La Stampa 25.10.16
La pericolosa spirale dell’Unione
di Stefano Lepri
Più
il centro dell’Europa diventa incapace di fornire una interpretazione
convincente del bene comune, come è avvenuto anche per il trattato
commerciale con il Canada, più i singoli Stati hanno gioco a proporre un
«meglio da soli». È una spirale pericolosa che va fermata.
Nella
controversia che sta montando con la Commissione europea ci sono torti
da entrambe le parti. Chiedere all’Italia una legge di bilancio che sia
garanzia anche per il 2018 - senza limitarsi a far tornare i conti del
2017 con entrate temporanee - è giustificatissimo.
Lo è tanto più,
si potrebbe aggiungere, perché le entrate una tantum da sanatorie
fiscali sono aleatorie, e danno la tentazione di renderle meno incerte
allargandone le maglie. Ed essere più indulgenti verso gli evasori di
ieri, una lunga esperienza italiana lo insegna, compromette le entrate
di domani.
Dall’altro lato, è comprensibile che l’Italia sia insofferente verso le regole di bilancio europee.
Opportuno
quando ci aiutò a tirarci fuori dalla crisi dell’euro, il Patto di
stabilità ora non è adatto ad avviare l’area su un sentiero di crescita.
Nel loro insieme, i 19 Paesi membri dell’Eurozona vivono al di sotto
dei propri mezzi per circa il 3%.
Solo una politica economica
comune potrebbe sfruttare in pieno le risorse ora sprecate. Non è
possibile perché nessuno Stato vuole rinunciare a parti di sovranità e
molti cercano soltanto di sfruttare tutti i margini che trovano a loro
vantaggio nelle regole in vigore.
Ci sono buone ragioni per essere
insoddisfatti. Tanto più se si vede come in Germania il dibattito sul
futuro dell’euro si evolve. Voci ascoltate dal governo di Berlino, come
quelle dell’ex presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer e dell’ex capo
economista della Bce Otmar Issing, propongono inaccettabili modifiche
che sotto il pretesto di meglio disciplinare gli Stati deboli
renderebbero l’euro più fragile.
Ma già era arduo in linea di
principio che potesse essere l’Italia per prima a dire che così non si
può andare avanti. Troppo fresco è il ricordo di quell’autunno 2011 in
cui il dissesto del nostro Stato minacciava di trascinare nel baratro
tutti gli altri.
Per giunta, la legge di bilancio 2017 per come è
concepita si rivela il modo peggiore di porre il problema. Aggiungendo
alle entrate una tantum una serie di contentini a lobby varie, si presta
a confermare i più vieti cliché stranieri sulla politica italiana.
Finora Matteo Renzi era stato apprezzato in altre capitali perché
sembrava capace di operare una rottura.
Per coagulare più ampie
forze in Europa contro l’austerità ossessiva dei tedeschi, occorrerebbe
mostrarsi capaci di innovare. La parte della manovra che punta sugli
investimenti e sulla produttività non è di dimensioni sufficienti a
riscattare il resto.
Siamo su una brutta china. Il farsesco
naufragio del trattato con il Canada (ma come si può temere che più
stretti commerci con una economia che è quattro quinti di quella
italiana possa recar danno all’intero continente europeo?) muove dal
ristretto interesse di qualche migliaio di allevatori del Belgio
vallone.
In entrambi i casi, il «fare da soli» è illusorio. Senza
un potere negoziale comune sul commercio, in quali rapporti di forza i
27 Paesi si troverebbero, poniamo, di fronte alla Cina? Quanto alla
politica di bilancio, l’Italia con le sue sole forze per smuoversi dal
ristagno dovrebbe compiere una scelta ben più espansiva, rischiosissima
con l’elevato debito che pessimi governi del passato ci hanno lasciato
in eredità. Ma se insieme non si riesce a far nulla, la disgregazione è
in vista.