martedì 11 ottobre 2016

Corriere 11.10.16
La lite infinita e lo spettro della scissione
di Massimo Franco

Probabilmente sfugge al vertice del Pd la stanchezza che le sue liti hanno prodotto da tempo nell’opinione pubblica. La spaccatura nella riunione di ieri della direzione in materia di referendum lascia balenare una scissione entro pochi mesi.
Eppure, la prima conseguenza è una picconata alla credibilità delle proposte rivolte al Paese. Le riforme costituzionali, il sistema elettorale: tutto finisce per essere percepito non come spartiacque per il futuro dell’Italia, ma come terragna materia di scambio nei giochi interni del Partito democratico.
L’impressione sgradevole è che il presunto perno del Paese, in realtà, gli stia scaricando addosso la sua instabilità. La domanda da porsi è come mai si sia arrivati a questa frattura senza che nessuno sia riuscito a scongiurarla. Sarebbe quasi rassicurante scorgere una strategia o un calcolo, da parte della maggioranza e della minoranza del Pd. Il sospetto, invece, è che l’esito sia il frutto di furbizie e odi reciproci, nutriti all’ombra di parole ufficiali di comprensione e di concordia. Sembra quasi che i dem facciano di tutto per somigliare all’Italia nei suoi aspetti deteriori. Se al referendum del 4 dicembre si arriva in un clima da ultima spiaggia, è anche perché vengono artificiosamente trasferite sul Paese la loro rissa e la loro incapacità di dialogare.
Non c’è dubbio che il No annunciato dalla minoranza anti-renziana grondi ostilità verso il governo e il premier personalmente. Pier Luigi Bersani e gli altri avversari avevano votato le riforme sottoposte a referendum. Il fatto che quel sì iniziale si sia trasformato nel tempo in un rifiuto politicamente traumatico segnala un comportamento discutibile. Ma è singolare anche che Renzi non abbia fatto nulla per captare e evitare quanto si agitava nelle viscere del partito del quale è segretario. Ieri si è difeso accusando gli avversari interni di cercare un alibi pur di criticarlo. Non ha concesso molto, però.
Si è impegnato a discutere le modifiche della legge elettorale, certo, ma dopo il referendum: proposta rifiutata, naturalmente. Ma è come se ogni parola rispondesse a un canovaccio già scritto, che, se confermato, può preludere a una crisi irreversibile del centrosinistra. Quello che Renzi e i suoi avversari sembrano non capire, tuttavia, è la distanza siderale delle loro priorità dalle esigenze di un’Italia allibita da comportamenti che dimostrano un certo difetto di consapevolezza. Per mesi si è assistito a un Renzi che minacciava di «usare il lanciafiamme» contro i suoi critici. E i suoi critici non nascondevano la voglia repressa di farlo saltare, non esistendo ancora le condizioni per una scissione.
Quanto si è visto e sentito ieri alla direzione del Pd è l’ultima tappa di questa danza spregiudicata sui problemi del Paese: un approccio che verosimilmente continuerà anche dopo il referendum, chiunque vinca. Ma l’esito della spirale polemica sarà di coinvolgere l’Italia nelle convulsioni post-referendarie del Pd: sebbene quella tra il destino del Paese e del partito sia un’identificazione forzata e azzardata. Per fortuna, il referendum è solo un passaggio. Ma se non cambia qualcosa, il punto d’arrivo rischia di essere un’ulteriore frantumazione del sistema politico; e spinte contrastanti per arrivare a elezioni anticipate nel 2017.
Lo scenario diventerebbe quello di un voto su macerie istituzionali e politiche sulle quali ricostruire sarebbe più faticoso di prima. Già alle Amministrative di giugno il Pd è stato ridimensionato rispetto alle Europee del 2014; e molte delle tensioni si sono acuite dopo quella sconfitta. Adesso, va evitato che si radichi un dubbio pericoloso: che la velocità sbandierata in questi due anni e mezzo abbia fatto perdere e non guadagnare tempo all’Italia, al punto da spaccare il Pd. Sarebbe una manna per il peggiore populismo, che sugli errori altrui finora ha vissuto di rendita.