La Stampa 11.10.16
Se il fattore-Putin irrompe nella sfida
di Stefano Stefanini
Le
elezioni americane non si decidono certo sulla Russia. Vladimir Putin
ha però fatto capolino nella campagna presidenziale. Per Hillary Clinton
è chiaramente un avversario da tenere a bada. Per Donald Trump il capro
espiatorio di errori americani. La divergenza mette in discussione
l’assioma americano del contenimento di una Mosca aggressiva in Europa e
in Medio Oriente. Questo il principale segnale di politic estera del
secondo dibattito presidenziale.
Una
presidenza Trump riscriverebbe da capo il copione con Mosca.
Imprevedibile dire come, ma il candidato repubblicano non ha intenzione
di farsi legare le mani dai precedenti (non importa se risalgono a
Truman ed Eisenhower) e dalla sprezzante condotta di Mosca nei confronti
dell’attuale amministrazione. Secondo Trump, Obama, Kerry e Clinton
hanno avuto quello che meritavano; nulla vieterebbe a lui di fare tabula
rasa e ripartire da zero.
Lo crede davvero
possibile e realistico? Poco conta. Al momento a Donald Trump
interessano i voti americani. Per pescare nel grande pubblico, egli non
ha remore a presentarsi anche in politica estera come il ribelle contro
l’establishment, democratico o repubblicano. Va alla ricerca del voto di
chi non è d’accordo col consenso tradizionale all’interno o negli
affari internazionali. Mai nessun candidato alla presidenza Usa aveva
osato presentarsi «debole sulla Russia». Trump offre però una nuova
versione: quella dell’intesa fra forti. Putin è uomo forte (e pertanto
merita rispetto), occorre esserlo altrettanto.
I
rapporti russo-americani sono al minimo storico dalla fine della Guerra
Fredda? Per Trump la colpa è di Obama. I motivi di scontro non mancano:
Ucraina, Siria, attacchi informatici. Il comportamento russo,
dall’annessione della Crimea ai bombardamenti in Siria, è spesso
indifendibile. Trump l’ignora. Pochi giorni fa Mosca ha posto l’ennesimo
veto in Consiglio di Sicurezza su una risoluzione per dare una tregua
umanitaria al martirio di Aleppo. Trump ha rifiutato di saltare sul
carro anti-russo e non si è fatto troppi scrupoli di prendere le parti
di Putin: «Non lo conosco, ma (insieme a Assad) uccide Isis». Al
candidato repubblicano è quanto basta.
Il
fossato fra gli elettori di Trump e quelli di Clinton va al cuore della
società e della politica americana. Faremmo bene a prestarvi attenzione
anche da questa parte dell’Atlantico: messe a nudo dalla piaga dei
referendum simili faglie attraversano anche l’Europa. Accanto
all’animosità senza precedenti, agli attacchi personali, il secondo
dibattito ha aperto anche una spaccatura sulla politica estera, facendo
della Russia il pomo della discordia.
Spesso,
nei due decenni post-sovietici, incomprensioni americane nei confronti
delle ragioni ed esigenze della Russia hanno contribuito a spingere
Vladimir Putin sull’attuale linea di nazionalismo «euro-asiatico». A
torto o a ragione, Mosca si è sentita messa da parte dall’Occidente. Poi
Putin ci ha messo molto del suo, fino a sfidare adesso gli Stati Uniti
con il ritorno in Medio Oriente, con la guerra in Siria, costi quello
che costi ai civili di Aleppo.
In teoria (ma
Donald Trump ne ha già capovolte molte) la linea anti-russa è sempre
quella elettoralmente pagante in America. A maggior ragione dovrebbe
essere così oggi. Trump ha invece deliberatamente optato di lasciarne la
versione tradizionale a Hillary Clinton. Si presenta agli americani
come il Presidente che può trattare Putin da pari a pari. Si astiene dal
lodarlo ma non gli lesina rispetto e, forse, ammirazione (ricambiata?).
La
continuità della politica estera americana verso Mosca è stata in
realtà un tracciato di continuo compromesso e continue oscillazioni fra
«falchi» e «colombe». Talvolta uno stesso Presidente (basti pensare a
Reagan) ha invertito ruolo in corso di mandato. Per temperamento e
mentalità, Donald Trump è iscritto di diritto al partito dei falchi. Lo è
col suo slogan di campagna presidenziale; lo confermano continuamente i
suoi semplicistici ma chiari accenni alla politica militare e nucleare.
Nei confronti della Russia, e per istintiva simpatia verso il
Presidente russo, egli propone tuttavia una terza via: quella del patto
leonino.
Non facciamoci illusioni. Non ha
nulla a che vedere col «dialogo» caro agli europei. Donald Trump cavalca
una visione di politica estera fondata su potenza e su do ut des. Anche
con Putin e, perché no, con Assad, e chissà chi altri. Se anche non ci
sarà un Presidente Trump il pericolo è che questa visione faccia scuola
nel mondo.