domenica 16 ottobre 2016

La Stampa 16.10.16
Ma non è la soluzione alla crescita bassa
di Stefano Lepri

Nel suo insieme, stando alle cifre, la manovra economica 2017 lascerà il deficit pubblico all’incirca invariato.
L’effetto sulla crescita che il governo attende si dovrebbe dunque ottenere da un miglior uso del denaro pubblico, ovvero da quel togliere di qua e mettere di là che verrà realizzato con la legge di bilancio.
Ma la grande novità degli annunci di ieri è che a una lieve riduzione delle tasse e a nuove spese si farà fronte con entrate temporanee per un totale di 6 miliardi di euro a carico di contribuenti che in un modo o nell’altro devono qualcosa al fisco. In linea di principio, questa scelta può giovare all’economia; ma apre interrogativi sul bilancio del 2018.
Prima di questa sorpresa, i calcoli del governo sugli effetti benefici della manovra non erano parsi del tutto credibili all’organo di controllo, l’Ufficio parlamentare di bilancio. Si tratta comunque di numeri aleatori specie nella situazione del tutto nuova in cui l’economia mondiale sembra trovarsi al momento.
Se è lecito dubitare della qualità delle misure annunciate, è soprattutto perché danno l’impressione di essere costruite, più che su un progetto, con un accumulo di esigenze e istanze disparate. Provengono dalle richieste di quei «corpi intermedi» della società (categorie, associazioni, sindacati, eccetera) che nei primi tempi del suo governo Matteo Renzi era stato contento di scavalcare.
In questo senso una somiglianza politica con le «manovre» di tanti governi del passato è difficile negarla. Anche perché se si vogliono ottenere sei miliardi, dovranno assumere aspetti di condono fiscale la seconda «voluntary disclosure» (la prima non lo era, questa invece farà sconti) e quella che è stata chiamata la rottamazione delle cartelle di Equitalia.
L’impegno aggiuntivo in investimenti pubblici e in nuovi incentivi agli investimenti privati sembrano misure valide, però nel 2017 concernono cifre non grandi. Questo è il risultato delle acrobazie compiute per conciliare la ricerca di consensi al governo in vista del referendum con le regole di bilancio europee in cui sempre meno si crede (anche con buoni motivi).
La Commissione europea insiste perché nel 2017 il deficit «strutturale» mostri una riduzione almeno simbolica, lo 0,1% rispetto al prodotto lordo. Ovvero, che sia almeno lievemente restrittiva. Nonostante il debito pubblico italiano sia altissimo e potenzialmente rischioso, con una economia che non cresce e tassi di interesse mondiali vicini a zero la pretesa è eccessiva.
A chi ripete certezze di ieri, come il governo tedesco o certi funzionari di Bruxelles, farà bene leggere il discorso pronunciato l’altra sera da Janet Yellen, la presidente della banca centrale Usa. Invitando gli economisti a rinnovare le loro teorie, ipotizza che troppa austerità danneggi la crescita in modo permanente, non solo temporaneo.
Eppure l’Italia non è in grado di sottrarsi con le sue forze ai vincoli. Se disobbedisse - con un forte calo delle tasse o più investimenti - si esporrebbe a rischi di speculazione sui mercati. E anche forzare al massimo le regole può essere poco efficace, data la perlopiù cattiva qualità delle decisioni di spesa che il nostro sistema politico produce.
Con qualche cifra un po’ speranzosa e con i quasi-condoni il nostro governo ha cercato di prendere tempo. Ma il problema della bassa crescita, che è di tutti i Paesi avanzati, da noi presenta aspetti più gravi e specifici. Perfino ridurre le tasse può funzionare poco, se manca la fiducia in ciò che le istituzioni del Paese sono in grado di realizzare, e se anzi sono in tanti a non voler cambiare nulla.