martedì 11 ottobre 2016

La Stampa 11.10.16
Il popolo della rivolta resta con “The Donald”
di Gianni Riotta

L’ultimo dibattito per la Casa Bianca 2016 fra Hillary Clinton, democratica, e Donald Trump, repubblicano, si terrà il 19 ottobre, a Las Vegas, la città del gioco d’azzardo perfetto scenario per una campagna elettorale che ormai ha solo poste altissime e rischi impossibili da calcolare.
Nel secondo faccia a faccia di St. Louis, domenica notte italiana, il magnate di New York Trump ha, ancora una volta, battuto gli allibratori politici che, dopo le rivelazioni sulle sue abituali molestie sessuali contro donne conosciute e no, lo davano per spacciato. Il quartier generale repubblicano lo abbandona in fretta, compresi i candidati alla presidenza 2008 e 2012 McCain e Romney, e perfino il suo vice, governatore Pence, prende goffo le distanze dal focoso palazzinaro? Trump non fa un passo indietro. Evoca gli adulteri di Bill Clinton, accusa l’ex avvocato Hillary Clinton di aver fatto assolvere lo stupratore di una bimba dodicenne. «In quel nastro chiacchiere da uomini, roba da spogliatoio» minimizza, guardando ai voti «Nascar», bianchi di mezza età, senza titoli di studi, usi al misogino machismo da bulli.
Trump sa di esser solo, senza partito alle spalle, è consapevole che i sondaggi, specie negli Stati in bilico, non gli sono favorevoli, ma non cambia stile, meglio perdere con il brand «The Donald» che da politico burocrate. Questa è la prima notizia che arriva da St. Louis, il tono volgare, aspro, saturo di insulti e veleni, Hillary a dire «avrei paura con Trump alla Casa Bianca» e il rivale a rimbeccarle «Perché andresti in galera!», fissa un punto di non ritorno nella conversazione politica del paese. Se, come possibile, il duello tv battesse il record di 85 milioni di spettatori, on e offline, l’intera opinione pubblica degli Stati Uniti d’America sarebbe stata corrosa da un odio senza quartiere - Trump ha giusto accusato la Clinton di essere «colma di odio», shakespeariana Bisbetica Indomita.
Il presidente Obama aveva provato a unire i cittadini, arruolati da una generazione in una guerra di valori e culture, prima che politica. Ha fallito, e il suo cerebrale distacco ha acuito il male che voleva lenire. In questo clima tossico, Hillary Clinton, veterana da decenni dello scontro a mani nude con la propaganda di destra, si muove senza scrupoli. Non ha ceduto alla tentazione di affibbiare all’avversario il colpo del ko, conscia che troppa fretta, aprire la guardia, cedere all’animosità, potrebbe alienarle parte del sottile favore di cui gode. Ha speso 135 milioni di dollari in spot tv contro 4 di Trump, ha dalla sua giganti repubblicani, la stampa e i media tutti, donne, neri e ispanici, eppure Trump ancora incombe, forte di una base che lo ha scelto come campione e non molla. Se davvero arrivasse a Washington, questa deve essere la prima riforma di Clinton, dare ascolto e sostegno ai ceti medi in sofferenza per la crisi, non ignorarli. Se esitasse, il paese si perderebbe, inferocito, sulle barricate.
Nel fango di scambi penosi da ascoltare, la cacofonia del St. Louis blues ha però offerto una seconda notizia cruciale. Clinton ha denunciato il sabotaggio che il Cremlino va promuovendo, con leaks, organizzazioni parallele e pirati informatici, contro le elezioni Usa, parlando poi di «aggressione russa» contro Aleppo in Siria. È risoluta ad armare i peshmerga curdi, e implicitamente i ribelli anti Assad, allestendo una «no fly zone» umanitaria contro Damasco. Putin sa che fa sul serio, e disloca rampe di missili antiaerei che hanno come bersaglio non i fantaccini miliziani, ma l’aviazione Usa. Dopo l’amletico Obama, l’arena di St. Louis conferma Hillary, primo presidente donna, come falco. Russia, Cina e Europa dovranno fare i conti con questa novità inaspettata.