La Stampa 17.10.16
Ma adesso si aprono le partite vere
di Franco Bruni
Chi
in passato criticava certe misure del governo Renzi come regalie per
conquistar consensi doveva fare qualche sforzo. Negare, ad esempio, che
la detassazione della casa stimolasse i consumi e che gli 80 euro
equivalessero a un taglio del famigerato cuneo fra busta paga e costo
del lavoro. Sembra oggi più facile sostenere che la finanziaria appena
preparata, spalmando il deficit su mille misure, mira ad accontentare
quanti più elettori possibile in vista del referendum di dicembre.
Il
momento europeo favorisce un’applicazione generosa delle regole di
bilancio della Commissione, i cui pronunciamenti saranno inoltre, in
parte, successivi al referendum. Qualunque sia il suo esito, sta per
concludersi una partita della quale, pur comprendendone l’importanza,
siamo tutti un po’ stanchi. Si discetta sull’instabilità che seguirebbe
la vittoria dei «no»; ci si sofferma meno su ciò che seguirebbe il
prevalere dei sì.
Il governo si rafforzerebbe e l’eventuale aggiustamento della legge elettorale potrebbe affrontarsi con più serenità.
Le
aspettative internazionali sul Paese si rassicurerebbero, stimolando
l’ottimismo degli investitori e l’andamento a breve dell’economia.
La
leva italiana sulle decisioni di Bruxelles si irrobustirebbe, anche sul
fronte della riforma dell’Ue che vedrà in marzo, proprio in Italia, un
momento importante nell’anniversario della firma dei Trattati. Ma ciò
non basterebbe a rigenerare una crescita duratura né a togliere delicata
importanza all’ottenimento dell’approvazione europea per le nostre
politiche economiche.
La questione del referendum e, più in
generale, la precarietà del consenso che trova il governo, non hanno
causato solo qualche demagogia nella finanziaria. Hanno inceppato il
processo di difficili riforme che l’entusiasmo di Renzi aveva avviato
con successo. Da tempo il governo mostra fatica nel combattere i
conservatori e gli interessi particolari che, numerosi e diffusi,
ostacolano la modernizzazione del Paese e il rilancio della sua
produttività. E’ ragionevole pensare che una vittoria dei «sì»
ridurrebbe un poco questa fatica, ma certo non l’eliminerebbe, né
darebbe al premier la sicurezza dei consensi necessari per conquistare
poi, con elezioni, un miglior controllo della maggioranza parlamentare.
La paura di perder i voti dei conservatori rimarrebbe.
Bruxelles,
ancorché un po’ tranquillizzata, non rimarrebbe senza voce. La
flessibilità concessa ai nostri conti, già dall’anno passato, è
controbilanciata da una più severa attenzione alle riforme strutturali e
alla qualità della spesa e delle imposte. Su ciò lo scrutinio
importante della Commissione avverrà in primavera. E’ sciocco
polemizzare con l’Europa perché «ci dice quel che dobbiamo fare», dato
che ci dice quel che ci diciamo anche noi ma non troviamo la forza di
fare. Ogni Stato membro deve cercare nel coordinamento europeo lo
stimolo a essere meno cedevole con chi ha interesse alla conservazione.
Al di là degli zero virgola, dei deficit e dei debiti, il problema è che
l’Europa tutta, e l’Italia in particolare, soffrono di produttività
inadeguata a una ripresa della crescita.
In primavera potrebbe
cominciare a indebolirsi anche la rete di protezione degli acquisti di
titoli di Stato della Bce. Giocata la partita del referendum si
riapriranno dunque, fra le altre, quelle della revisione della spesa e
della tassazione, dello sblocco della vergognosamente sepolta legge
sulla concorrenza, del decentramento della contrattazione sindacale -
che Renzi aveva promesso di imporre eventualmente per legge - della
riforma della pubblica amministrazione, dove le ambizioni debbono
rialzarsi e vincere la battaglia con le più squallide tendenze
conservatrici. Qualunque sia l’esito del 4 dicembre, sono queste le
partite da tornar presto a giocare per crescere. Se avranno vinto i sì,
andrà poi subito sfruttata la riforma del Titolo V per ridimensionare i
danni che continua a fare il cattivo uso delle autonomie locali.