La Stampa 2.10.16
Sposa a 15 anni in Bangladesh
I giudici: pochi due anni al papà
Padova, la Cassazione ordina un altro processo: “È violenza sessuale”
di Andrea De Polo
A
15 anni aveva già sopportato un matrimonio combinato in Bangladesh e le
violenze sessuali quotidiane di un marito che lei non avrebbe mai
voluto. Poi si è scontrata anche con l’indifferenza del papà, che tra
lei e il genero ha sempre difeso quest’ultimo: la volontà del marito va
rispettata, sempre. Anche se la moglie ha 15 anni, e non vuole essere
solo un oggetto sessuale. Come se non fosse abbastanza, ha dovuto
assistere alla pena risibile che il Gup ha comminato al padre,
denunciato per maltrattamenti, dopo il patteggiamento: un anno e dieci
mesi di reclusione. Secondo il giudice, infatti, la condotta
dell’imputato «lungi dal costituire sintomo dell’intento di abbandonare
la figlia alla condotta violenta del fidanzato-promesso sposo
rappresenterebbe piuttosto l’espressione di una modalità maltrattante
che trova le sue radici nella formazione culturale». Tradotto: ha
lasciato che il marito la violentasse non perché le voglia male, ma
perché in Bangladesh si usa così. A ridare giustizia a una ragazzina
bengalese arrivata nel Padovano nel 2012 è stata la Corte di Cassazione,
che pochi giorni fa ha ordinato di rifare il processo al padre,
accusato di maltrattamenti in famiglia e violenza sessuale, giudicando
«intollerabile» per il nostro sistema giuridico che una ragazzina di 15
anni sia data in sposa a un uomo molto più adulto e ne debba assecondare
i desideri sessuali. Il padre non potrà più patteggiare: la pena,
stavolta, è destinata a essere assai più pesante.
La sposa bambina
di Padova si era sempre opposta a quel matrimonio combinato e celebrato
in Bangladesh nel 2012, ma la sua sensibilità non è mai stata presa in
considerazione dalla famiglia. Nemmeno l’arrivo in Italia, quello stesso
anno, ha cambiato le abitudini: la 15enne è stata costretta a subire
ogni giorno i maltrattamenti e le violenze del marito. Ogni giorno, per
un anno. Finché una mattina, stufa di rimbalzare contro il muro della
volontà paterna, ha denunciato tutto alle insegnanti e alla preside
della sua scuola. Aprendo un fronte legale destinato a fare
giurisprudenza. Il Procuratore generale della Corte d’appello di Venezia
ha presentato ricorso contro la prima, debole sentenza del Gup. La
Cassazione, nel bocciare l’operato del Gup, ha usato toni insolitamente
duri, facendone una battaglia di principio: «Quel che maggiormente
sorprende – recita la sentenza dello scorso 23 settembre – è la patente
di subcultura attribuita dal giudice al padre per giustificare il
delitto di maltrattamenti come delineato nel nostro ordinamento». Un
comportamento che, in Italia, non può e non deve essere legittimato. Non
a caso, in un procedimento parallelo il marito della ragazzina è stato
condannato, senza possibilità di patteggiare.
Per i giudici della
Cassazione l’ultimo capitolo della dolorosa vicenda va riscritto.
Introducendo anche un altro principio: una ragazzina di 15 anni ha il
diritto di vedere nel padre una figura protettiva. Come ribadisce, in un
altro passaggio, la sentenza: «Il triangolo familiare che vede
protagonisti da un lato suocero e genero, tra loro alleati in una sorta
di patto di ferro che doveva vedere la ragazza assoggettata ai voleri
sessuali del marito, dall’altro la minore, vittima sacrificale in
ossequio a regole non scritte di legittimità del dominio sessuale per
effetto del vincolo matrimoniale secondo i costumi indiani, fa sì che il
padre debba in realtà considerarsi soggetto tenuto a vigilare sulla
figlia minore per evitare che la stessa potesse subire violenze sessuali
che pure la ragazza aveva avuto modo di denunciare ripetutamente,
rimanendo inascoltata».