martedì 11 ottobre 2016

La Stampa 11.10.16
Obama, armi ai ribelli per fermare Putin in Siria
Il presidente americano sfida la Russia e dà una mano a Hillary Missili anticarro ai curdi. Il Cremlino rafforza la base di Tartus
di Giordano Stabile

Si fa presto a dire «No fly zone» come ha detto ieri notte Hillary Clinton nel dibattito. La Siria di oggi non è l’Iraq del 1991 o la Libia del 2011. Saddam Hussein aveva armamenti sovietici di seconda mano. Bashar al-Assad ha il top della produzione russa, in campo missilistico in grado di competere con l’America. La costa di Lattakia e Tartus, e la fascia di territorio che va da Aleppo a Damasco, sono di fatto una provincia militare della Russia. Le difese aeree sono in qualità pari a quelle che proteggono Mosca o San Pietroburgo. La quantità non è la stessa e quindi è ancora possibile penetrarle ma il prezzo da pagare sarebbe probabilmente alto. Soprattutto se Putin convincerà Erdogan a restare per lo meno neutrale nel suo braccio di ferro con Obama.
«No fly zone» significa «tenere a terra» i cacciabombardieri siriani, cioè prendere il controllo dello spazio aereo. L’aviazione di Damasco ha ancora circa 300 aerei, compresi 80 Mig-29, 50 Su-22 da attacco al suolo, e circa 150 vecchi Mig-21. I russi hanno una cinquantina di Su-35, Su-34, Su-24, più una ventina di Su-33 sulla portaerei Admiral Kuznetsov. Ma il vero problema sono le difese anti-aeree: un battaglione russo di S400 (8 lanciatori ciascuno con 4 missili), quattro battaglioni siriani di S300 (pare gestiti dai «consiglieri» russi), una batteria di S300V4 anti-missili da crociera piazzata a Tartus per difendere la base aeronavale dai Tomahawk statunitensi. La base sarà ampliata e ieri l’accordo con Damasco per la presenza delle forze russe, che risale al 1971, è stato esteso «a tempo indeterminato».
Il punto debole dello schieramento russo è la quantità. Nel 2013 il generale russo Anatoliy Kornukov aveva avvertito che servivano «una decina di battaglioni di S300» per coprire il territorio siriano. In base alle informazioni ufficiali ce ne sarebbero 5 più una batteria. Sufficienti a fare scudo solo sulla Siria occidentale. Ma non se fossero attaccati da una soverchiante forza aerea occidentale. Se, per esempio la Turchia, con i suoi 400 fra caccia e aerei d’attacco, partecipasse all’operazione. La visita di ieri di Vladimir Putin ad Ankara, incentrata davanti al pubblico sugli accordi nel campo energetico e la firma per la realizzazione del Turkish Stream, è servita anche a tastare il polso dell’ex acerrimo nemico Recep Tayyip Erdogan, ora tornato su posizioni concilianti. Mentre lo schieramento dei missili nucleari Iskander a Kalinigrad serve a mettere sotto pressione la Nato in Europa centrale.
Stinger agli anti-Assad
La no-fly-zone era già stata evocata nell’autunno del 2011 e poi nell’estate del 2013, quando il regime era in condizioni molto peggiori. Le forze rivoluzionarie sono radicalmente mutate da allora, e ora sono dominate da gruppi salafiti e di ispirazioni jihadista come Jabat al-Fatah al-Sham (ex Al-Qaeda), Jaysh al-Islam, Ahrar al-Sham. Dopo l’intervento russo nel settembre 2015 Barack Obama ha acconsentito all’invio di missili anti-tank Tow ma non di missili anti-aerei Manpads, per timore che finissero nella mani di Al-Qaeda o dell’Isis. Ne sono arrivati di fabbricazione cinese ma ora per la prima volta ci sono, secondo l’analista del Middle East Institute Charles Lister, «forniture regolari» attraverso i valichi di frontiera con la Turchia nella provincia di Idlib.
I Manpads però non possono colpire oltre i 5 mila metri di quota e finora hanno abbattuto due Su-22 che volano bassi per individuare gli obiettivi al suolo. Dalla rottura della tregua, il 19 settembre, i ribelli avrebbero ottenuto «tremila tonnellate» di armamenti. Difficile però che possano cambiare le sorti della battaglia ad Aleppo, dove 6 mila combattenti, metà jihadisti, sono circondati. Serviranno per l’incombente battaglia di Idlib, che l’esercito vuole riconquistare subito dopo. Assad è saldo in sella come non mai negli ultimi cinque anni. La Turchia si sta allineando alla Russia, l’Iraq è un alleato chiave nell’asse Teheran-Baghdad-Damasco.
Una Tartus egiziana
E poi c’è l’Egitto di Abdel Fateh Al-Sisi. Il raiss egiziano è in sintonia con Putin sulla Libia, con il sostegno al generale Khalifa Haftar, e sempre di più sulla Siria. Ieri l’Arabia saudita ha minacciato la sospensione delle forniture di petrolio al Cairo (mezzo miliardo al mese) per il sì egiziano alla risoluzione russa all’Onu. Si rischia un altro valzer di alleanze e, secondo la Tass, ci sarebbero discussioni avanzate per riportare gli aerei russi nell’ex base sovietica di Sidi Barrani. Una Tartus egiziana.