La Stampa 28.10.16
Il Paese del fragile benessere
di Antonio Scurati
Siamo
il Paese del fragile benessere, non quello della grande bellezza
(quella va bene per la notte degli Oscar). Viviamo sotto il vulcano. Da
sempre e, forse, per sempre. Un meraviglioso vulcano, spruzzato di neve
in inverno e splendente di Ginestre in estate.
Per questo ce ne dimentichiamo: il vulcano è ancora attivo.
Che
cosa significa vivere sotto il vulcano? Sotto il vulcano e sopra la
faglia. In che misura questo nostro essere figli di una terra dove la
terra trema ha influenzato e influenza il carattere degli italiani? In
che modo un’esistenza condotta quotidianamente con nelle orecchie il
ronzio sinistro di sciami sismici modula la psicologia di una nazione?
Un tempo lo sapevamo e adesso abbiamo smesso di chiedercelo.
Personalmente
rigetto la facilità cialtrona con cui l’italiano spesso vanta, di
solito davanti a un piatto di spaghetti, di vivere nel «Paese più bello
del mondo». Ma basta viaggiare per il mondo - non a Parigi, Londra o New
York, ché quello non è il mondo - per rendersi conto di essere stati
privilegiati dalla sorte. Per noi la roulette delle nascite si è fermata
su di una casella fortunata. Per mitezza climatica, pregevolezze
paesaggistiche, bellezze artistiche, varietà umane, ricchezze culturali,
l’Italia è sicuramente uno dei luoghi del pianeta dove si conosce in
abbondanza la dolcezza del vivere. Anche la sua mollezza, ovviamente. E
tutti ce lo riconoscono. L’idea dell’italiano bon vivant, che ci
crocifigge con lo spillo dell’entomologo nella teca degli esemplari
magnifici e inutili, ci corrisponde. Sono luoghi comuni, è vero, ma nei
luoghi comuni albergano verità profonde e vastissime, spesso inesplorate
solo dagli autentici imbecilli. Ma le condizioni che fanno dell’Italia
il Paese della «dolce vita», della «bella giornata», del buon vivere e
del benessere ricevuto come diritto di nascita, sono in buona parte le
stesse che lo minano fin dalle fondamenta.
Questa penisola snella,
agile, lunga e stretta, protesa come un dito puntato su di un mare
antico, questo paesaggio rinfrescato da decine di salubri brezze,
variegato di pianure, colli, coste e montagne, è terra di terremoti.
Questo popolo di poeti, santi, navigatori, cantanti e chef stellati è
capace di coltivarla con una mano ricca di sapienza artigiana nella
bellezza di orti e di borghi e con l’altra di abbandonarla all’incuria
di decadenza e crolli.
La mappa della pericolosità sismica è un
emblema di questa nostra mirabile miscela di fragilità e complessità
policroma: uno stretto lacerto di mondo ospita l’intera gamma dei
colori, dai rossi della terribile dorsale appenninica, ai gialli delle
zone collinari adiacenti, ai verdi delle coste tirreniche, fino agli
azzurri tenui della Pianura Padana e ai grigi rassicuranti della
prealpina. Nati e cresciuti su questo manto d’Arlecchino, stiamo fragili
nell’esistenza storica, in un disquilibrio perenne tra ipermodernità
d’avanguardia e brutale premodernità, stiamo incerti nella mappa
geografica tra Europa e Africa, tra Occidente e Levante. Il manto
terrestre su cui muoviamo i nostri passi è una crosta sottile - lo
sappiamo, lo avvertiamo nelle vibrazioni sorde della terra -, la nostra
smagliante civilizzazione è appena uno strato di smalto sul nulla. Siamo
gente di confine, passeurs perenni, migranti per vocazione, frontalieri
tra la gioia e la disperazione, tra la vita brillante e la morte
improvvisa.
A lungo si è pensato che questa condizione fosse
all’origine sia dei vizi sia delle virtù del carattere nazionale. Le
dobbiamo il peggio di noi stessi: gli egoismi, i campanilismi, i
servilismi, le superstizioni, gli odi di fazione, il respiro corto, il
ghigno furbo, le mani sporche, la rarità di autentici statisti, il
troppo cinismo, scetticismo, individualismo, pagnottismo, familismo,
fatalismo. La facilità con cui dubitiamo delle magnifiche sorti e
progressive, l’incapacità di credere in qualsiasi idea o persona che non
si possa invitare a cena. Tutto ciò è all’origine dell’inclinazione
meschina che ci spinge, davanti ad ogni nuovo terremoto, alluvione,
naufragio, a fare gli scongiuri e a mormorare: «E’ toccato a te e non a
me». Ma la policroma, variegata mappa della pericolosità sismica, è
anche, in qualche, modo, all’origine della nostra parte migliore: la
nostra preferenza per la speranza comica piuttosto che per la
disperazione tragica, il nostro genio per il melodramma, l’amplissima
articolazione della nostra esperienza che ci consente, a qualsiasi
latitudine e in qualsiasi tempo, di incontrare gli altri, di adattarci
alle situazioni, di «inventarci la vita», la nostra rara e preziosa
capacità di empatia, di solidarizzare con il prossimo. E’ la somma delle
virtù che, di fronte al sisma, ci spinge a pensare: è toccato a te ma
sarebbe potuto toccare a me.
Oggi viviamo di nuovo al crocevia di
due grandi cataclismi, uno ambientale e l’altro umano: l’emergenza
ecologica (di cui le distruzioni causate dai terremoti fanno parte) e le
migrazioni dei popoli che vengono a morire sulle nostre coste. Sarebbe
bello se questa tormenta di terremoti aiutasse noi italiani, in un’epoca
che favorisce con ogni mezzo l’indifferenza mediatica verso le sciagure
altrui, a ritrovare il meglio di noi stessi: il pietoso sentimento di
appartenenza a un comune destino umano.