La Stampa 21.10.16
“Nemmeno una in meno”
La rivolta anti stupri dilaga in Sud America
Dall’Argentina alla Bolivia, migliaia nelle piazze
di Emiliano Guanella
In
mezzo alla folla di donne vestite di nero, a pochi passi dalla Piazza
di Maggio, una ragazza completamente fradicia alzava un cartello: «Non
sta piovendo, sono lacrime». La marea umana al grido di “Ni Una Menos”
ha invaso nuovamente Buenos Aires e si è estesa questa volta ben oltre
l’Argentina; in tante sono scese in piazza anche in diverse città del
Cile, della Bolivia, del Perù, della Colombia, dell’Uruguay, del
Messico. Una mobilitazione sorta per la commozione causata dall’atroce
morte di Lucia Perez, una ragazza sedicenne drogata, violentata e poi
selvaggiamente uccisa a Mar del Plata. Una storia come tante, se è vero
che nella sola Argentina una donna viene uccisa ogni 30 ore. Le
statistiche sono disarmanti; 225 donne assassinate nel 2014, 235 nel
2015, 170 dall’inizio di quest’anno. Nella maggior parte dei casi gli
autori sono i compagni o ex compagni, un quinto delle vittime sono
minorenni. L’anno scorso i femminicidi hanno lasciato 203 orfani.
Una
strage infinita che si ripete anche negli altri paesi latino-americani,
dove le donne hanno deciso di dire basta, con una capacità
organizzativa e di coordinazione fra paesi e realtà diverse che ha
impressionato anche i più scettici. La rete ha aiutato a sensibilizzare,
organizzarsi, unificare le piattaforme di lotta. Ai tradizionali
congressi e incontri di organizzazioni femministe, solo a Buenos Aires
ce ne erano più di cinquanta, si aggiungono i social media. Gli hastag
“Ni Una Menos” (nemmeno una di meno) e “Miercoles Negro” (mercoledì
nero) sono stati trend topic in Twitter, su Facebook e Instagram si sono
moltiplicati gli appelli di personaggi famosi. Un coro di appoggio a
tutti i livelli, dalla Nonna di Piazza di Maggio Estela Carlotto, alla
fidanzata di Lionel Messi Antonella Roccuzzo, alla ministra degli Esteri
Susanna Malcorra, già in corsa per il posto di segretario generale
dell’Onu.
Ben oltre il femminismo tradizionale, una primavera di
protesta che cerca di smuovere le coscienze ed esigere una risposta da
parte delle autorità. «Tra di noi – si legge in una vignetta di una
donna di Cochabamba, in Bolivia – diciamo sempre “avvisami quando sei
arrivata”; lo facciamo perché esiste sempre la possibilità di non
riuscire a tornare a casa!». La forza delle immagini, dei simboli e
della rabbia. In Messico sette donne vengono uccise o scompaiono nel
nulla ogni giorno ed è una violenza che non conosce età, razza o classi
sociali. Alla Plaza del Angel di Città del Messico hanno sfilato
delegazioni provenienti da diversi stati; rischiano la loro pelle le
studentesse di rientro da scuola, le contadine, le donne sole sui mezzi
pubblici dopo il lavoro. In rete troviamo una margherita che viene
depredata di un petalo alla volta, fino a morire; «è l’uomo che
all’inizio è semplicemente geloso, poi ti controlla, poi ti rimprovera,
ti grida addosso, ti chiude in casa, ti picchia e alla fine ti uccide».
In
Bolivia si contano 79 femminicidi dall’inizio dell’anno, il governo di
Evo Morales si è impegnato in prima persona soprattutto nelle grandi
città, perché nelle comunità andine la donna indigena ha
tradizionalmente più forza e sa imporsi nell’organizzazione della vita e
dei lavori quotidiani. In Cile, ancora oggi tra i paesi più maschilisti
della regione, hanno manifestato in 22 città diverse. A Santiago in
prima fila c’era la leader del movimenti degli studenti Camila Vallejo,
oggi deputata. «Non siamo delle cose, né proprietà di nessuno. L’unione
nella lotta e la solidarietà può salvare molte vite umane».