La Stampa 11.10.16
Il partito al canto del cigno
di Marcello Sorgi
La
crepa che s’è aperta nel Pd e rende più incerto l’esito del referendum,
dal momento che il partito avrebbe dovuto essere (e non sarà) il traino
del «Sì», per una volta è soprattutto politica, e non, o non
esclusivamente, connessa al groviglio di odii e risentimenti personali
che da sempre dividono i Democrat.
S’è
capito benissimo ascoltando il dibattito che per tutto il pomeriggio s’è
svolto al Nazareno, nel quale, dopo la relazione con cui Renzi ha
formalizzato la sua apertura ad eventuali modifiche dell’Italicum, s’è
affacciato chiaramente il fantasma del proporzionale. Cioè, per
intendersi, l’esatto contrario dei sistemi maggioritari su cui s’è retta
per oltre un ventennio, con tutti i suoi limiti, la Seconda Repubblica,
consentendo ai cittadini di scegliersi direttamente i governi, poi
rivelatisi non sempre in grado di governare.
Contro
questo meccanismo, che ha nell’Italicum una delle sue applicazioni,
frutto di un compromesso e di un tentativo di migliorare il Porcellum
dichiarato incostituzionale, la minoranza bersaniana, che non aveva
votato la nuova legge elettorale in Parlamento, s’è spinta ad annunciare
che voterà «No» alla riforma costituzionale il 4 dicembre.
Nel
tentativo di dare «rappresentanza» - è la parola chiave adoperata da
Roberto Speranza, l’ex capogruppo dei deputati che proprio per non
approvare l’Italicum si dimise - a quella parte della sinistra che con i
partigiani dell’Anpi, l’Arci, le associazioni antimafia e altri pezzi
della società civile sono già schierati contro Renzi.
Qui
la discussione interna al partito del premier è arrivata a un punto di
svolta. Perché la minoranza non ha chiesto solo di correggere questo o
quel punto dell’Italicum, che piuttosto vorrebbe interamente riscritto.
Ma di dare legittimazione a chi vuole opporsi nelle urne, alla legge
elettorale e alla riforma costituzionale insieme, approfittando della
prima occasione disponibile, appunto il 4 dicembre. Un ragionamento come
questo - Speranza non ha parlato di numeri, ma la minoranza da tempo ne
dispone - poggia sulla valutazione, emersa da recenti sondaggi, secondo
la quale il 36 per cento dell’elettorato Pd, più di un terzo, in valori
assoluti il 12-13 per cento del totale dei voti degli elettori, è ormai
risolutamente per il «No». E questo 12-13, sommato al 4-5 che sta fuori
del partito, alla sua sinistra, guarda caso fa il 16-17 per cento che
il Pds, erede, dopo il cambio del nome, del vecchio partito comunista,
prese nel ’92, nell’ultima occasione in cui si votò con il
proporzionale.
In altre parole, se al
referendum Renzi e il «Si» saranno sconfitti, e perfino se la Corte
Costituzionale, quale che sia il risultato, riscriverà l’Italicum, per
esempio rendendo obbligatorio il premio di maggioranza per le
coalizioni, e non com’è adesso solo per il partito vincente, il Pci, o
come si vorrà chiamare, è pronto a rinascere a sinistra del Pd. Va da sé
che per Bersani, Speranza, Cuperlo e tutti coloro che si preparano a
far campagna per il «No» insieme a D’Alema, che li aveva preceduti su
questo fronte, sarebbe più adatto il proporzionale, che gli
consentirebbe più comodamente di riorganizzarsi in proprio, sapendo che
su questo terreno troveranno disponibili in Parlamento tutti o quasi gli
altri partiti, incapaci di collaborare, ma pronti a unirsi in nome del
sistema che nella Prima Repubblica garantiva governi brevi e facili da
sostituire, alleanze mutevoli e occasionali e una sorta di diritto al
trasformismo.
Dunque il percorso è chiaro.
Chiarissimi anche l’obiettivo e le vittime designate: Renzi, il suo
governo e la sua riforma. Il Pd, per come lo si conosceva, da ieri non
c’è più. Quel che resta da vedere è se con la - assai meno probabile,
dopo quel che è accaduto, ma non del tutto impossibile, non si sa mai
con i referendum -, vittoria del «Sì», dopo il Pci vedremo rinascere la
Dc.