La Stampa 27.10.16
Torino, compromesso storico nella città che non amava il duce
Lo squadrismo non attecchì mai nel capoluogo operaio Mussolini preferì puntare sulla Fiat e disconoscere i violenti
di Alessandro Barbero
Come
per tante battute fulminanti, non si sa chi sia l’inventore. Il primo,
cioè, che in una piola di Borgo San Paolo o di Barriera di Milano, per
alludere sottovoce al Duce disse, con una strizzata d’occhio: Monsù
Cerutti. Pronunciato, s’intende, in piemontese, per poi spiegare, in
rima: cul ch’a lu fica ’n cül a tüti. Quel che è certo è che il modo di
dire fece presa, e continuò a essere usato dagli operai piemontesi, i
più anziani dei quali si ricordavano benissimo di quando Mussolini era
il più rivoluzionario dei socialisti, e pensavano giustamente di avere
un conto aperto con lui.
In bocca ai vecchi della Fiat, la
definizione era più che giustificata: ai sistemi di Monsù Cerutti la
classe operaia piemontese aveva pagato il conto più alto. Subito dopo la
fine della guerra squadracce di tutti i generi scioglievano a
manganellate le manifestazioni operaie, col plauso degli industriali
«che a colpi di biglietti da mille tentavano di barattare la loro difesa
con il nostro intervento», come ricordò sarcastico Cesare Maria De
Vecchi, presidente degli ex combattenti torinesi e quadrumviro della
marcia su Roma. Prima ancora che nascesse lo squadrismo fascista, gli
arditi in camicia nera occupavano la Camera del Lavoro di corso
Siccardi, guidati dal falso capitano e sedicente medaglia d’oro Gino
Covre, personaggio emblematico di un certo sottobosco che si ritrova
spesso mescolato con la storia dello squadrismo (in realtà era un
ragioniere della Cassa di Risparmio di Torino licenziato per sottrazione
di fondi).
Contro i sindacati
Poi, appunto, arrivò lo
squadrismo vero: nel settembre 1919 Piero Brandimarte, capitano, lui sì,
dei bersaglieri, medaglia d’argento, e dopo la smobilitazione ridotto a
lavorare come commesso di merceria, fonda la prima squadra d’azione
piemontese, La Disperata. Il 25 aprile 1921 gli squadristi, reclutati
soprattutto fra la piccola borghesia, gli impiegati e gli studenti,
danno l’assalto per la seconda volta alla Camera del Lavoro,
distruggendola definitivamente e dandola alle fiamme. Neppure la Marcia
su Roma mette fine alle violenze: nemmeno due mesi dopo, fra il 18 e il
22 dicembre 1922, gli uomini di Brandimarte fanno il giro dei quartieri
operai, portando via dalle loro case 24 comunisti e socialisti; si
ritroverà solo una quindicina di cadaveri, degli altri non si saprà mai
più nulla.
Ma queste erano cose che andavano bene all’inizio: poi
bisognò tornare alla normalità, e Monsù Cerutti vigilava. Le squadre più
violente vennero sciolte; qualche testa calda continuò a riunirsi
attorno a un leader squadrista di nobili origini, il conte Gaschi di
Bourget, e aggirò i decreti di scioglimento fondando beffardamente una
«Mutua Squadristi», organizzazione che si permise di telegrafare anche
al Duce, suscitandogli un comprensibile malumore. Alla fine, però, il
conte Gaschi fu espulso dal partito e la sua organizzazione sciolta a
forza. Anche Brandimarte rischiò di finir male, quando la matura
poetessa Amalia Guglielminetti, già amante di Guido Gozzano, orchestrò
un intrigo contro un altro ex amante, lo scrittore Pitigrilli,
denunciandolo falsamente per attività antifascista; Brandimarte,
coinvolto, venne condannato a dieci mesi di prigione. La scampò
allineandosi al regime e ripudiando i violenti di cui s’era circondato
fino a quel momento; chi non ebbe la saggezza di seguirlo sperimentò
fino in fondo cosa voleva dire mettersi contro Monsù Cerutti. Nel 1934
il federale di Torino, Gastaldi, dichiarava tranquillamente: «I vecchi
squadristi sono tutti delinquenti».
La bestia nera
Riportare
la pace nelle strade di Torino era indispensabile per guadagnare il
consenso dell’unico cittadino a cui il Duce non riuscì mai ad applicare
la cura Cerutti: il senatore Agnelli, fondatore e proprietario della
Fiat. Agnelli era la bestia nera dei sindacati fascisti e dell’ala più
rivoluzionaria del partito, che credeva davvero alla retorica
antiborghese: Farinacci pensava a lui quando esortò Mussolini a farla
finita con «le note carogne industriali». Ma il Duce sapeva quando era
il caso di fermarsi. Certo, Agnelli faceva perdere la pazienza a
chiunque: era capace di opporsi allo scioglimento dei sindacati di
sinistra perché preferiva negoziare con Bruno Buozzi piuttosto che con i
sindacati fascisti, e di licenziare migliaia di operai per ricattare il
governo, quando la politica economica del regime andava contro ai suoi
interessi. Mussolini quella volta la pazienza la perse e scrisse al
prefetto di Torino rilevando «il grave ed assurdo pericolo che la Fiat
finisca per considerarsi un’istituzione intangibile e sacra dello
Stato». Alla fine, però, la pace conveniva a tutti e fu fatta, in nome
dei colossali investimenti che il regime decretò a Torino e in Piemonte
per combattere la crisi del ’29: i profitti vennero equamente spartiti
tra la Fiat e il quadrumviro De Vecchi con la sua famelica famiglia (il
podestà Sartirana aveva sposato una nipote). «Il Conte De Vecchi è in
questo momento, lo dice lui stesso, il padrone di Torino, ed è in
stretto connubio con il Senatore Agnelli», rilevava nel 1934
un’informativa di polizia.
Alla fine, gli operai avevano ragione,
chi era rimasto a bagno erano soltanto loro; ma in una città operaia la
loro opinione finiva per influenzare il clima generale. «Udendo discorsi
che qui si fanno ovunque, si ha la sensazione di trovarsi in una città
che non è fascista», segnalava un altro informatore nel gennaio 1940:
mancavano cinque mesi allo scoppio della guerra che avrebbe travolto il
regime.