La Stampa 24.10.16
“Liberate il martire Bekzhanov”. Il giornalista è in carcere da 17 anni
Rapito, rimpatriato a forza e torturato, è detenuto in Uzbekistan dal 1999
Dopo la morte del dittatore Karimov, al via una campagna per la sua liberazione
di Lucia Sgueglia
In
cella da 17 anni per aver osato criticare l’ultimo satrapo d’Asia
centrale, brutalmente torturato per fargli confessare «reati
anti-statali», e proprio quando stava per uscire nel 2012, condannato ad
altri 5 anni per possesso non autorizzato di un tagliaunghie. La storia
di Muhammad Bekzhanov, 62, cittadino dell’Uzbekistan, uno dei
giornalisti in prigione da più tempo al mondo, è un incrocio tra orrore e
quel surrealismo kafkiano caro a una parte del mondo ex sovietico,
specie tra le steppe asiatiche, in uno degli Stati più repressivi al
mondo.
Uno Stato oggi in cerca di un futuro. Bekzhanov fu rapito
dai servizi segreti uzbeki nel marzo 1999 a Kiev, Ucraina, dove si era
rifugiato continuando a pubblicare in segreto Erk, giornale dell’omonimo
partito di opposizione bandito in patria di cui era caporedattore, che
spediva clandestinamente come i samizdat in Uzbekistan. Rimpatriato a
forza, fu accusato di nove reati, tra cui «minaccia all’ordine
costituzionale», incolpato di coinvolgimento in una serie di strani
attentati verificatisi il mese prima a Tashkent. Dal suo processo furono
esclusi media e osservatori, pur di far «confessare» lui e gli altri
imputati sottoposti a pestaggi, soffocamento, scosse elettriche e la
minaccia di violentare le loro mogli. Fu condannato a 15 anni, pena poi
ridotta in appello a 13, e spedito a Jaslyk, il peggior carcere del
paese: qui si ammalò di tubercolosi, fu picchiato dai secondini fino a
rompergli una gamba. A seguito dei maltrattamenti perse anche l’udito, e
quasi tutti i denti. «Quando arrivai al colloquio un anno e mezzo dopo
l’arresto, non riconobbi mio marito», racconta ora sua moglie Nina in un
video per la campagna mondiale lanciata da Human Rights Watch, dopo
quella di Amnesty International, per liberarlo.
Non a caso
l’appello è rilanciato ora: dopo la morte a settembre del dittatore
Islam Karimov, al potere dal 1989, «padre della nazione» che guidò
l’indipendenza da Mosca e unico leader che 28 milioni di uzbechi, in
maggioranza musulmani, abbiano mai conosciuto. La speranza di clemenza
risiede nelle elezioni presidenziali del 4 dicembre prossimo. Un cambio
di potere da cui non si attendono svolte, vincitore previsto è l’attuale
premier Myrzoyev. Ma che cade in un momento di incertezza per tutta
l’Asia Centrale, tra crisi economica, crollo del barile, infiltrazioni
dell’Isis, e l’età sempre più avanzata o la malattia di altri satrapi
locali, quasi tutti al potere dalla fine dell’Urss. Tra problemi di
successione, crescente instabilità e rischi di lotte tra clan.
Karimov,
noto per sprezzo dei diritti umani e disinvoltura nell’usare torture ed
esecuzioni extragiudiziali per schiacciare gli avversari, porta nella
tomba il terribile massacro di Andijan nel 2005 che affogò nel sangue
una grande protesta con la scusa della lotta al «terrorismo armato», e
la moderna schiavitù della raccolta forzata del cotone nei campi, che in
questi giorni coinvolge un milione di uzbeki. In vista del voto il
governo ha tenuto un «seminario pratico» per giornalisti su come
coprirlo «collaborando con le autorità». Myrzoyev è considerato vicino a
Putin, ma finora l’Uzbekistan ha detto no alle mire dirette dei russi
sul paese, mantenendosi «non allineato», in equilibrio tra Russia, Cina e
Usa.
Un Grande Gioco di alleanze internazionali che ha coperto
finora il regime, esportatore di gas e petrolio e gas, importante hub
energetico. Il cui pugno di ferro sull’Islam più intransigente piace a
Occidente e Oriente: la Russia ha puntualmente estradato a Tashkent
rifugiati e perseguitati politici uzbeki, Nato e Usa hanno chiuso un
occhio in cambio dell’uso logistico delle basi uzbeke per le operazioni
in Afghanistan, l’Europa ha imposto sanzioni dopo Andijan, per poi
abolirle tra il 2008 e il 2009.