Il Sole 11.10.16
La povertà di temi nei «duelli» americani
di Mario Platero
Sostanza?
Poca. Nel dibattito dell’altra sera hanno dominato attacchi reciproci,
superficiali, antipatici, pungenti su carattere e personalità di Hillary
Clinton e Donald Trump.
Ci si può lamentare
dell’assenza di un’analisi seria e approfondita delle sfide e delle
tematiche aperte davanti a noi in uno dei momenti più difficili per le
democrazie industriali e per la traiettoria del capitalismo. Ma dobbiamo
rassegnarci: nell’era del tempo reale le elezioni si vincono o si
perdono sulla definizione del carattere e delle personalità dei
candidati. Soprattutto quando da una parte del tavolo c’è Donald Trump.
Nel suo caso è difficile entrare nei dettagli delle tematiche: non li
conosce perchÈ non li studia.
Per questo per
lui è più facile rifugiarsi in un confronto “da bar”, con toni
populisti che attraggono chi non ha la pazienza di soffermarsi sulla
sostanza. Poteva Hillary cambiare il tono? Onestamente per lei sarebbe
stato difficile. Ricordiamoci come Marco Rubio sia stato spazzato via
dalle primarie per non aver risposto a un attacco personale del
governatore del New Jersey Chris Christie. Rassegniamoci dunque: la
posta in gioco nell’era di Internet e delle reazioni collettive
immediate è troppo alta se una percezione epidermica può determinare
l’esito di un’elezione.
Detto questo, la
sostanza, l’analisi delle risposte e del tono, restano. Forse più nel
dopo dibattito che durante il dibattito. E domenica notte Trump, che ha
fatto meglio del primo dibattito e attutito l’impatto del video scandalo
garantendosi la sopravvivenza, ha commesso un errore. Si è addentrato
nel terreno scivoloso della minaccia: annunciare la nomina di un
procuratore per mandare Hillary in prigione se vincerà la Casa Bianca, è
una intimidazione che suona più adatta a una dittatura di basso rango
che agli Stati Uniti d’America. Eppure, quando ha detto a Hillary «con
me saresti in prigione» molti hanno sorriso. In realtà è stato un
boomerang. Ha fatto bene ieri il presidente della Camera Paul Ryan a
dare a Trump il colpo decisivo che non era riuscito a Hillary Clinton
durante il dibattito: ha annunciato formalmente che non sosterrà Trump
perché deve difendere la Camera. Come dire: la battaglia per la
presidenza è perduta. Ryan ha scelto di abbandonare Trump non solo per
le sue volgarità, ma perché dicendo quello che ha detto sulla sua nomina
di un procuratore speciale il candidato repubblicano ha mostrato di
ignorare che quella nomina spetta al dipartimento per la Giustizia, non
alla Casa Bianca. E che quel processo di nomina, separato, è molto
severo e deve rispondere a requisiti molto stringenti sul merito, per
evitare che la legge venga manipolata per ragioni politiche e non per
questioni strettamente giuridiche. Ecco dunque che la sostanza bloccata
alla porta del dibattito rientra dalla finestra. Oggettivamente Hillary
in quel dibattito non poteva spiegare che quel diceva Trump era
tecnicamente scorretto. Ma la verità è giunta lo stesso. In questo caso
dall’opposizione di Hillary. Uno sviluppo che, pur con i mille problemi
dell’era del tempo reale, ci dà la misura di una democrazia solida. Che
Trump, ora possiamo dirlo con buoni margini di certezza, non potrà più
azzoppare.