il manifesto 26.10.16
I giovani senza attributi e la voglia di cambiamento
di Aldo Carra
Bamboccioni,
choosy e adesso mammoni. La serie degli aggettivi con i quali
inquadrare i giovani continua ad arricchirsi. Naturalmente questo non
significa aver capito i problemi dei giovani ed esserci attrezzati per
affrontarli.
Anzi se si considera che essi appaiono addirittura
aggravati rispetto agli anni passati sembra sia accaduto proprio il
contrario. Questo si può dire per il fenomeno che in questi giorni ha
alimentato le prime pagine di molti giornali, la permanenza nelle
famiglie di origine dei giovani fino a 34 anni. Un problema che si
scopre ad ogni uscita dei dati Eurostat e che immancabilmente produce le
stesse semplificazioni: i giovani si crogiolano quindi sono
bamboccioni, non vogliono fare tutti i lavori quindi sono choosy,
preferiscono il calore domestico quindi sono mammoni. Così va e dopo
svariati anni ritroviamo oggi dati peggiorati e distanze dall’Europa
accresciute.
Elaborazioni sui database Eurostat realizzate in
passato hanno dimostrato la correlazione del fenomeno con svariati
fattori strutturali, culturali ed economici. La precarietà crescente del
lavoro non consente di fare progetti di vita per il futuro, sia
individuali che di coppia. La difficoltà a trovare case in affitto a
prezzi bassi spinge a restare nella casa di famiglia e scoraggia anche i
tentativi di cercare un futuro in altre città. Questi e altri fattori
si sono aggravati negli ultimi dieci anni per l’esplosione e per il
perdurare della crisi. Non é un caso che nel confronto tra paesi i tassi
di permanenza maggiori si registrino dove più alti sono i tassi di
disoccupazione e gli affitti.
Naturalmente questo non significa
che la struttura della famiglia italiana non c’entri niente. I fattori
storici – il passato non lontano di società agricola – quelli culturali e
ambientali – il senso della famiglia sotto l’aspetto affettivo,
sociale, religioso, di unità economica – influenzano certamente i
comportamenti di cui parliamo e incidono sulle differenze come quelle ad
esempio con i paesi del Nord Europa che registrano tassi di permanenza
in famiglia molto più bassi dei nostri.
Ma esiste anche l’altra
faccia della medaglia. Questi fattori di resistenza del nucleo familiare
hanno fatto in questi anni da ammortizzatore di una crisi lunga e che
permane senza che se ne intraveda la fine. É evidente, quindi, che il
problema principale non è costituito dai fattori che ci portiamo dietro
con i loro aspetti negativi e positivi. È che non abbiamo fatto nulla
per favorire la mobilità sociale e territoriale e lo sviluppo culturale
dei diversi strati di popolazione in modo da produrre una evoluzione
della nostra società. Abbiamo prodotto slogan, ma procedere per
aggettivi e schemi semplificati non aiuta perché non esiste un giovane
standardizzato da assumere come modello di comodo per affibbiare
etichette con le quali pensiamo di aver capito e risolto il problema.
Esistono
giovani con comportamenti diversi tra paesi e strati sociali e i
modelli di vita più o meno autonoma dalla famiglia sono correlati ai
contesti economici, sociali, culturali. Il fatto che la crisi perduri
non crea fiducia nel futuro e non spinge certo al cambiamento.
Forse
è in questo contesto di sfiducia nella politica e nelle sue parole che
si collocano anche i risultati dei sondaggi sul referendum dai quali
emerge, nelle intenzioni di voto, un comportamento specifico dei
giovani. Emerge, infatti, che il Sì raccoglie più consensi nelle fasce
di età elevate (27% contro il 24% dei No ) e meno in quelle giovanili
(19% contro il 25% dei No ). Il tutto in uno scenario in cui il 49% dei
giovani non voterebbe a fronte del 41% degli anziani. Ma anche qui ci
sono giovani e giovani se si pensa che i giovani di Confindustria hanno
deciso di impegnarsi per il Sì.
Una relazione con la collocazione
sociale si deduce anche dai consensi per titolo di studio ( il Sì
avrebbe il 33% tra i laureati ed il 19% tra coloro che hanno la licenza
elementare) e per area geografica (il Sì avrebbe il 28% al Centro-nord e
il 17% al Sud e nelle isole). Insomma i soggetti che dovrebbero avere
più interesse al cambiamento sembrano i meno affascinati dal cambiamento
della Costituzione su cui Renzi sta investendo tutto trascinando il
paese in uno scontro senza precedenti.
Forse i giovani vorrebbero
ben altri cambiamenti più rivolti alle loro condizioni concrete di vita e
al loro futuro. Ma prenderne atto richiederebbe una nuova politica
economica e realmente redistributiva. A meno che non si pensi che anche i
giovani sono conservatori e che stanno con i professoroni.