Corriere 11.10.16
La stampa unanime appoggia Clinton. Ma serve ancora?
A spingere Trump ci sono i social media
di Massimo Gaggi
NEW
YORK L’ultimo a gettare la spugna è stato il St. Louis Post Dispatch ,
il quotidiano della città che ha ospitato il secondo dibattito
presidenziale: un glorioso giornale conservatore fondato (anzi,
rifondato dopo un avvio problematico) nel 1878 da Joseph Pulitzer. Il
Dispatch non appoggiava candidati democratici alla Casa Bianca dai tempi
di Woodrow Wilson, un secolo fa. Fin qui aveva sempre dato il suo
«endorsement» ai repubblicani. Ma con Donald Trump non ce l’ha fatta:
ieri, quasi scusandosi coi lettori, ha deciso di appoggiare Hillary
Clinton considerando improponibile una presidenza del «tycoon»
conservatore.
Ieri anche il Boston Globe ha
preso la stessa decisione, mentre nei giorni precedenti altri quattro
grandi giornali locali di solidissime tradizioni conservatrici hanno
scelto di schierarsi con la candidata democratica alla presidenza: l’
Arizona Republic che si è sempre schierato col pretendente repubblicano
alla Casa Bianca negli ultimi 126 anni, il San Diego Union Tribune il
cui record di sostegno ai politici di destra è, addirittura, di 140
anni, il Cincinnati Enquirer (100 anni tondi, come il Dispatch ), mentre
l’ultimo democratico, prima di Hillary, appoggiato dal texano Dallas
Morning News risale a 75 anni fa.
Trump non
se ne preoccupa troppo: demonizza la stampa «liberal» e si cura poco
anche di quella conservatrice, considerandola elitaria, parte
dell’establishment politico. Sta di fatto, però, che a oggi nessun
organo di stampa di peso si è schierato con lui. Il giornale
conservatore più importante, il più diffuso d’America in termini di
copie vendute, il Wall Street Journal , non dà «endorsement» ufficiali
e, comunque, nei confronti di Trump ha assunto un atteggiamento molto
critico. Lo attacca soprattutto per la sua radicale opposizione agli
accordi di libero scambio e per una visione economica che contiene
notevoli elementi di dirigismo.
Un altro
segnale, piccolo ma rilevante, è venuto ieri da Foreign Policy , una
delle più autorevoli riviste di politica estera degli Stati Uniti.
Certamente non si tratta di un media che sposta masse di voti, ma è
significativo che un «magazine» geloso della sua indipendenza abbia
deciso di mettere in pericolo la sua reputazione di obiettività
scegliendo, per la prima volta in mezzo secolo, di schierarsi con un
candidato, Hillary Clinton.
Lo fa perché
giudica quella attuale una vera emergenza vedendo in Donald Trump un
pericolo grave per la politica estera Usa e anche per la stabilità del
mondo: «E’ pericolosissimo» scrive la direzione della rivista «quello
che dice su temi come l’uso della tortura o la diffusione delle armi
nucleari». Con le sue idee sul libero scambio, l’uso della forza, i toni
duri usati anche nei confronti di Paesi amici e l’amicizia ostentata,
invece, nei confronti di un «tiranno minaccioso» come Vladimir Putin,
Trump rischia di «danneggiare l’economia internazionale, di
compromettere la sicurezza globale e di provocare una crisi nei rapporti
con gli alleati degli Stati Uniti». Per Foreign Policy è «scioccante
che una parte del Paese pensi a un personaggio come Trump per la Casa
Bianca: è il peggior candidato che sia mai stato prodotto da un grande
partito americano».
Come detto, però, una
simile presa di posizione fa riflettere, ma non è destinata a
influenzare un numeri significativo di elettori. E anche l’importanza
dell’endorsement degli organi di stampa è andata calando negli anni. Ha
un suo significato, soprattutto nelle realtà locali e ancora ieri un
commentatore della Fox , rete che ha molto criticato Trump ma ormai è
decisamente schierata dalla sua parte, notava con rincrescimento e
sconcerto che a questo punto, dopo lo scandalo delle registrazioni,
probabilmente nessun giornale americano di peso sosterrà il candidato
repubblicano.
Ma a gonfiare le vele della
campagna di Trump sono stati altri media: soprattutto i «social media» a
cominciare dal suo abilissimo uso di Twitter, gli «anchor»
arciconservatori della rete televisiva Fox come Sean Hannity, conduttori
radiofonici come Rush Limbaugh e poi i siti dell’estrema destra come
Breitbart e quello di Matt Drudge che negli ultimi anni sono diventati
una vera potenza. Tanto che, alla fine,Trump si è preso il capo di
Breitbart come stratega della sua campagna.
Ma
in questo mondo sempre più influente dei commentatori dei media
digitali, la candidatura dell’imprenditore populista ha prodotto una
spaccatura che è ormai una sorta di guerra civile tra i trumpiani senza
se e senza ma, eredi dei radicali che bollano i moderati come RINO
(acronimo per repubblicani solo di nome) e, sull’altro fronte, i «never
Trump»: da Erick Erickson del sito RedState a Bill Kristol del Weekly
Standard , la squadra della National Review e, soprattutto, George Will,
bastione conservatore all’intero del progressista Washington Post .