mercoledì 26 ottobre 2016

La Stampa 26.10.16
Così abbiamo ritrovato la flotta perduta di Kubilai Khan
Partita nel 1281 dalla Cina alla conquista del Giappone, distrutta e affondata dal tifone, è stata recuperata da una missione italo-nipponica. Una mostra racconta l’impresa
di Maurizio Assalto

Agli scolari di Takashima, una minuscola isola all’estremità meridionale del Giappone, nella prefettura di Nagasaki, veniva raccontata come una favola: la storia di un’immensa flotta nemica, arrivata in tempi remoti dalla Cina, distrutta e consegnata alle profondità del mare dai kamikaze, i «venti divini» mandati in soccorso della patria - quelli stessi che hanno dato il nome ai piloti nipponici suicidi della seconda guerra mondiale. E qui ogni anno, il 15 agosto, anniversario del prodigio, si celebra una grande festa e nel tempio zen si onorano i morti di entrambe le parti.
Alla base della leggenda c’è però la realtà storica, documentata in un testo cinese del XIV secolo, lo Yuan shi (Cronache degli Yuan), che riportando fatti avvenuti mezzo secolo prima parla di una spedizione di 4400 imbarcazioni, con 150 mila uomini (una palese esagerazione: qualche cosa di paragonabile solo allo sbarco in Normandia), allestita nel 1281 dal Gran Khan mongolo Kubilai, nipote di Gengis Khan, noto in Occidente per avere ospitato alla sua corte Marco Polo. Mancava tuttavia il riscontro oggettivo. Come e dove erano finite le navi?
Uno dei maggiori misteri con cui si è confrontata l’archeologia è ora risolto, grazie al lavoro di una missione congiunta italo-giapponese, di cui dà conto una mostra fotografica al Mao di Torino («La flotta perduta di Kubilai Khan», fino al 20 novembre, a cura di Jada Mucerino, con gli scatti di Marco Merola e David Hogsholt). Tutto è cominciato all’inizio degli Anni 70.
La «Corrente nera»
«Mozai Torao, un ingegnere, pioniere dell’archeologia di ricerca, basandosi su antiche fonti scritte aveva identificato l’area del naufragio nella baia di Imari, dove si trova Takashima. Qui ogni estate si abbatte il tifone, la “Corrente nera” come la chiamano i locali, che viaggia a 250 chilometri l’ora seminando distruzione». Chi parla è Daniele Petrella, lo studioso italiano, specializzato in archeologia dell’Estremo Oriente e in ricerche subacquee, che da una decina d’anni collabora con i giapponesi. «Mozai parlava con la gente del posto, con i pescatori che gli mostravano quello che ogni tanto tiravano su con le reti: vasellame soprattutto, anche del XIII secolo, che però non era ricollegabile alla flotta».
Finché un pescatore gli mostrò qualche cosa di diverso: un sigillo bronzeo che su una faccia recava iscrizioni in lingua pagh’sha, l’idioma artificiale, una specie di esperanto, creato a tavolino da Kubilai Khan nel 1276 (e destinato a durare appena sei anni) nel tentativo di unificare linguisticamente il suo sconfinato impero multietnico; sul retro la data di fabbricazione, 1279. «Avevamo quello che in archeologia si definisce il terminus ante quem, il limite cronologico prima del quale un fatto non può essere accaduto», interviene Marco Merola. «Poiché noi sappiamo che i Mongoli hanno tentato di invadere il Giappone due volte, nel 1274, quando vennero respinti, e nel 1281, non restava che quest’ultima data, quella della seconda spedizione di Kubilai».
Condottiero colto e tollerante (in segno distensivo verso i popoli assoggettati aveva mutato il nome dinastico Menku, da cui il termine «Mongoli», nel sinizzante Yuan), a capo di un impero che si estendeva dalla Persia alla coste settentrionali della Cina, a Kubilai Khan restava solo da conquistare il Giappone - una mossa che gli serviva anche per ricompattare il regno in un periodo di crisi interna. Poiché il suo era un popolo di cavalieri delle steppe, dovette fare ricorso alle barche dei sudditi cinesi, giunche fluviali poco adatte a un tragitto di 1400 chilometri in mare aperto. Un rischio.
La navigazione proseguì bene fino in vista della città di Hakata (oggi Fukuoka), quartier generale del governo nel Sud del Giappone. Qui si sarebbero dovuti ricongiungere i due tronconi della flotta, partiti l’uno da Quanzhou, nella Cina meridionale, e l’altro da Happo, in Corea. Ma l’incontro non avvenne mai. Il primo gruppo di navi subì un rallentamento in seguito alla morte di un ammiraglio, e mentre il secondo troncone veniva affrontato e respinto dai samurai continuò a veleggiare ignaro verso il buco nero che l’avrebbe inghiottito. A Takashima.
«Come un autoscontro»
Dopo il ritrovamento del sigillo, le ricerche di Mozai Torao proseguirono con scarsi fondi e senza successo fino all’86, quando il testimone passò al giovane archeologo Hayashida Kenzo, fondatore in seguito dell’Asian Research Institute for Underwater Archaelogy (Ariua). Ma nonostante il maggiore budget a disposizione, le ricerche restavano infruttuose. Finché nel 2006 entra in scena Petrella, all’epoca ventottenne dottorato dell’Orientale di Napoli, presidente dell’International Research Institute for Archaelogy and Ethnology (Iriae) con sede all’ombra del Vesuvio ma con 120 soci, oggi, in tutto il mondo.
«Ai giapponesi mancava l’esperienza metodologica sviluppata nel Mediterraneo» racconta l’archeologo. «Così nel 2006 chiesi a Hayashida di ospitarmi a mie spese. Proposi una metodologia nuova, studiando le correnti e i fondali, e quindi un diverso posizionamento delle griglie d’indagine». I risultati non tardarono e oggi la missione dell’Iriae, sostenuta dal nostro ministero degli Esteri, rappresenta l’unica collaborazione archeologica di un istituto occidentale con il Giappone.
«La flotta di Kubilai fu investita dal tifone alle spalle, quando era vicina alla baia di Imari», ricostruisce Merola. «Una baia piccola, con molti scogli affioranti, e troppe navi: almeno un migliaio, presumiamo, per un totale di 40 mila uomini. Cercare riparo qui fu una scelta infelice. Le imbarcazioni si urtavano, come in un gigantesco autoscontro. Il resto lo fecero i fondali vulcanici, bassi e conformati a lame». Non tutte le navi, però, colarono a picco. Quelle che si salvarono furono attaccate dai veloci barchini degli incursori samurai che salivano a bordo e decapitavano i nemici provati dal tifone, per poi portare i macabri trofei allo shogun che aveva promesso tanta terra per quante teste mozzate.
Le bombe da lancio
Di questi vascelli non si è più trovata traccia. La fortuna postuma di quelli affondati sta invece in quegli stessi fondali che avevano contribuito a farli a pezzi. «Le sabbie fangose, continuamente rimestate dalle correnti, hanno agito come una coperta, salvando il fasciame dalla corrosione. Un miracolo», dice Petrella. Uno dopo l’altro sono così usciti dal mare migliaia di reperti lignei, trasportati nel Museo Storico ed Etnografico di Takashima, dove sono conservati in grandi vasche di acqua di mare e settimanalmente trattati, con dedizione tutta orientale, con un polimero che li preserva dai parassiti.
Dal numero delle ancore ritrovate, le navi finora identificate sono 260. Tra gli altri reperti recuperati, mortai, forni, vasellame, elmi, specchi, perfino un’armatura di cuoio con le giunture di rame, perfettamente conservata in uno scrigno sigillato con il mastice. Ma il ritrovamento più inatteso è quello dei teppo, bombe da lancio di terracotta riempite con polvere da sparo e schegge di ferro. «Un’arma micidiale», osserva Petrella, «che credevamo fosse stata creata due secoli dopo in Occidente. Del resto era già raffigurata su un emakimono giapponese, un disegno su carta di riso arrotolata lungo 37 metri, che racconta il tentativo di invasione mongola: ma fino a quando non abbiamo trovato i teppo non riuscivamo a interpretarlo».
Da quelle prime bombe rudimentali che dovevano colpire il Giappone nell’agosto del 1281, all’atomica che esplose nello stesso mese del 1945 nella medesima prefettura di Nagasaki; dai kamikaze che una volta salvarono, a quelli che nulla poterono alla fine della seconda guerra mondiale. A distanza di sette secoli, da queste parti, la storia ha fatto cortocircuito.