle piccole frazioni centriste
filo-governative. Se si proittassero sul referendum le intenzioni di
voto dei sondaggi per i partiti del No, Renzi non avrebbe speranze. E
invece il premier combatte e vincerlo da solo, varrebbe doppio. Ma la
diversità di questa lunga e personalizzata campagna referendaria sta
proprio nella solitudine del leader. Dopo le elezioni Europee del maggio
2014 (Pd al 41 per cento e partito-leader in Europa), Matteo Renzi
aveva in mano il Paese e nei vertici europei era guardato con invidia
dai colleghi più blasonati: «Ecco il matador!», disse Angela Merkel nel
salone del Justus Lipsius di Bruxelles durante il primo vertice
post-elettorale. Se ventinove mesi più tardi lo scenario è cambiato e il
matador rischia di essere «matato», una delle ragioni sta proprio nella
natura solitaria e poco inclusiva della leadership di Renzi. In due
anni e mezzo non è stata incoraggiata e valorizzata una classe dirigente
larga, in sintonia col suo programma di innovazione: manager e
amministratori ai quali lasciare briglia sciolta e visibilità, ma anche
una intellighenzia meno conformista di quella che ha spalleggiato per
tanti anni la sinistra comunista. Per ora Renzi gira l’Italia da solo,
ma la campagna referendaria è così lunga che può riservare ancora
diverse sorprese.