La Stampa 17.10.16
Lo strano caso della mummia Frankenstein
Al
Mann di Napoli riapre la più antica sezione egizia d’Europa: che non
nasconde i suoi falsi, parte integrante della storia collezionistica
sette-ottocentesca
di Maurizio Assalto
In un
sarcofago di legno dipinto la mummia giace ricoperta dai frammenti del
cartonnage, con le bende di lino aperte all’altezza del petto e del
volto, a formare una strana cuffia annerita. È una mummia tarocca, come
hanno confermato le analisi radiografiche e del Dna: un falso costruito
ai primi dell’800 nel Real Museo Borbonico di Napoli, assemblando pezzi
umani recuperati nella Farmacia del monastero di San Francesco di Paola e
in quella della Casa della Santissima Annunziata, tenuti assieme con
chiodi, perni e assi di legno.
Autore di questa
mummia-Frankenstein un certo Raffaele Gargiulo, archeologo,
restauratore, esperto di ceramica antica e abile falsario (pure un po’
burlone: su un vaso a vernice nera del IV secolo a.C. aveva inciso il
suo nome in caratteri greci e lo aveva venduto come un graffito
autentico). A lui si deve anche una parziale grattatura e ridipintura
del sarcofago, un originale dell’VIII-IV secolo a.C., da Saqqara, mentre
i frammenti del cartonnage sono di epoca tolemaica (332-330 a.C.).
Insomma, un bel patchwork, testimonianza di un’epoca in cui la polvere
di mummia era accanitamente ricercata per le sue presunte virtù
terapeutiche e nella nascente egittologia si mescolavano eruditi
collezionisti, ambigui studiosi, seguaci dell’occultismo, spregiudicati
mercanti e fantasiosi truffatori.
Nuovo allestimento
Una
vicenda travagliata che ha lasciato le sue tracce nel Mann - il Museo
Archeologico Nazionale di Napoli, come oggi si chiama quello che era il
fiore all’occhiello della politica culturale borbonica. Il quale non le
rinnega, anzi le esibisce come parte integrante della propria storia,
nella rinnovata sezione egizia che non a caso, all’ingresso, propone una
vetrina, recuperata dal vecchio allestimento, in cui sono raccolti in
ordine sparso oggetti autentici mescolati a falsi settecenteschi. Ma
nelle sale c’è ben altro. Anche le mummie autentiche, ovviamente (sia
pure a volte collocate in sarcofagi non pertinenti: altro segno
dell’epoca), anche una mummia di coccodrillo di due metri perfettamente
conservata con la sua fasciatura.
La strada per Menfi e Tebe passa
da Torino, ha scritto Champollion. Ma passa - passava e ora torna a
passare - anche da Napoli. Non proprio una superstrada come quella che
incrocia il nuovo Museo Egizio torinese: piuttosto un viottolo tortuoso e
a tratti accidentato, ma nondimeno importante per la storia del
collezionismo egittologico, che aveva come tappa obbligata questo museo
dove, nel 1821, il direttore Michele Arditi aveva inaugurato la prima
sezione in Europa riservata alle antichità egizie (nel 1823 sarebbe
stata la volta di Berlino, nel 1824 quella di Torino e Firenze, quindi
il Louvre e i Musei Vaticani). Ricca di 2500 oggetti, chiusa da sei
anni, ha riaperto in questi giorni completamente rivisitata negli
ambienti e nell’allestimento, in collaborazione con l’Orientale di
Napoli e l’Egizio di Torino. Al posto dell’antica presentazione
incentrata sulle singole collezioni, una più razionale dislocazione
tematica in sale organizzate cronologicamente.
Pezzi di grande
valore documentario, come la cosiddetta Dama di Napoli (in realtà un
dignitario con parrucca), statua di diorite risalente alla III dinastia,
2660 a.C., o il monumento di Amenemone (XIX dinastia, regno di Ramesse
II, 1277-1213 a.C.), un blocco di granodiorite con i ritratti di 24
personaggi, ognuno identificato nel suo ruolo sociale e nel grado di
parentela con il dedicatario, capo di un corpo di polizia. O ancora una
coppetta del V-IV secolo a.C. su cui è iscritta in ieratico una ricetta
contro la tosse: cumino, latte addensato, miele - la stessa riportata
sul Grande Papiro Medico di Berlino, che prescrive di assumerla per
quattro giorni.
Il primo reperto egittologico accolto nel museo,
oggi collocato in apertura della sezione, è il Naoforo Farnese, una
statua di basalto del 600 a.C. che raffigura un personaggio
inginocchiato con le braccia protese a sorreggere un tabernacolo con
l’effigie di Osiride: arrivò nel 1803 da Roma, dove in età imperiale
doveva essere stato importato in connessione a un culto isiaco. Ma il
grosso della collezione è rappresentato dai due contributi, tra molti
altri minori, affluiti nel ventennio successivo.
Dapprima quello
del card. Stefano Borgia, che animato da spirito enciclopedico, e
agevolato dalla carica di segretario della Congregatio de Propaganda
Fide che gli garantiva contatti con la rete missionaria, aveva
accumulato nella propria villa di Velletri testimonianze della
religiosità di tutto il mondo. Alla sua morte, nel 1804, parte della
collezione andò al nipote Camillo, che, fallita la vendita al re di
Danimarca, nel 1814 avviò una trattativa con il re di Napoli Gioacchino
Murat, conclusa l’anno dopo con Ferdinando IV di Borbone tornato sul
trono in seguito alla Restaurazione.
I coniugi avventurieri
L’altro
grande nucleo confluito nel museo è quello dei coniugi Giuseppe
Picchianti e Angelica Drosso, collezionisti avventurieri (lei contessa
veneziana) che negli anni successivi alla spedizione napoleonica, in
gara con diplomatici viaggiatori esploratori mercanti, avevano battuto
le sabbie intorno al Nilo per accaparrarsi reperti dell’antica civiltà.
Nessuna velleità scientifica, ma soprattutto il gusto per il bello, per
l’insolito, spesso per l’orripilante. È la sensibilità dell’epoca: nelle
biblioteche e nei salotti ottocenteschi cominciano a comparire souvenir
fatti di teste, piedi, mani, più facilmente trasportabili che un’intera
mummia, spesso radunati tutti insieme e esibiti sotto campane di vetro
in un macabro bric-à-brac (un paio di esempi nel museo).
Dopo
estenuanti trattative con la corte di Napoli, nel 1827 i Picchianti
riescono a piazzare parte del materiale a un prezzo da saldo - anche
perché la commissione incaricata di valutarlo è condizionata dal parere
dell’inglese William Gell, che lo sottostima per favorire l’acquisto
della mercanzia proposta da un suo amico (vecchia storia che si ripete
in ambito e in ogni luogo). Picchianti ottiene almeno di essere assunto
dal museo come custode titolare delle antichità egizie, e si risolve a
donare anche la parte restante della collezione, salvo poi scoprire che
il ruolo e lo stipendio non sono quelli promessi, e dopo cinque anni di
suppliche e battibecchi viene cacciato dal re Francesco I con un foglio
di via e mille ducati di buonuscita. La nuova sezione egizia del Mann è
per lui una rivalsa postuma.