La Stampa 23.10.16
La seconda Gerusalemme mistero a ritmo di reggae
La città santa della regina di Saba rispecchiava quella ebraica Una vicenda che arriva fino a Haile Selassie e Bob Marley
di Fernando Gentilini
Tra
la città biblica e il suo simulacro etiopico c’è un legame lungo
tremila anni. Nella Bibbia è scritto che la regina di Saba andò a
Gerusalemme per mettere alla prova re Salomone. È scritto anche che
rimase colpita dalla sua sapienza e magnificenza. E infine è scritto che
prima di ripartire gli diede oro, aromi e pietre preziose. Il tema fu
ripreso dai Vangeli, dal Corano, e poi elaborato da commentatori
ebraici, islamici e cristiani. Dal Medio Evo divenne un filone narrativo
tra i più battuti: da Boccaccio alla tradizione epica etiopica, dalle
miniature arabe a Piero della Francesca, dalla musica di Händel alla
cinematografia del Novecento.
Eppure della regina sabea
continuiamo a ignorare persino il nome: per la tradizione araba è
Bilqis, per quella africana Candace o Makeda, in quella greco-giudaica è
Nicaula. Per taluni è una sovrana virtuosa, per altri una sibilla, una
strega, o addirittura un demone dalle zampe d’asino. Anche la
provenienza resta un mistero. Tra le sue patrie ipotetiche figurano
l’Etiopia, lo Yemen e il Sudan. E ad Aksum, Marib e Meroe esistono
rovine di antichi palazzi che portano un suo nome.
Gerusalemme etiopica
Avendo
vissuto ad Addis Abeba, sono affezionato al poema epico nazionale
etiopico, il Kebra Negast (La Gloria dei Negus), un’elaborazione tardo
medievale del testo biblico. Vi si racconta di come Makeda, regina di
Saba, abbia avuto un figlio da Salomone; di come egli sia salito al
trono di Aksum con il nome di Menelik I; e di come a quel tempo gli
etiopici si siano convertiti al Dio di Israele.
In realtà
l’introduzione del cristianesimo in Etiopia iniziò nel IV secolo,
tramite la diffusione della Bibbia e di usi antico-testamentari. E’
stato scritto molto sul sogno etiopico di creare una seconda Gerusalemme
(suggerisco Ethiopia and the Bible di Edward Ullendorff), ma per
vederlo messo in atto bisogna raggiungere Lalibela, nel cuore
dell’altopiano.
È una città scavata nella roccia, formata da
undici chiese che sembrano stalagmiti e da un labirinto di celle,
cunicoli e camminamenti. Fu realizzata nel XII secolo, per offrire
un’alternativa ai pellegrini cristiani che non riuscivano a raggiungere
la vera Gerusalemme. Ma per la gente del posto riproduce una visione
celeste e fu scolpita dagli angeli.
Nel giorno del Timkat, dalle
chiese vengono portati in processione i talbot, le copie dell’Arca
dell’Alleanza. Una tradizione singolare, da ricondurre alla presenza su
queste montagne di un’antica comunità ebraica, quella dei falascià, e
alla credenza che le sue origini siano legate con l’arrivo in Etiopia
dell’Arca stessa. Secondo il Kebra Negast fu Menelik a trafugarla dal
Tempio per portarla ad Aksum, dove si troverebbe tuttora. Approfittando
di un viaggio a Gerusalemme in cui ricevette l’investitura dal padre.
L’Etiopia a Gerusalemme
Tre
millenni dopo, nel 1936, anche l’ultimo discendente della dinastia del
Leone di Giuda, Haile Selassie, andò a Gerusalemme per affermare la
propria sovranità. Il suo esercito era stato sconfitto dagli italiani, e
il suo paese occupato. Così, al 226° erede di re Salomone non era
rimasta che la via dell’esilio. Fare tappa a Gerusalemme fu una scelta
emblematica. Come alloggiare al King David, da dove poteva vedere il
Monte Sion e la tomba di re Davide.
Oggi a Gerusalemme sono i
falascià, gli ebrei etiopici, a ricordarci che l’Etiopia non è lontana.
Arrivarono in Israele in un esodo biblico, negli ultimi decenni del
secolo scorso. L’Etiopia era stremata dalla guerra civile e dalla
carestia, così il Mossad organizzò le operazioni Mosè del 1984 e
Salomone del 1991, completate in tempi record.
I loro ritrovi sono
tra la Jaffa Road e la Hanevi’im Street. Li riconosci dall’odore
dell’injera e del berbere che ti avvolge fuori dalla porta. Nello stesso
quartiere c’è la chiesa fatta costruire da Menelik II a fine Ottocento.
Sul cancello d’ingresso una scritta in lingua amarica: «Il popolo del
Leone di Giuda ha trionfato»; e all’interno del comprensorio effigi di
San Giorgio, croci copte e calendari giuliani.
Comunque la
roccaforte dei cristiani etiopici, dal IV secolo, è nella basilica del
Santo Sepolcro. Come gli ortodossi, gli armeni, i francescani, i siriaci
orientali e i copti egiziani, anche loro hanno un’area specifica. Si
tratta del tetto sopra la cappella di sant’Elena, dove c’è il monastero
di Deir es Sultan. La prima volta che ci andai, sentii risuonare da una
radiolina le note di Iron Lion Zion di Bob Marley, e la cosa mi fece
sussultare.
Iron Lion Zion
Fin dalla sua incoronazione,
Haile Selassie fu venerato dalle sette messianiche caraibiche di
rastafarians (dal suo titolo e nome ras Tafari). Un culto sopravvissuto
alla sua morte, avvenuta nel 1975, che annoverava tra i seguaci anche
Bob Marley. Che l’idolo giamaicano avesse un’adorazione per il Messia
Nero, lo imparai arrivando ad Addis Abeba, dove nel luglio del 1992 si
stavano organizzando i funerali del negus (poi rinviati al 2000).
C’erano rastafarians dappertutto, con i ritratti di Haile Selassie e Bob
Marley disegnati sulle magliette, e nelle discoteche si ballava solo
musica reggae.
Il brano Iron Lion Zion uscì tre mesi dopo, nel
cofanetto postumo Songs of Freedom, e in Etiopia ebbe un successo
enorme. «I’m gonna be Iron, like a Lion in Zion» canta il ritornello. E
io ogni volta che lo ascolto non posso fare a meno di rimuginare sul suo
significato. Mi aiuta a spiegarlo Erri De Luca, che nel libro Una
nuvola come tappeto racconta di come per i sapienti d’Israele vi siano
cinque cose che contengono un sessantesimo d’altro: «Il fuoco ha in sé
un sessantesimo della Gehenna (inferno); il miele un sessantesimo della
manna; il sabato un sessantesimo del mondo a venire; il sonno un
sessantesimo della morte; il sogno un sessantesimo della profezia».
Ecco, io ogni volta che ascolto Iron Lion Zion, penso che questa canzone
contenga un sessantesimo delle due Gerusalemme e della storia che
abbiamo appena raccontato. Non so se è un pensiero plausibile, ma
pensarlo è più forte di me.