Corriere 17.10.16
Gentile Signora, saluti e grazie
Archinto
pubblica le lettere di Elio Vittorini a Lucia Rodocanachi, che lo
aiutò nei lavori di traduzione: un ruolo decisivo a lungo nascosto.
Amica di artisti e scrittori, la donna ottenne gratitudine e un tardivo
riconoscimento
di Paolo Di Stefano
C’è una
Gentile Signora, nella letteratura italiana, alla quale parecchi
scrittori devono esseri grati. E non sono nomi da poco: Elio Vittorini,
Eugenio Montale, Carlo Emilio Gadda, il poeta ligure Camillo Sbarbaro e
altri. La Gentile Signora si chiama Lucia Morpurgo e dopo il matrimonio
con il pittore Paolo Rodocanachi detto Cian, celebrato nel 1930, sarà
nota con il cognome del marito. Nata a Trieste nel 1901, trasferitasi a
Genova, figlia di un imprenditore di coloniali, ottiene il diploma
magistrale nel 1920, coltiva le lingue e le letterature straniere
(inglese, francese, tedesco e spagnolo), diventa amica e musa degli
artisti liguri, nonché sodale e corrispondente di scrittori anche dopo
essersi trasferita ad Arenzano: la «casa rossa» tra le agavi, progettata
dal marito Cian, sarà, oltre che il luogo della sua personale
malinconia, il crocevia di raduni (per Santo Stefano e per il Lunedì di
Pasqua) con gli «amici degli anni Trenta» attorno alla torta pasqualina
preparata dalla cordiale ospite. La fame di novità letterarie porta
Lucia a stabilire contatti intensi con il fiorentino Gabinetto Vieusseux
che dal 1928 è diretto da Montale e la cui biblioteca circolante può
offrirle in tempi rapidi i suoi oggetti del desiderio.
È grazie a
Montale che Lucia Rodocanachi conosce Vittorini, il quale tra il 1929 e
il 1930 ha traslocato da Siracusa a Firenze, dove frequenta l’ambiente
della rivista «Solaria» e il giro del caffè letterario delle «Giubbe
Rosse». In una lettera del 9 maggio 1933, Eugenio chiede all’amica se è
disponibile ad aiutare Vittorini che «deve consegnare fra non molto il
St. Mawr di Lawrence a Mondadori». Il tempo stringe, aggiunge il poeta, e
Elio deve tradurre ancora la metà del libro, ovvero 150 pagine:
«Accetterebbe di farle lei, solo letteralmente, a tamburo battente?». La
Signora accetta e con il romanzo di D.H.Lawrence prende avvio una
decennale collaborazione, editorialmente proficua ma ricca di equivoci e
di ambiguità, come dimostra lo scambio epistolare: di cui ora Archinto
pubblica la sezione vittoriniana, che si estende dal 1933 al 1943 ( Si
diverte tanto a tradurre? , a cura di Anna Chiara Cavallari e di Edoardo
Esposito). È una storia di inquietante «negritudine», su cui già si
sono concentrate le attenzioni degli studiosi, a partire da Giuseppe
Marcenaro (curatore per Adelphi delle lettere gaddiane) e da Franco
Contorbia che nel 2006 curò una raccolta di saggi sulla figura della
Rodocanachi, uscita presso la Società Editrice Fiorentina, con un
contributo di Adrea Aveto sui rapporti con Vittorini.
L’urgenza,
l’ansia di non riuscire a consegnare nei tempi stabiliti, gli scambi di
libri e di punti di vista sugli autori da tradurre, l’andirivieni delle
pagine da rivedere, le ripetute raccomandazioni sulla qualità letterale
delle versioni richieste a Lucia, le precarie condizioni economiche del
mittente, la speranza che l’editore paghi, le promesse di saldare i
debiti con la collaboratrice destinata a rimanere nell’ombra e le
continue procrastinazioni dei pagamenti, gli umori familiari e i
progetti in proprio: sono alcuni dei motivi che percorrono le lettere.
Dunque, si comincia con Lawrence, che Vittorini non ama («Così fumoso
con tutte le sue insistenze. E così inefficace dopotutto», addirittura
«umido») ma che promette un buon riscontro di pubblico considerato il
chiasso prodotto all’estero dallo scandalo di Lady Chatterley (su cui in
Italia, però, pesa la censura).
Il lavoro dietro le quinte della
Rodocanachi permette a Vittorini di accettare una quantità di incarichi
(26 libri tradotti dal ’33 al ’49, solo alcuni dei quali in autonomia)
che altrimenti non riuscirebbe a sostenere da solo. E soprattutto gli
consente di procedere con la sicurezza che un «anglofono» autodidatta
come lui non potrebbe permettersi: sulla traduzione quasi parola per
parola dell’amica (una «prima stesura»), lo scrittore sarebbe
intervenuto con il suo stile. Mentre l’altro promotore italiano del
«mito americano», Cesare Pavese, traduceva in perfetto isolamento
affrontando da solo le difficoltà che gli poneva la modesta conoscenza
linguistica, Vittorini chiede un sostegno: ma, osserva Edoardo Esposito
nell’introduzione, «peccò non nel farsi aiutare, ma non dichiarando mai
né riconoscendo — al di là del compenso economico — il nome e l’aiuto di
chi gli fu in molti casi essenziale collaboratrice».
Il 24 maggio
1935, nel farle pervenire il frutto del lavoro comune, e cioè la
traduzione appena uscita in volume del Serpente piumato dello stesso
Lawrence, si sente in dovere di precisare all’amica: «Anche questo libro
è venuto fuori come mio solo, per inerzia, perché non sono stato capace
di avvertire, come desideravo, che c’era lei in collaborazione. Ma per
il terzo ci penserò. Lo metterò in prima pagina che siamo in due ad
averlo tradotto. Va bene?».
Non andò bene, perché il nome della
Rodocanachi rimarrà sempre nascosto. E anche sul piano economico le cose
non andranno affatto lisce, tra ritardi e rinvii. D’altra parte, è pur
vero che il giovane e squattrinato Vittorini faticava parecchio a
mantenere a Firenze una casa con moglie e figlio (Giusto), cui presto si
sarebbe aggiunto il secondogenito (Demetrio). E quando ne avrà la
possibilità, una volta trasferitosi a Milano e approdato alla Bompiani
nell’aprile 1939 con un incarico editoriale, riuscirà a stabilire con
Lucia un rapporto di consulenza, venendo incontro ai suoi desideri e
affidandole traduzioni autonome. «Farsi aiutare — nota Esposito —
rientrava — ieri come oggi — in una pratica moralmente discutibile
eppure largamente seguita». A dimostrarlo sono gli analoghi trattamenti
che la Gentile Signora dovette subire anche da Gadda e da Montale, che
la definì una «Sévigné del nostro secolo».
Dopo Lawrence numerosi
altri autori apparvero in traduzione con la firma di Vittorini per la
«Medusa» mondadoriana: Somerset Maugham, Faulkner, Powys, Saroyan,
Steinbeck, Fante e, in altre collezioni o riviste, Poe, Defoe, Wilder,
Dickens, Galsworthy, uno Shakespeare ( Livio Andronico ) e altri ancora.
Non per tutti questi lavori, ma spesso e volentieri, la mano della
negresse fu indispensabile. Fatto sta che la prassi del contributo non
riconosciuto portò, come è ampiamente noto, a momenti che ancora oggi,
rileggendo l’epistolario (purtroppo dimezzato), appaiono imbarazzanti.
Il punto più increscioso fu toccato quando l’«indegno amico» (come
soleva definirsi Vittorini nelle fasi in cui l’evasività degli impegni
non mantenuti gli acuiva il senso di colpa), trovandosi senza soldi a
Milano, falsificò la firma per incassare un assegno intestato all’amica.
È la candida ammissione che lo scrittore fa in una lettera del 31
dicembre 1935 per giustificare il suo lungo silenzio: «Scriverle senza
narrarle il mio peccato non mi sembrava naturale; e scriverle
narrandoglielo mi veniva troppo scabroso (…). Ora lei può anche
denunciarmi (…). Dinnanzi alla soglia dell’anno nuovo alzo, comunque, le
mani e faccio voto solenne che adempirò entro il suo termine ai miei
impegni e mi dimostrerò degno di lei nell’amicizia». Si andò oltre,
nell’accusare Vittorini di aver sfruttato la Gentile Signora, insinuando
che il lavoro realizzato tra il ’40 e il ‘41 per la celebre antologia
Americana — destinata alla Bompiani e caduta sotto le grinfie della
censura fascista — sia stato farina del generoso sacco della
Rodocanachi: in realtà solo due dei 13 brani si giovarono dell’apporto
della Rodocanachi (i racconti di Faulkner e di Lardner).
Ci si
imbatte poi in notizie di notevole peso nella biografia vittoriniana,
come, nella lettera del 25 ottobre 1935, quella relativa all’espulsione
«come eretico» dal Partito fascista per aver espresso la sua «simpatia
pro-governativi» spagnoli e l’antipatia «contro la Vandèa degli
insorti»: «Che c’entra in Spagna il fascismo? A così poca distanza di
anni dall’assolutismo clericale-señoristico il fascismo in Spagna non
può essere altro che Vandèa». Va poi segnalato, nel generale clima di
sconforto che affligge il giovane scrittore costretto a dedicarsi a
un’attività «da negri» che non lo appaga («sono stufo, stufo, stufo»),
il lavorio inquieto ma vivificante sui propri libri, di cui nelle
lettere all’amica-confidente emergono spesso i motivi ispiratori anche
più segreti: «Vorrei tanto riuscire a dire una parola nuova, che avesse
peso in una trasformazione del mondo. Fare dell’arte è fare un mondo a
sé e di questo non me ne importa, io voglio influire sul mondo comune,
invece» (28 gennaio 1936). Oppure quando, il 16 aprile 1938, anticipa
quel «furore, dico interno furore» con cui si aprirà Conversazione in
Sicilia , che nello stesso mese apparirà per la prima volta nella
rivista «Letteratura»: «Io non posso più vivere così, con gli occhi
sbarrati sul mondo, aspettando e sperando una salvezza da qualche parte,
in qualche senso. Bisogna che mi decida a diventare una carogna
qualunque, che se ne frega di tutto, non spera che il mondo sia salvo,
non aspetta nulla di buono (…). Altrimenti sarò sempre in furore, e
incapace di scrivere una lettera».