La Stampa 26.10.16
Primo Levi e i tedeschi
Fino all’ultimo cercò di capire
Le lettere che gli arrivavano dalla Germania nel Dopoguerra dovevano far parte di un libro che non vide mai la pubblicazione
di Martina Mengoni
Sopravvissuto
ad Auschwitz, Primo Levi non tronca i suoi rapporti con i tedeschi.
Nell’ultimo dopoguerra, il confronto con quel popolo sarà una storia di
incontri, letture, scambi epistolari, tentativi editoriali, elaborazioni
letterarie e, soprattutto, di domande che attendono una risposta. Che i
tedeschi abbiano rappresentato un rovello per Primo Levi (uomo,
scrittore, testimone, perfino chimico) è un dato di fatto. Come questa
relazione difficile, ondivaga, a tratti entusiasta, a tratti frustrante,
si sia modificata nel tempo, dentro e fuori la sua scrittura, è quanto
occorre ricostruire. Oggi lo si può fare contando su una mole di
documenti poco noti o inediti, provenienti da archivi di tutta Europa.
Fin
dal 1962 Levi si era creato una rete di corrispondenti dalla Germania
Ovest: i primi lettori della traduzione tedesca di Se questo è un uomo,
apparsa nel novembre del 1961. [...]
Sempre in quegli anni, Levi
avviò uno scambio epistolare con Hermann Langbein, storico austriaco, ex
triangolo rosso (comunista) in Lager, segretario generale del Comitato
Internazionale di Auschwitz; Langbein lo coinvolse nel progetto di una
grande antologia di testimonianze di vittime e carnefici di Auschwitz.
Doveva uscire in contemporanea con la prima istruttoria del processo di
Francoforte contro i responsabili del campo; ma il libro fu pubblicato
già nel 1962 e vi furono inclusi due capitoli di Se questo è un uomo.
Nel 1964 un ulteriore capitolo di Se questo è un uomo uscì in un
volume-strenna che le acciaierie Hoesch di Dortmund distribuirono ai
loro dirigenti e dipendenti. Nella Germania di Hitler le grandi
industrie avevano dato un sostegno decisivo al regime. Ora una di quelle
industrie pubblicava un volume sulla fratellanza, di ispirazione
cattolico-liberale, curato dallo stesso Albrecht Goes. In un contesto di
invito all’accoglienza e all’ecumenismo cristiano, Levi aveva scelto il
capitolo Ottobre 1944 che si concludeva con la ben nota sentenza «Se io
fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn».
Per sua stessa
ammissione, Levi riceve in quegli anni «una quarantina di lettere» di
tedeschi. Nel 1963 annuncia in due interviste che Einaudi intende
pubblicarle. È una non-notizia, perché il libro non si farà, ma è anche
una notizia: apprendiamo che per Levi, fin da allora, le lettere dei
lettori tedeschi possedevano una dignità editoriale e di contenuto
autonoma rispetto al libro che le aveva originate.
Più tardi, Levi
avrebbe affidato quelle corrispondenze (denominandole «progetto
tedesco») a Kurt Heinrich Wolff, un sociologo tedesco naturalizzato
statunitense. Wolff era un «tedesco anomalo». Fuggito dalla Germania
perché ebreo, rifugiatosi in Italia negli Anni Trenta, emigrò infine
negli Stati Uniti diventando professore alla Brandeis University. Nei
primi Anni Cinquanta, invitato da Max Horkheimer, partecipò ai
Gruppen-Experimenten dell’Istituto di Sociologia di Francoforte, che
aveva appena riaperto dopo la guerra, redigendo due studi: uno
sull’autorappresentazione della popolazione tedesca dopo la guerra
(German attempts at picturing Germany), l’altro sulla denazificazione
della Germania (The American Denazification of Germany). Nel 1963, Wolff
ottenne una borsa Fulbright in Italia, e Levi entrò in contatto con lui
proprio in quei mesi, probabilmente tramite la sorella Anna Maria e il
sociologo Franco Ferrarotti. Sono queste le premesse in base alle quali
gli affidò le lettere del «progetto tedesco».
Che cosa comportò,
in termini di auto-percezione, di riflessione su Auschwitz, di
progressione creativa di Levi, il fallimento di quel progetto, cioè di
un libro fatto di dialoghi epistolari con tedeschi? Così come la
pubblicazione di un libro, anche la sua mancata pubblicazione può
cambiare la vita, l’opera e l’autocoscienza di uno scrittore. In molte
interviste dei suoi ultimi anni Levi ha parlato di Se questo è un uomo
come una memoria-protesi: i ricordi che aveva messi per iscritto
tendevano a sovrapporsi ai ricordi ricordati: «una memoria esterna che
si interpone tra il mio vivere di oggi e quello di allora».
La
mancata pubblicazione delle lettere di tedeschi negli Anni 60 ebbe
l’effetto opposto: quelle corrispondenze, rimaste chiuse nella loro
cartellina, continuarono nel corso degli anni a esercitare la loro
carica interrogativa dall’interno, in maniera regolare e persistente,
senza che Levi avesse avuto la possibilità di oggettivarne i significati
attraverso la scrittura. Sarebbero così diventate l’ultimo capitolo del
suo ultimo libro, I sommersi e i salvati: dove ebbero il titolo Lettere
di tedeschi, inevitabile quanto il dialogo che le aveva propiziate.