La Stampa 22.10.16Que viva Mexico!
l’epopea di un’avanguardia
Murales,
quadri, foto, documenti: al Grand Palais di Parigi i capolavori di un
gruppo di artisti “rivoluzionari” che ha segnato il Novecento
di Francesco Poli
Forse
l’opera che sintetizza meglio tutti i principali ingredienti storici,
ideologici, culturali, ed estetici di cui è impregnata questa grande
rassegna sull’arte messicana della prima metà del XX secolo al Grand
Palais di Parigi, è quella di un autore russo, e cioè il film incompiuto
Que viva Mexico! di Sergei Eisenstein. Alla fine del 1930, dopo la
rottura del contratto con la Paramount, il regista se ne va da Los
Angeles e arriva in Messico. Qui nel 1931-32 lavora al progetto di un
grandioso film-documentario sulla tragica ed esaltante epopea del popolo
messicano, dove entrano in scena i miti delle civiltà native, le
atrocità della colonizzazione spagnola, la nascita della nazione
indipendente e infine il trionfo della rivoluzione zapatista, con
spettacolari riprese di massa nell’ultima sezione. Anche se ci si deve
accontentare di un collage postumo curato da uno dei suoi collaboratori,
la forza scioccante ed evocativa del montaggio delle immagini da vita a
straordinari frammenti di «murales in movimento» (per usare una
definizione del regista stesso che era amico di Diego Rivera). E in
effetti, dal punto di vista compositivo, si può ben dire che anche
l’impianto iconico degli immensi affreschi in edifici pubblici
realizzati a partire dagli Anni 20 dalla «trinità muralista» (Diego
Rivera, José Clemente Orozco, David Alfaro Siqueiros), e da altri
pittori, è basata su operazioni di montaggio. Un montaggio compositivo
che si sviluppa attraverso la raffigurazione di personaggi e paesaggi,
di scene di vita contadina, di enfatizzazioni allegoriche e
immaginifiche, con accenti realistici, di epico populismo e
retoricamente ideologiche. La fondamentale esperienza dell’arte pubblica
monumentale muralista (che negli Anni 30 ha avuto un ruolo cruciale
anche negli Usa) è naturalmente il tema su cui maggiormente si incentra
l’esposizione. Gli artisti si sentono in prima linea nella costruzione
della nuova identità culturale, e del nuovo immaginario collettivo che
trae la sua linfa dalle radici mitiche per aprirsi a utopistici scenari
sociali nella modernità. Grazie all’iniziativa del ministro Vasconcelos
le pareti di palazzi istituzionali diventano il teatro di vaste
narrazioni pittoriche.
In mostra ci sono vari esempi di bozzetti e
quadri connessi con le grandi realizzazioni, ma viene documentata anche
la specifica qualità della pittura dei vari protagonisti. Di grande
rilievo è in particolare la ricerca di Rivera, a partire dalla sua
notevole fase cubista, degli anni parigini. Interessante è anche, per
esempio, la debordante energia espressiva e plastica delle figure di
Siqueiros, tra cui spicca un mirabolante autoritratto in scorcio, con un
enorme pugno che sembra uscire dal quadro e colpire lo spettatore.
Ma
in mostra troviamo opere di molti altri artisti, circa sessanta in
tutto, che documentano da un lato l’evoluzione in direzione moderna dei
linguaggi con influenze cubiste, futuriste e astratte (tra cui vanno
ricordati gli esponenti del movimento «stridentista», come Charlot, Alva
de la Canal, Revueltas); e dall’altro lato, in particolare, quelle
caratterizzate soprattutto delle forme più vitali e significative del
tradizionale folklore autoctono. E sono proprio i lavori degli artisti
che si ispirano all’iconografia popolare quelli più affascinanti e anche
più sorprendenti. È il caso, per esempio, di Ramon Cano Manilla; di
Antonio Ruiz «El Corcito» (bellissimo è la fantastica figura
addormentata sono delle coperte che diventano un paesaggio fantastico); e
una artista eccezionale come Maria Izquierdo, amica di Antonin Artaud
che scrive cose di immaginifica intensità sulla sua creatività sorgiva e
«primordiale». E c’è naturalmente anche la grande Frida Kahlo, legata
visceralmente alle radici più profonde della «messicanità». Della Kahlo
sono esposte solo due opere, tra cui una grande tela che è un enigmatico
capolavoro. Si intitola Le due Frida (I939) e rappresenta l’artista
sdoppiata in due figure sedute che appaiono come gemelle, e che
indossano due eleganti abiti tradizionali. Anche se non è molto ampia, è
altamente significativa la sezione dedicata alla fotografia, con
immagini di Tina Modotti (e anche di Weston, del periodo del suo
soggiorno messicano), di Rosa Rolanda, di Lola Àlvarez Bravo e del suo
più famoso marito Manuel, che è uno dei grandi pionieri del realismo
sociale impegnato, ma anche con valenze espressive cariche di tensione
visionaria.