domenica 30 ottobre 2016

ITALIA
Corriere 30.10.16
«La corruzione è sistemica e danneggia anche i cittadini»
intervista di Giovanni Bianconi

All’indomani dell’ultima operazione anticorruzione il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, denuncia la minaccia delle tangenti: «Un fenomeno multilaterale o addirittura sistemico, in cui intervengono, per trarne guadagni illeciti, oltre a pubblici ufficiali e corruttori, altri protagonisti che lucrano a danno delle casse pubbliche». Un pericolo per i cittadini: «Molto spesso l’imprenditore che paga le mazzette è tentato di rifarsi abbassando la qualità dell’opera. È ciò che conparole diverse dicono tanto papa Francesco che il presidente della Repubblica:la corruzione è una malattia che corrode la struttura vitale della società».

ROMA «La corruzione oggi si manifesta sempre più spesso come un fenomeno multilaterale o addirittura sistemico, in cui intervengono, per trarne guadagni illeciti, oltre a pubblici ufficiali e corruttori, altri protagonisti (consulenti, professionisti, addetti ai controlli, eccetera) che lucrano ognuno qualcosa a danno, in sostanza, delle casse pubbliche», sostiene il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone all’indomani dell’ultima operazione anticorruzione condotta dal suo ufficio.
Ci sono anche conseguenze dirette a danno dei cittadini?
«Direi di sì, poiché molto spesso l’imprenditore che paga le mazzette è tentato di rifarsi abbassando la qualità dell’opera; “questo cemento sembra colla”, dice uno degli indagati. Sono anche emersi episodi di reciproci ricatti tra gli stessi inquisiti, perché è inevitabile che se si entra in una rete di rapporti di natura criminale si corre il rischio di perdere la propria libertà di determinazione. È ciò che con parole diverse dicono tanto papa Francesco che il presidente della Repubblica: la corruzione è una malattia che corrode la struttura vitale della società».
Il metodo mafioso stavolta sembra non entrarci.
«No, ma l’indagine nasce dagli accertamenti eseguiti su un commercialista emerso in un filone minore di Mafia Capitale, che mette la sua capacità professionale in tema di fatture false, falso in bilancio, riciclaggio di somme pagate in nero, tanto a disposizione di organizzazioni mafiose o camorriste, quanto di esponenti di criminalità organizzata transnazionale (per esempio albanesi dediti al traffico di droga), o di imprenditori “normali”. Il rischio è che questi soggetti detentori di un particolare know how agevolino i contatti tra i diversi fenomeni criminali con un aumento esponenziale della pericolosità degli uni e degli altri».
Però siamo in presenza di un’indagine, poi magari si arriva al processo e tutto si sgonfia.
«Io sto parlando della fotografia della realtà che emerge da questa e da tante altre inchieste, a prescindere dal giudizio di colpevolezza sulle singole persone. In questo caso, comunque, c’è già un giudice che ha sancito l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza».
Ma secondo lei esiste il problema di inchieste che poi sfociano in sentenze di assoluzione, dopo anni di attesa per gli imputati?
«Le assoluzioni rientrano nella fisiologia del sistema processuale. Giudicare su colpevolezza o innocenza degli imputati è una decisione di grande responsabilità, spesso anche complessa. Le sentenze non si ottengono con un’operazione al computer, specie per reati come quelli di corruzione, e per assicurare il massimo di garanzia al cittadino il nostro legislatore ha previsto tre gradi di giudizio. Accettando, di conseguenza, la possibilità di giudizi contraddittori».
Con tempi un po’ troppo lunghi, non crede?
«Un sistema di garanzie come il nostro non esiste negli altri Paesi europei. Il legislatore ha scelto di pagare anche un pesante prezzo in termini di lunghezza dei processi, lunghezza che naturalmente dipende anche da altri fattori».
L’ultima assoluzione che ha fatto rumore è quella dell’ex sindaco di Roma Marino.
«Non parlo di casi particolari, e peraltro quella non è una sentenza definitiva. Ci potranno essere impugnazioni e altre pronunce. Noi rispettiamo le sentenze, anche quelle che non condividiamo perché, ad esempio, si pongono in contrasto con l’orientamento della Cassazione, ocon altre pronunce di merito sugli stessi temi».
Caso Marino a parte, pensa che l’informazione dia troppo peso agli arresti o alle indagini preliminari, rispetto ai dibattimenti e alla conclusione dei processi?
«Che le sentenze abbiano un’eco mediatica molto minore di quella riservata alle prime fasi dei procedimenti non dipende certo dai magistrati. Così come non dipende da noi il fatto che la politica faccia discendere le sue scelte dall’andamento dei processi».
Vi hanno contestato di aver tenuto riservate alcune indagini a carico di certi politici, e non le fughe di notizie su altri. Che cosa risponde?
«Che non è vero. Si continua a parlare di fughe di notizie da parte di Procure e polizie, ma in realtà le violazioni del segreto sono rarissime. Quelle che quotidianamente leggiamo sui giornali sono notizie non più coperte da segreto in base ai meccanismi del codice. O addirittura rese pubbliche, legittimamente, da chi fa una denunzia. Ricordo che io o altri colleghi avevamo suggerito di consentire la pubblicazione solo delle ordinanze del giudice, con la conseguenza di escludere la diffusione di notizie contenute negli altri atti processuali, comprese le informative della polizia e le richieste del pubblico ministero. Ma la proposta, oggetto di violente critiche da più parti, non ha avuto esito».
A proposito di Mafia Capitale: com’è possibile che dopo tanto rumore, a quasi due anni dagli arresti, sia arrivata la richiesta di archiviazione per 116 indagati?
«Ecco, su questo vorrei fare un po’ di chiarezza. Intanto sul piano quantitativo. Oltre ai 48 imputati nel processo in corso, per i quali il tribunale dirà se sono responsabili o meno dei reati contestati, ci sono già 14 sentenze di patteggiamento o di condanna, e una di assoluzione. Per altre 27 persone stiamo per chiedere il rinvio a giudizio dopo il deposito degli atti. In tutto 90 posizioni. Dei 116 per cui è stata richiesta l’archiviazione, esattamente la metà, 58, sono persone che rientrano tra quelle 90 posizioni e per le quali, come per Buzzi e Carminati, l’archiviazione riguarda solo qualcuno tra i molti reati inizialmente ipotizzati. Poi ci sono una ventina di iscrizioni nel registro degli indagati derivanti dalle accuse di Buzzi, necessarie per eseguire i riscontri che al momento ne hanno dimostrato l’inattendibilità. Il resto sono posizioni emerse nel corso delle indagini per reati diversi, e per cui riteniamo non ci siano elementi sufficienti a giustificare il processo».
Qual è la conclusione di questo chiarimento «quantitativo»?
«Che in questi numeri non c’è nulla di strano. Sono proporzioni che caratterizzano tutti i più importanti processi di mafia. Nell’indagine Crimine sulla ‘ndrangheta, conclusa con la conferma di quasi tutte le condanne in Cassazione, i rinviati a giudizio erano 161 e le posizioni archiviate 169».
E sul piano «qualitativo»?
«Rivendico le richieste di archiviazione, a riprova dell’attenzione e dello scrupolo con cui la Procura svolge il suo compito. Credo che dobbiamo condurre le indagini in tutte le direzioni e senza pregiudizi, cioè senza ritenere a priori qualcuno colpevole o innocente, e poi chiedere il rinvio a giudizio solo nei casi in cui riteniamo ci siano prove sufficienti a sostenere l’accusa in dibattimento. Come dice il codice. Anche questa valutazione non è semplice, e cerchiamo di farla con il massimo rigore, senza preoccuparci dei consensi o delle critiche che queste decisioni possono suscitare. Consapevoli che la nostra richiesta è solo il primo passo di un processo che vedrà il contributo delle parti e le decisioni di molti giudici».

Repubblica 30.10.16
Referendum, il piano Renzi per recuperare voti a sinistra “Partito della nazione è il No”
Il premier insegue tutti i consensi di area Pd: “A rischio 1 milione”
Ai militanti suggerisce: “Portate in pizzeria 20 indecisi alla volta”
di Goffredo De Marchis

ROMA. Bella ciao, la citazione di Bernie Sanders, il richiamo al senso di comunità, la riscoperta del Pd in piazza, luogo tradizionale della sinistra, visto che la prossima settimana, alla Leopolda, al solito le bandiere dem resteranno fuori. A poco più di un mese dal referendum costituzionale, Matteo Renzi pianifica il recupero di tutti i voti del popolo democratico. Pensa di averne conquistato il grosso ma non basta per un appuntamento che si giocherà intorno alla soglia del 50 per cento. «Non mi posso permettere di non combattere per un milione di voti nostri che ancora ballano», dice nel backstage della manifestazione romana.
Ieri quindi è partito il piano renziano per tenere insieme il più possibile l’elettorato di sinistra, rispolverando la “Ditta”. Mobilitarlo, blandirlo, stimolarlo. E togliere l’acqua in cui nuota la minoranza bersaniana che si prepara a condurre, nelle ultime quattro settimane, una campagna per il No non più timida non più nascosta. Su cosa hanno battuto Bersani e Speranza in questi mesi? Sul partito della Nazione, poltiglia trasformistica, male assoluto della politica del segretario. Allora Renzi ribalta il tavolo, parla con disprezzo del partito della Nazione e lo attribuisce al fronte del No «che va da Brunetta a Travaglio, sull’Europa da Monti a Salvini, da De Mita a Gasparri, finendo a D’Alema». Il vero fritto misto della partita referendaria. L’ex segretario di Bettola non viene citato, tentativo disperato di lasciare aperto uno spiraglio. Ma a Bersani Renzi si riferisce quando elogia il comportamento del “socialista” Sanders, avversario della Clinton alle primarie. «Ha perso e oggi fa campagna per Hillary non per Trump. Avremmo bisogno di un Sanders anche qui».
Al netto del classico valzer di numeri sulle presenze in piazza del Popolo «non del populismo» (sicuramente, siamo lontani dal pienone ma sono molto cambiati i tempi e i partiti), il segretario dem pensa già a una nuova manifestazione a ridosso del 4 dicembre. Secondo i calcoli del guru Jim Messina non è sufficiente la Leopolda di sabato prossima, il cui effetto, dicono gli esperti, può durare al massimo quindici giorni. Occorre un’altro momento di mobilitazione.
Intanto Renzi chiede ai suoi elettori lo sforzo ulteriore di un impegno individuale, una sera libera a settimana per andare a cena fuori con gli indecisi, gli scettici. «Cinque serate in pizzeria con 20 persone alla volta. Discutete, apritevi. In tempo di odio sui social, anche se non convincete nessuno, è un gesto di buona politica».
Massimo D’Alema è ormai un bersaglio facile in una piazza del Pd. Lui è l’unico a essere attaccato frontalmente, senza paura di strappi ulteriori. «Ha detto che gli anziani votano Sì perché non capiscono il tema. Qui ho parlato con una sindacalista dei pensionati (Carla Cantone ndr) che mi ha rivelato che loro votano Sì proprio perché hanno visto all’opera quelli come D’Alema». In piazza c’è dunque la Cgil, spunta qualche fazzoletto dell’Associazione nazionale partigiani, sul palco parlano l’impreditore e l’operaio, il neo assunto grazie al Jobs act e il marito della donna morta in Puglia, vittima del caporalato. Per un giorno, insomma, il referendum «non si vince a destra», come ha confessato il premier-segretario poco tempo fa.
La presenza di Gianni Cuperlo è la ciliegina sulla torta di una possibile unità da trasformare in consensi il 4 dicembre. Non basta, ovvio. Serve ricostruire al volo un sentimento, una connessione con il popolo della sinistra. E anche l’appartenenza al partito, trascurato negli anni della segreteria Renzi. Per questo, il premier ripete una decina di volte la parola “comunità” che ha sempre distinto i movimenti dei lavoratori dall’individualismo della destra liberale. Categorie antiche, ma non è detto che non siano ancora stratificate in una parte dell’elettorato.
Di certo, il recupero pieno della sinistra non è affidato alla legge elettorale. Renzi non la considera un’arma, almeno per i grandi numeri. «Vogliamo cambiarla — concede —. Abbiamo spalancato le porte alle modifiche. Ma il punto non è questo». Non lo è per il voto giovanile, quello che a giudizio dei sondaggi manca all’appello del Sì. Il più difficile da intercettare e orientare. Infatti l’ultimo richiamo di Renzi è ai ragazzi dem: «Dovete esserci, nelle scuole e nelle università».

Repubblica 30.10.16
A un mese dal voto in vantaggio il No il Pd si compatta intorno al premier
Personalizzare la consultazione ha trasformato il referendum in un giudizio pro o contro il governo. Con conseguenze sulla legittimazione di Renzi
di Ilvo Diamanti

IL CLIMA POLITICO del tempo è acceso. Da un solo fuoco. Il referendum sulla riforma costituzionale, che avrà luogo il prossimo 4 dicembre. Così il mese che ci separa dal voto è percepito – e vissuto - come una lunga attesa. Il sondaggio condotto nei giorni scorsi da Demos per Repubblica riflette, dunque, un sentimento che definirei di sospensione. Da un lato, gli orientamenti politici riproducono le tendenze dell’ultimo periodo. Le stime di voto, come nella rilevazione precedente, delineano un sostanziale equilibrio, fra Pd e M5S. Con un lieve vantaggio del Pd, nel voto proporzionale, e del M5S, nel ballottaggio. In entrambi i casi, la distanza è molto ridotta. Tanto da non permettere previsioni. D’altra parte, però, le intenzioni di voto, in merito al referendum, fanno osservare un ribaltamento rispetto alle precedenti rilevazioni. Il No, per la prima volta, supera il Sì. Di stretta misura, in effetti: 4 punti. Anche perché gli incerti sono ancora molti. E la quota dei potenziali astenuti – nascosti, fra l’altro, nelle mancate risposte – ancora molto elevata. Si tratta di un orientamento osservato da altri già da qualche mese. I nostri sondaggi, invece, rilevano questa svolta solo ora. Anche se giunge a conclusione di un avvicinamento progressivo. Da febbraio, quando il Sì risultava in netto vantaggio, fino ad oggi. Questo percorso è segnato, e quasi determinato, dalle scelte del premier, Matteo Renzi. Che l’ha trasformato in un referendum “personale”. Con l’intenzione, evidente, di ricavarne una legittimazione diretta. Per rimediare al problema, che lo ha sempre angustiato, di apparire – ed essere – un premier “non eletto”. In questo modo, però, Renzi ha prodotto un esito imprevisto e in-intenzionale. Ha, cioè, politicizzato il referendum, trasformandolo in un canale di “mobilitazione” di tutti gli scontenti. Contro di lui.
Il sondaggio dell’Atlante Politico di Demos rende evidente questo processo di personalizzazione del voto. Solo un quarto degli elettori – intervistati – ritiene, infatti, che l’obiettivo del referendum sia di riformare oppure mantenere l’attuale Costituzione. Mentre una maggioranza molto larga – 57% - pensa che si tratti di una consultazione a favore oppure contro Renzi e il suo governo. Ed è probabile, dunque, che, a sua volta, voterà seguendo la stessa logica.
I caratteri che accompagnano il voto, d’altronde, sono piuttosto chiari. Il favore per la riforma è più largo nel Nord (dove, peraltro, prevale il No) e nelle “regioni rosse” del Centro. Mentre l’opposizione cresce soprattutto fra i più giovani. Ma la discriminante delle scelte rispecchia soprattutto le preferenze politiche ed elettorali. Il sostegno alla riforma costituzionale, infatti, raggiunge il livello più elevato fra gli elettori del Pd e, in secondo luogo, della nebulosa centrista (Ncd e dintorni). Il fronte del No, simmetricamente, mobilita gli elettori della Destra Forza-leghista e del M5S. Non per caso lo spartiacque riproduce il giudizio sul governo. Fra chi ne ha fiducia, i favorevoli alla riforma raggiungono il 60% e i contrari si fermano al 13% (il resto è avvolto dalla nebbia dell’incertezza). Mentre fra chi esprime sfiducia verso il governo il peso del No è perfino più ampio: 62%.
Difficile, dunque, pensare che l’esito del referendum non produca conseguenze significative sulla posizione e sulla legittimazione di Renzi. E del suo governo. Non per caso oltre metà degli italiani pensa che, in caso di vittoria del No, il premier si dovrebbe dimettere. Non solo, ma la maggioranza degli elettori ritiene probabile che dopo il referendum il Pd si dividerà. È ciò che pensano, fra l’altro, oltre 4 elettori del Pd su 10. Più che di fratture reali si tratta, in effetti, di conflitti d’opinione. Prodotti e amplificati dalle polemiche accese che attraversano il partito, al suo interno. Dove alcuni autorevoli leader, come Bersani e D’Alema, si sono espressi – e operano - apertamente per il No. Così, si riproduce, con maggiore evidenza, l’immagine di due Pd - sempre più distanti e distinti fra loro. Da un lato il “Pd delle origini”, che riassume tradizioni e organizzazione dei partiti di massa. Dall’altro il Pd-di-Renzi, un partito “personalizzato” e sempre più “personale”. Tuttavia, la “marcia del referendum” pare stia producendo – e abbia prodotto – un esito diverso delle previsioni. Più che accentuare le divisioni interne fra gli elettori, ha, invece, compattato il Pd intorno alle posizioni e alla persona del leader-premier. Circa 3 elettori del Pd su 4 affermano che voteranno Sì alla riforma costituzionale. E 9 su 10 manifestano fiducia nel governo (guidato da Renzi). Intanto, la stima personale nei confronti di Renzi appare stabile, mentre la considera- zione verso gli oppositori interni – del premier e della riforma – cala sensibilmente. Bersani, nell’ultimo mese, perde 3 punti. D’Alema 6. E finisce sotto il 20%. Le divisioni e i conflitti nel Pd, dunque, sembrano coinvolgere e dividere i gruppi dirigenti e i militanti, più che la base elettorale.
La campagna del referendum, invece, pare aver contribuito a rafforzare l’identità “personale” del Pd. A sovrapporre il PdR al Pd. Fino quasi a farli coincidere. Ha, inoltre, radicalizzato il confronto. Fra il No e Renzi. Senza alternative.
Così, è facile prevedere che l’esito del voto, il prossimo 4 dicembre, avrà un impatto rilevante sulla politica italiana. Sul destino del governo e del premier. Sul futuro del Pd e del PdR. Dopo, di certo, nulla – o quasi – sarà come prima.

La Stampa 30.10.16
Renzi in piazza attacca
“Il partito della Nazione è il fronte del No”
Il premier, sotto nei sondaggi, cambia e attacca la vecchia guardia
di Fabio Martini

Da mezzora, nella grande e scenografica piazza del Popolo, migliaia di militanti del Pd - arrivati da tutta Italia con i mezzi messi a disposizione dal partito - stanno applaudendo puntualmente tutti i passaggi più efficaci del discorso di Matteo Renzi, che lassù sul palco, scandisce a squarciagola battute e slogan, ma senza mai riuscire a far scattare l’ovazione, uno di quei momenti nei quali il capo di solito tocca il punto sensibile della sua gente. Ad un certo punto Renzi, in maniche di camicia, dice: «Perché quelli della vecchia guardia dicono No? Ripetono: “se la scrivevamo noi sarebbe stata meglio...” Può darsi. Il punto è che non l’hanno scritta: l’hanno discussa, contestata, chiacchierata, digerita e poi si sono dimenticati di scriverla. Il fatto che voi avete fallito, non vuol dire che dovete far fallire noi!».
A questo punto dalla platea si è alzato un lungo applauso, è scattato anche un coro: «Mat-teo, Mat-teo, Mat-teo!». Sembra strano ma non capita quasi mai che Matteo Renzi sia chiamato per nome e in coro ritmato dalla sua gente, che lo ammira ma gli tributa applausi ripetuti ma sempre brevi, quasi a segnalare un coinvolgimento emotivo effimero. E invece quello slogan sulla vecchia guardia ha fatto breccia tra il popolo del Pd giunto a Roma per la manifestazione nazionale a sostegno del Sì al referendum ed è esattamente la stessa reazione che Renzi sta raccogliendo nei comizi nell’Italia profonda. Qualche minuto prima lo stesso concetto, il presidente del Consiglio lo aveva espresso con una battuta, un po’ più in «politichese»: «Il vero Partito della Nazione è quello del No, che va da Monti a Salvini, da Brunetta a Travaglio, da Gasparri a Tremonti, da Berlusconi a D’Alema. Può dire solo di no, questo è il partito che vuole bloccare l’Italia».
Nel comizio tenuto nella romana piazza del Popolo, Matteo Renzi ha decisamente imboccato la strada che, spera il premier, potrebbe portarlo ad invertire la tendenza che nei sondaggi attualmente premia il No. Puntare sul merito della riforma ha già capito che non funziona più di tanto. Puntare sul proprio carisma meno che mai. E dunque il messaggio, esplicito e subliminale, sul quale Renzi punta è questo: cari italiani, io sarò pure antipatico a molti di voi, ma attenti, perché la vecchia guardia è peggio di me. Certo, Renzi non si esprimerà mai in questi termini ma qualche giorno fa, parlando in un teatrino di Palermo, si è rivolto ai militanti palermitani, dicendo testualmente: «Agli anti-renziani va detto: guardate, se vi sta antipatico quello e non lo sopportate, bene..., ma state attenti perché se votate No, l’occasione per cambiare non vi ricapita più». Renzi sa che le battaglie più incerte si vincono, azzeccando, tirando fuori e capitalizzando un umore profondo nell’opinione pubblica. E il presidente del Consiglio pensa di averlo trovato, «criminalizzando» quelli che «con il No al referendum costituzionale rischiano di mettere indietro le lancette di una generazione».
Organizzata con grande dispendio di energie finanziarie, la manifestazione per il Sì ha consentito di portare in piazza del Popolo (capienza di 60 mila persone) il numero di persone «giuste» per il colpo d’occhio da telegiornali e poco importa che un quarto della piazza fosse vuota, mentre sul palco si sono alternati musiche e gruppi funzionali ad una immagine di sinistra, utile per provare a lanciare «messaggi» agli elettori incerti. Nel suo comizio Renzi ha trascurato il merito del referendum e ha lanciato un avvertimento ai partner europei: «Noi diciamo che siccome nel 2017 casualmente a Roma si riuniranno i capi di governo e in Ue arriva a scadenza il tema del fiscal compact, noi non accetteremo di inserirlo nei trattati Ue».

il manifesto 30.10.16
Renzi non unisce. E divide
di Norma Rangeri

A poco piu di un mese dal 4 dicembre, Matteo Renzi approda a piazza del Popolo per il giro di boa che segna l’ultimo miglio della campagna elettorale piu lunga della storia. Il governo forte e il paese unito invocati dal palco per battere «l’egoismo europeo», il presidente-segretario spera di conquistarli con la vittoria del Sì al referendum contro la Costituzione. Ma se vincerà la sfida referendaria riuscirà a rafforzare il governo, mentre sarà più difficile unire un’Italia che da sei mesi vive, grazie a lui, una divisione profonda tra rottamatori e difensori della Carta costituzionale.
Il comizio elettorale tocca fatalmente tutti i tasti della propaganda del nuovo che vuole seppellire il vecchio, del futuro che per realizzarsi ha bisogno di togliere di mezzo il principale ostacolo individuato – dalle schiere renziane – nella democrazia parlamentare per come l’abbiamo conosciuta e vissuta, da sostituire con una democrazia d’investitura, con un indebolimento della rappresentanza ed un rafforzamento del potere esecutivo. E la propaganda dice che chi sposa la bandiera del Si desidera un paese migliore mentre chi si batte per il No «vuole solo riprendersi il posto che gli è stato tolto».
Però è uno strano modo di unire il paese se si toglie all’avversario – e ai milioni di cittadini che voteranno No – dignità politica, se si svilisce il dissenso interno, se si ridicolizza la critica che arriva dalla società, se si accusano gli avversari di pensare solo alla poltrona falsificando così l’identikit di chi non vuole sottoscrivere la sua idea-marketing del cambiamento.
Questo grillismo in salsa renziana aveva premiato il presidente-segretario, lanciandolo alla guida del partito e, successivamente, al comando del governo, grazie anche alla sbornia di quel 40 per cento di voto europeo che poi lo aveva spinto a cucirsi su misura una legge elettorale a colpi di voti di fiducia.
Ma oggi l’arma della rottamazione mostra un po’ la corda, rivelando un partito che perde voti e iscritti, che cede l’amministrazione di importanti città e che il 4 dicembre andrà oltretutto diviso alle urne. Un partito che, come ha ricordato il vecchio Ciriaco De Mita, nel faccia a faccia televisivo di venerdì sera su La7, al giovane leader dal piglio fanfaniano, sembra quasi ridotto a cassa di risonanza del segretario, dell’uomo solo al comando.
Un presidente-segretario che si perde per strada buona parte del Pd (qualunque cosa significhi la presenza in piazza di Cuperlo, immortalato dal selfie con la ministra Boschi), che provoca l’opposizione di mondi larghi come quello della scuola e del lavoro, è un politico che corre verso una meta precisa: quel partito della nazione che nel fuoco della battaglia referendaria dovrebbe perdere l’antica pelle della sinistra, per assumere un nuova identità che guarda sempre di più alla sua destra. Ma se questa è la scommessa, a rimetterci la pelle potrebbe essere non uno schieramento, non un partito, bensì la nostra Costituzione. Per questo «Bella ciao», usata per scaldare la piazza romana in attesa del comizio, più che come un omaggio sembrava scandire le note e le parole di un addio.

Corriere 30.10.16
A sorpresa c’è Cuperlo. Il gelo dei bersaniani
di Alessandro Trocino

La base lo ringrazia. Lui : «Non potevo restare a casa». Speranza: rispetto per chi non c’era
ROMA «Compagno Cuperlo, non deve essere una notizia che sei qui. Te lo dico con il cuore in mano, compagno!». L’anziano Angelo Vischetti, fazzoletto tricolore dell’Anpi sul collo, stringe in una morsa le mani di Gianni Cuperlo e poi scoppia a piangere. Eppure, che il «compagno» Cuperlo sia in piazza, in questa tarda ottobrata romana, è una notizia eccome. Non solo: l’esponente della sinistra pd è accolto trionfalmente dalla renzianissima folla. È come un figliol prodigo che torna: ma più che un pellegrinaggio il suo è una sorta di giro d’onore, tra selfie e strette di mano.
Di selfie Cuperlo ne fa uno che colpisce: con il ministro Maria Elena Boschi, dietro le quinte. Seguono abbracci con Roberta Pinotti e Lorenzo Guerini. Affettuosità reciproche non scontate in un partito diviso come non mai, con una distanza sul referendum che fa ipotizzare un rischio rottura con diaspora. Per scongiurarla, Cuperlo ha accettato di mettersi alla guida del comitato che dovrà provare a riformare la legge elettorale. Mercoledì sera ci sarà la riunione decisiva. Ma il clima è pessimo. Molti della sinistra danno per scontato il No. Cuperlo è il più dialogante, secondo alcuni in odore di ambiguità e collusione con il «nemico».
Venerdì sera era andato a letto pensando di disertare la piazza. Aveva rassicurato più volte sulla sua assenza Roberto Speranza, che raccontano furioso. E poi? «Mi sono svegliato e ho deciso di venire, sapendo di attirarmi le critiche degli assenti. Ma non me la sentivo di stare a casa».
Qualche timore c’era: «Mi aspettavo contestazioni». Invece solo complimenti: «Molti mi hanno detto di aver votato per me: chiederò il riconteggio al congresso». Scherza e incassa lodi e incoraggiamenti: «Grazie di essere venuto», «Bello vederti»; «Dai una sveglia a quei cretini»; «Ti do l’hashtag : uniti si vince»; «Dillo a Bersani». Un’insegnante fa una filippica contro D’Alema. Lui sorride: «Prendo atto». Un militante si rifiuta di stringergli la mano: «Solo se voti Sì». Ma è l’unico. Cuperlo saluta Claudio Velardi, il sindaco di Cava dei Tirreni e quello di Lampedusa, Giusi Nicolini: «Visto che non mi avete portato da Obama, vengo qui». Poi si allontana con il parlamentare Andrea De Maria, cuperliano ma schieratissimo con il Sì.
Il paradosso è esplicito: Cuperlo idolo della folla nella piazza più renziana d’Italia, per l’occasione riverniciata con tocchi di sinistra, dalla compagnia di musica popolare al cantante di colore che vuole «scacciare gli spiriti maligni». Ci prova anche Cuperlo, a scacciarli, ma «il sentiero è stretto»: «Bersani è cauto, capisco. Ma in caso di novità ha detto che ripenserebbe alla sua posizione». Quello che serve è «un atto del segretario». A sinistra storcono il naso, temono l’ennesima conversione al renzismo. Speranza dice: «Una parte significativa degli elettori del centrosinistra e del Pd non era in piazza perché pensa di votare No. Va rispettata o il rischio è che non si sentirà più a casa nel Pd». Dopo «Bella Ciao» parte «’O Sole mio» e parla Renzi. Cuperlo ascolta.

Repubblica 30.10.16Il leader della minoranza dem “Matteo al bivio, dipende da lui se cambierò idea”
Sotto il palco spunta Cuperlo “Non tradisco ma serve rispetto. Qui tanti hanno votato Bersani”
“Io come Moretti che si tormenta se andare? Ho scelto così per evitare una piazza anti-sinistra”
intervista di Giovanna Casadio

ROMA. «Una scelta d’affetto, soprattutto. Ma non ho cambiato opinione su quello che ho sempre detto: se non ci sono novità concrete sull’Italicum, voterò No al referendum». Gianni Cuperlo lascia piazza del Popolo dove è stato accolto da applausi, evviva, bravo. «Cuperlo sei un grande uomo», lo ferma un militante del Sì. «No, ma non fa niente», risponde lui, triestino colto dall’ironia pronta, sfidante di Renzi all’ultimo congresso e ora leader della minoranza dem. E il doppio giro che fa della piazza renziana è una sorpresa per Gianni e forse una catarsi per i militanti con gli striscioni di “BastaunSì” . Esorcizzato, almeno per qualche ora, lo spettro della scissione che si aggira nel Pd: «Ho evitato che si trasformasse in una piazza contro la sinistra dem». Confessa Cuperlo, diventato d’improvviso un eroe per la piazza del Sì? E un traditore per il Pd del No?
«Lasciamo eroi e traditori alla letteratura. C’è stato rispetto. Sono andato perché in quella piazza c’era anche un pezzo della sinistra, del popolo del Pd. Ma so che esiste un’altra parte della sinistra e del Pd che in quella piazza non è andata perché non la sentiva come sua. Se non torniamo a unire quei due popoli oltre il Sì e il No la sinistra non è più forte ma più divisa e fragile».
Sui social lo criticano, gli chiedono se non si comporti alla Nanni Moretti del “mi si nota di più se ci sono o se non ci sono”. Cuperlo replica: «In questi anni le critiche non mi sono mancate. Ero lì in piazza con le mie idee e convinzioni, con lo spirito di chi pensa che servono ponti e non steccati». Dicono che le conversazioni con Lorenzo Guerini, il vice segretario dem, e gli incontri nella commissione per modificare l’Italicum tentando di fare rientrare i Dem del No, abbiamo avuto un peso determinante nella sua scelta della piazza. Ettore Rosato, il capogruppo del Pd a Montecitorio, anche lui triestino e anche lui uno dei saggi in commissione, lo abbraccia vedendolo: «Ero certo che saresti venuto». Gianni mormora: «Faticoso». Bersani e i bersaniani, che hanno disertato la piazza del Sì, sempre più orientati per il No al referendum, sono irritati. Roberto Speranza, altro leader della sinistra dem, ha ricevuto ieri all’ora di pranzo la telefonata con cui Cuperlo gli comunicava la sua scelta. Gelo.
E quindi Cuperlo, non teme l’irritazione dei compagni di minoranza? «Spero che non sia così. Molti in piazza mi hanno detto di avere votato per Bersani. Tanti altri per me all’ultimo congresso, io ho scherzato: “Allora ci sono stati brogli, perché ho perso”. Non c’è dubbio che dobbiamo aver grande attenzione verso chi non c’era e sono stati tra i primi ad avere chiesto cittadinanza dentro il Pd per quanti sceglieranno o hanno già scelto di votare No. Sulla Costituzione ciascuno risponde in primo luogo alla sua coscienza».
Si sfoga, Cuperlo: «La mia angoscia maggiore è per il giorno dopo e per la possibilità di ricostruire un centrosinistra di governo. La nostra gente ce lo chiede. Renzi ha molto potere. Ha fatto cose positive e compiuto errori. Adesso è a un bivio. Penso che la denigrazione di chi è venuto prima non accresca la sua autorevolezza. Far intendere che il mondo inizia ogni mattina daccapo è un gioco che può far male a chi lo fa. Come rimuovere che è anche grazie ad altri, a cominciare da Bersani, se oggi lui può sedere a Palazzo Chigi».
Ma insomma la presenza in piazza è stata vista come un avvicinamento verso il Sì di Cuperlo? «Assolutamente non voterò Sì se non c’è un atto politico concreto di Renzi sulla legge elettorale. Ho sempre fatto le battaglie in cui ho creduto. Mi sono dimesso da presidente del partito, non cerco e non chiedo nulla per me. Le richieste che ho fatto a nome della sinistra restano intatte». Spiega che alla commissione Guerini crede. Ma: «Renzi ha detto in piazza che la legge elettorale cambierà. Non bastano le parole. Ho chiesto al segretario di depositare la nuova proposta del Pd in Parlamento. Per me vuol dire: eleggere direttamente i senatori e una legge per la Camera con collegi e un premio di maggioranza ma in un regime parlamentare. Se questa scelta ci sarà la saluterò con gioia, se no sarò coerente e ne trarrò le conseguenze».

Repubblica 30.10.16
Istantanea di una piazza a metà “Gli assenti? Un favore a Grillo”
Meno presenze del previsto, i militanti: “e l’unità?”. Fischi a D’Alema
Dirigenti e ministri restano in disparte Malumori sui costi per organizzare la kermesse
Carlo, ex consigliere Dc: “Quelli dei Ds non la smettono mai di litigare”
Noi e loro. I buoni e “quelli di prima”. Un partito, due partiti, in un sabato di ottobre con le urne che si avvicinano.
di Alessandra Longo

ROMA. Fatta. E’ andata. Al calar della luce il Pd di piazza del Popolo riavvolge le bandiere. I 18 bus della Calabria aspettano con il motore acceso, i 4000 toscani festanti per il Sì segnalati nella capitale corrono al treno o al parcheggio, i mille della Sicilia si racconteranno la giornata nelle lunghe ore del rientro. Quanti in tutto? Non certo 50 mila come nelle previsioni, o forse nei desideri degli organizzatori, ma nemmeno un drappello di «impalpabili» come li vorrebbe, perfido, Renato Brunetta.
Il partito c’era. Una quota parte, però, quella che si affida a Renzi ritenendolo un buon traghettatore verso lidi più sicuri. Ed è il gioco delle assenze/presenze che rende diverso questo sabato romano dal clima dolcissimo, per certi versi sospeso, tra i fischi a Massimo D’Alema, evocato dal palco, ai baci e agli abbracci al «compagno» Gianni, «grazie di essere venuto». Sottofondo musicale altrettanto fluido da «Bella Ciao», intonata dalle donne di Terni, a «Sole mio» scelta per l’ingresso trionfale del segretario.
Clima volutamente popolare, con signori nessuno sul palco (a parte Renzi, Sala e Giusi Nicolini), e i ministri, l’establishment in «borghese» dentro la piazza. Andrea Orlando in giro con il padre, Matteo Orfini, in giubbino caki, che convoglia con un tweet i manifestanti più accaldati verso una gelateria di sua fiducia. Piero Fassino che non parla con nessuno e scatta foto come un turista. Magliette a 8 euro, palloncini, spillette: il solito armamentario. Un Sì organizzato, anche, pare, con ragguardevoli costi per il partito (c’è chi non crede alla cifra di 150 mila euro), ma la comunità non si è militarizzata, mantiene il sorriso e la leggerezza della gita fuori porta e invoca, nonostante i pessimi segnali, la solita parola proibita: unità. Uniti, uniti, stiamo uniti, «sennò regaliamo il Paese a Grillo». Come sembrano saggi certi ragazzi. Gaetano e Roberta arrivano dalla Sicilia, tutti e due con incarichi nel partito: «Noi non votiamo per Renzi, noi votiamo per le riforme». Freschezza dell’età: «Basterebbe che ognuno facesse un passo indietro». Mica facile. Le posizioni si sono incancrenite. «Tra noi e loro - dice Carlo - c’è una differenza enorme. Noi al partito ci crediamo e alle manifestazioni ci andiamo comunque. Saremmo venuti anche se ci fosse stato Bersani».
Noi, loro. Due pezzi, due anime, appunto. Carlo viene dalla Dc, ha fatto per 20 anni il consigliere comunale a Rufina, paesino toscano. Per lui la colpa è dello zoccolo duro diessino, «sempre pronti a litigare, ad ostacolarsi l’un l’altro. Non che la Dc non avesse le correnti, figurarsi, ma poi c’era la sintesi, una linea cui attenersi». Sono loro a parlare in piazza perché loro hanno deciso di esserci, rappresentano un punto di vista, non l’unico. Manca il contradditorio, manca, appunto, un pezzo di mondo, il pezzo del «no». «Ci spiace se non sono venuti, peggio per loro, per Bersani, per Speranza. Cuperlo ha fatto bene a farsi vedere, nessuno qui pensa di buttarlo fuori». Bontà loro, si può ancora ricucire. Angelo viene da Ascoli, a 16 anni già militava nella Margherita. Renzi? «E’ la strada alternativa». E se vincessero i No? La vecchietta di Milano esibisce il suo cartello alle telecamere: «Qualunque sarà il risultato non ti devi dimettere». Nei 17 mila metri quadrati di piazza gli estimatori del segretario si muovono soddisfatti. Max e Antonio sono una coppia da 10 anni, a breve si sposeranno. Il primo è pianista, il secondo è impiegato di un ministero. «Dopo 30 anni di lacrime, chi ha fatto le Unioni Civili? Questo governo!». E allora capisci che il «Sì», per loro, contiene tutto. «D’Alema è diventato insopportabile e cattivo», dice Nicola, 82 anni, prima tessera Pci nel 1950.

Repubblica 30.10.16
I due paradossi nella piazza Pd
La posta in gioco era il controllo del partito e il destino della legge elettorale
di Claudio Tito

C’È UN doppio paradosso nella manifestazione organizzata ieri dal Pd. Una iniziativa che non può essere giudicata semplicemente sul successo numerico. In quella piazza il vero confronto non riguardava la capacità di raccogliere militanti e elettori per sostenere il Sì. La posta in gioco era tutt’altra. Anzi, erano altre due. La natura di quel partito e con essa la capacità della sua leadership di persuadere una parte della minoranza interna a considerare quella piazza una “casa comune”. E soprattutto il destino della legge elettorale, ossia dell’Italicum. Ecco, i due paradossi sono questi. Il confronto non riguarda più la riforma costituzionale. Non si discute sul bicameralismo o sul Titolo V della Carta. Si consumano semmai in anticipo le due sfide finali: la riforma del sistema di voto e il controllo del partito.
Intorno a quel palco si è dunque ballato una sorta di lezioso minuetto nel quale le reali ragioni del contendere sono state da tutti sottaciute. La sinistra dem ha disertato la manifestazione perché semplicemente ha deciso da tempo di regolare i conti con Matteo Renzi al referendum di dicembre e perché ha stabilito che nessun accordo deve essere trovato sulla riforma elettorale. E questo ha poco a che fare con la effettiva possibilità di trovare un accordo. Si fa finta di essere disponibili a trattare per non assumersi la responsabilità di una rottura evidente. Il No è quindi semplicemente strumentale al regolamento dei conti. La riconquista della “ditta” passa per le urne referendarie e per il sostanziale ritorno ad un modello proporzionale di legge elettorale.
Ma anche il segretario del Pd e i suoi sostenitori si sono presentati davanti ai militanti velando la vera posta in gioco. Si parla di riforme ma si pensa all’Italicum, si spiegano le ragioni del Sì ma si disegnano le possibili conseguenze del voto di dicembre. Perché è ormai evidente che le sorti del governo e di Renzi saranno determinate dal referendum. E sebbene abbiano abbandonato la strada della personalizzazione, anche a Palazzo Chigi sanno che una sconfitta adesso significa riconsegnare la leadership del Paese e non solo del centrosinistra. Azzerare il contatore per poi, in caso, ricominciare daccapo con il congresso che si terrà inevitabilmente il prossimo anno. Così come una vittoria del Sì offrirebbe la possibilità al premier di “spianare” gli avversari. Questo è l’ultimo sintomo di una antica malattia: quella che porta la sinistra a spaccarsi sempre e a considerare un nemico chi dirige il partito in quel momento. Ma è anche il segno più recente della ferita che nel Pd non si rimargina: quella della mancata legittimazione reciproca.
Del resto che si tratti di un minuetto, lo si capisce proprio da quel che accade in quelle riunioni del partito democratico sulla riforma elettorale. Nessuno vuole un effettivo risultato. L’obiettivo dei bersanian/ dalemiani è semplicemente di far fallire tutto. Quello dei renziani anche. Con una piccola sfumatura. Il premier continua a credere che l’Italicum sia una buona legge. E prova a spaccare il fronte interno portandosi dalla sua parte l’ala critica della minoranza: quella guidata da Gianni Cuperlo. Che non a caso ieri si è presentato a piazza del Popolo. Renzi ha bisogno di dimostrare che ha fatto di tutto per tenere unito il suo partito e lo fa attraverso Cuperlo. Quest’ultimo ha bisogno di emanciparsi dalla tradizionale linea di comando composta da Bersani e D’Alema pensando ad una prospettiva autonoma nella prossima legislatura.
Il doppio paradosso è proprio questo: in una manifestazione convocata per le riforme costituzionali, le due poste in gioco erano altre. Il futuro del Pd e la legge elettorale. Senza contare che in questi giorni nessuno, dentro e fuori i confini del Pd, ha il coraggio di ammettere che fin quando la Corte Costituzionale non avrà emesso il suo verdetto sull’Italicum nessuna modifica a quella legge è davvero praticabile. Ma questo, infatti, non è certo il tempo della franchezza. Quello improvvisamente si materializzerà il 5 dicembre.

Repubblica 30.10.16
Dem e M5S si contendono il primato
Sinistra avanti di poco nel proporzionale, i cinquestelle vincerebbero al ballottaggio
di Roberto Biorcio Fabio Bordignon

SORPASSI e controsorpassi. In parte oscurato dalla corsa verso il 4 dicembre, prosegue il testa a testa tra Pd e M5S. Il partito di Renzi conserva un piccolo margine, in un ipotetico primo turno. Ma il M5S torna a scavalcarlo nel confronto diretto del ballottaggio.
Le intenzioni di voto rilevate, nell’ultima settimana, dall’Atlante politico Demos- La Repubblica appaiono in continuità con le tendenze emerse nell’ultimo anno. Sono sempre più chiari i segni di una progressiva bipolarizzazione dello scenario politico: da una parte il Pd renziano, dall’altra il movimento fondato da Beppe Grillo.
Il M5S, penalizzato, nei mesi scorsi, dai travagli della giunta Raggi a Roma, torna oggi a superare il 30%. Pare nuovamente in grado di contendere al Pd al ruolo di primo partito. Soprattutto, risulta favorito in tutti gli scenari di ballottaggio. Il ritorno di Grillo alla guida del movimento ha in parte appianato le divergenze interne, garantendo, al contempo, una costante visibilità a posizioni alternative al governo e al premier, a partire dalla proposta sul dimezzamento degli stipendi dei parlamentari.
Il Pd mantiene con lievi oscillazioni il primato negli orientamenti di voto. Mentre Renzi conserva un livello elevato di gradimento del suo governo (44%) e della sua leadership (45%). Un’impresa non facile, in una fase di diffusa sofferenza per gli effetti della crisi economica e sfiducia nei confronti delle politiche pubbliche. L’idea di chiudere Equitalia, cancellando sanzioni e interessi sulle cartelle arretrate, incontra largo favore tra gli intervistati (60%). Ma prevalgono i giudizi critici, rispetto a quelli positivi, sulle misure che riguardano le pensioni (45% a 40%) e sul complesso della manovra (41% a 39%). Le posizioni critiche di Renzi rispetto all’Unione Europea godono d’altra parte di una larga popolarità: la fiducia nelle istituzione comunitarie si è ormai ridotta ai livelli minimi tra i cittadini (25%). Si è inoltre ridimensionato il gradimento di alcuni leader della sinistra critici rispetto alle politiche di Renzi: Bersani, De Magistris e soprattutto D’Alema. Le polemiche sul referendum e sulle prospettive future hanno indubbiamente incrinato l’unità dell’ex-area ulivista.
In questo contesto, il ruolo e il rilievo delle opposizioni di centrodestra appaiono notevolmente ridotti. Tutti i loro leader - da Salvini a Meloni, da Parisi a Berlusconi - hanno registrato una contrazione della fiducia, rispetto al sondaggio di settembre. Restano stabili, nel complesso, le intenzioni di voto per i partiti dell’area. Ma gli equilibri interni, solo qualche mese fa favorevoli alla Lega, vedono ora crescere il peso di Forza Italia. Una lista unitaria tra i due partiti, insieme a Fratelli d’Italia, sarebbe però nettamente sconfitta, nel ballottaggio, sia con il Pd che con il M5S.

La Stampa 30.10.16
Intervista a Miguel Gotor
«L’Ulivo nato per unire. Ormai siamo divisi su tutto»

Senatore Miguel Gotor, perché ieri non era in piazza?
«Non condivido la piattaforma della manifestazione, il sì al referendum: mi è sembrato più serio non partecipare».
Voi della minoranza non avete paura di spaccare il partito?
«Nel ’96 lo slogan dell’Ulivo era “Uniti per unire”; oggi è “Divisi per dividere”. C’è una responsabilità nel fare questo, e non è della minoranza».
Di chi è?
«Del segretario Renzi, che ha fatto due errori strategici».
Quali?
«Primo: scegliere la Costituzione come terreno di scontro e lacerazione nel centrosinistra e nel Paese».
E il secondo?
«Fermo restando il diritto di dire che il Pd è per il sì, ha sbagliato a rendere quella posizione esclusiva. I nostri elettori per il no devono sentirsi a casa loro, mentre sono stati sbeffeggiati con frasi tipo “chi vota no è come Casapound”».
Il fronte del no, dice Renzi, è il vero partito della Nazione…
«E’ ovvio che in un referendum ci si polarizza sul sì o sul no, ci vorrebbe più rispetto. Tra un anno, agli elettori di centrosinistra che votano no, chiederemo il voto: Renzi dovrebbe avere una sensibilità politica un po’ più all’altezza delle sue responsabilità».

Il Sole 30.10.16
Sulla legge elettorale schieramenti distanti
Cantiere Italicum. Renzi non cede sul ballottaggio «anti-inciucio», Berlusconi chiede il proporzionale e l’accordo «tra i due poli»
di Emilia Patta

«L’unica direzione possibile di riforma elettorale è il ritorno al proporzionale con una seria soglia di sbarramento. Se nessuno dovesse davvero prevalere sarà necessario un accordo tra i due poli, come è avvenuto in Germania in Spagna e in Austria». Eccolo, il “progetto” di Silvio Berlusconi, affidato come ai tempi d’oro a Bruno Vespa per l’uscita del suo ultimo libro dal titolo “C’eravamo tanto amati”. Attendere che vinca il No, senza per altro fare una grande campagna elettorale, per poi riproporre la grande coalizione con il Pd in funzione anti-Grillo. Comprensibilmente l’ex premier, sapendo che il centrodestra al momento non è competitivo al punto da sperare in una vittoria al ballottaggio previsto dall’Italicum, cambia schema di gioco. Riproponendo per altro, lui che ha sempre odiato collegi uninominali e preferenze, il sistema delle liste bloccate. Ed è uno schema di gioco che non dispiace al Movimento 5 stelle di Beppe Grillo. Che non a caso propone un modello simile, il cosiddetto Toninellum dal nome del primo firmatario Danilo Toninelli, ossia un proporzionale temperato in senso maggioritario dall’introduzione di piccoli collegi sul modello spagnolo con l’effetto di una soglia di sbarramento implicita dal 5 all’8 per cento: proprio nel terreno politico dell’”inciucio” perenne tra centrodestra e centrosinistra si nutre il voto “anticasta” e di protesta dei Cinque stelle.
È esattamente per evitare lo schema che porta dritto alla grande coalizione che Matteo Renzi, pur ribadendo la sua disponibilità a modificare in alcuni punti l’Italicum, è fortemente restio a rinunciare al ballottaggio. Unica garanzia in un sistema tripolale, a suo modo di vedere, per avere un vincitore certo. E dunque a legarsi le mani ora a una proposta di legge specifica, prima di conoscere il risultato del referendum e le eventuali obiezioni della Consulta sull’Italicum. Per questo la commissione del Pd messa su dallo stesso Renzi per tentare di trovare una quadra innanzitutto nel Pd, commissione alla quale partecipa Gianni Cuperlo a nome di tutta la sinistra, ha nei prossimi giorni un compito difficilissimo.
Il premier in verità ha già dato per perso il suo predecessore a Largo del Nazareno Pier Luigi Bersani e tutti i parlamentari che a lui fanno riferimento, che sembrano aver imboccato la via senza ritorno del No. Tanto meglio se Cuperlo, coccolatissimo dai dirigenti del Pd e dalla piazza dei militanti, alla fine voterà Sì. Ma le concessioni non possono andare oltre: sì a collegi sullo stile del Provincellum per la scelta degli eletti (si tratta di collegi uninominali con ripartizione proporzionale) e sì, per la gioia dei centristi di Alfano, alla possibilità di apparentamento tra liste tra primo e secondo turno. Ma da qui a cancellare la garanzia anti-inciucio costituita dal ballottaggio ce ne passa. E di fronte al comprensibile rifiuto delle altre forze politiche, a cominciare dal M5S e da Fi, di affrontare prima del referendum la questione legge elettorale non ha molto senso tradurre in atti parlamentari l’eventuale intesa che si dovesse trovare nel Pd. Cuperlo da parte sua chiede un vero testo depositato in Commissione Affari costituzionali. «Poi è evidente che il tema si affronta dopo il referendum, ma serve che il Pd prenda una posizione netta», spiega. Quanto ai contenuti della nuova legge elettorale, per Cuperlo «il ballottaggio così com’è confligge con la richiesta di molti compreso Matteo Orfini per un premio fisso e tale da incentivare la governabilità ma senza uscire dal perimetro di un regime parlamentare».
La prossima settimana, prima della Leopolda che segnerà il vero inizio della campagna in favore del Sì del Pd e del governo, la commissione dem chiuderà in un senso o nell’altro i suoi lavori. Ma è chiaro che la scelta della sinistra è tutta politica: stare dentro il Pd o prendere una strada che, anche al di là delle intenzioni, porta fuori. E ieri Cuperlo, con la sua presenza in piazza, ha dato il segnale di volere restare dentro.

Il Sole 30.10.16
Ma per allargare il consenso resta decisivo il tavolo dell’Italicum
di Paolo Pombeni

Complice un clima che rimane sempre avvelenato, sembra che dall’ambiguità della situazione si faccia fatica ad uscire. Tentiamo di leggere la “giornata particolare” che ha impegnato ieri il Pd a Roma. Nello sforzo di mostrare che il popolo della sinistra c’è e il segretario può mobilitarlo come hanno fatto altri prima di lui, va individuato un primo aspetto da non sottovalutare. L’ha riconosciuto anche Cuperlo quando ha detto che non poteva mancare all’appuntamento per rispetto alla gente del suo partito.
A questo popolo Renzi ha dichiarato di non volere ammannire populismi, ma onestà vuole che si riconosca che non è riuscito ad evitare di cadere nel vortice della polemica. Comprensibile visto che lo si attacca su tutti i fronti, ma anche rischioso, perché sembra sottoscrivere la tesi che per vincere in politica un appello agli animal spirits della gente è sempre una carta vincente.
Non che il linguaggio molto a punta non abbia toccato nodi reali: quando rinfaccia alla vecchia classe dirigente di non consentire a quella nuova di provare a scogliere quei nodi che essa non è stata capace di sgarbugliare, può risultare urtante per gli attacchi alle persone, ma fa una constatazione che la gente condivide quasi d’istinto.
Il taglio dato alla “giornata particolare” del Pd non è stato solo quello di un’operazione a sostegno del sì al referendum, perché il segretario-premier ha voluto fare un discorso ad ampio raggio. Se lo si comprende nella sua impostazione, il che magari nello strabordare delle polemiche non viene facile, lancia un messaggio forte: si cambia l’organizzazione dei sistemi di decisione politica perché c’è un contesto complicato, economico, internazionale e sociale, per cui la deriva consociativa su cui aveva da tempo deviato il sistema attuale non funziona più. Non si tratta solo di accelerare astrattamente le decisioni, che a volte possono anche richiedere qualche tempo di riflessione, si tratta di mettere fuori gioco l’intrico dei poteri di veto che consente di prendere decisioni solo se si possono accontentare quasi tutti, anche quelli che pretendono cose che indeboliscono se non vanificano le misure che si vorrebbero prendere.
Far comprendere questo messaggio è tutt’altro che facile, ma in definitiva è su questo fronte che si sta giocando la stessa partita della revisione della legge elettorale. Su questo terreno sembra sia stato fatto un passo importante da parte della leadership renziana: aver compreso che il messaggio sul “combinato disposto” fra riforma costituzionale e Italicum sta facendo molta presa fra la gente. Si può anche discutere quanto quella percezione colga una realtà sul piano tecnico, ma rimane che i tabù in politica giocano un ruolo anche quando sono costruiti su dei castelli di aria.
È perciò positivo che si sia capito che, proprio per dare credibilità al messaggio che individua come decisiva la sfida attuale sulla riforma, diventa necessario puntare ad allargare il campo del consenso non solo in direzione per così dire generica, ma anche verso quegli ambienti dirigenti del Pd che non condividono la svolta renziana. Offrire a loro, ma non solo a loro, la prova che non si vuole mettere in piedi un risiko pur con l’obiettivo di avere un governo stabile, ma che si punta ad individuare un meccanismo che raggiunga quell’obiettivo in un quadro senza troppi azzardi, è una buona scelta.
Bisogna però arrivare a concretizzare la proposta in un qualcosa che sia non solo comprensibile nei suoi fini, ma impegnativo fin quasi ad essere vincolante per chi lo propone. Dalla “giornata particolare” questo non è ancora emerso, benché si lasci capire che si sarebbe sulla buona strada. Esaurita con un certo successo la fase dell’esibizione, ci si aspetta però che si passi in fretta a mettere sul tavolo il documento che certifica l’avvio della nuova fase.

Il Sole 30.10.16
Intervista a Edward Bonham Carter vicepresidente Jupiter
«Ecco perché il referendum preoccupa gli investitori»
intervista di My.L.

«Ormai la politica produce effetti limitati, e momentanei, sui mercati finanziari. Ci sono però delle eccezioni, in cui eventi politici possono avere impatti significativi: per esempio il referendum su Brexit e quello sulla Costituzione italiana». Edward Bonham Carter, vicepresidente della società di gestione di fondi britannica Jupiter, con 44,5 miliardi di attivi in gestione, porta il pensiero di molti investitori esteri: il referendum che si terrà in Italia il 4 dicembre è una fonte profonda di preoccupazione per cui investe in Borsa.
Intende dire che il referendum italiano sia paragonabile in pericolosità per i mercati a quello su Brexit?
Non fino a quel punto, ma può comunque avere un impatto forte. La domanda che gli investitori si pongono, dall’estero, è: per cosa voteranno gli italiani? Per una riforma costituzionale? Per o contro il Governo Renzi? Oppure sul voto convergerà una più vasta protesta anti-sistemica, che potrebbe usare il referendum come grimaldello per qualcosa di più grande? Questa è la domanda. Per questo cresce l’ansia sui mercati: perché la protesta anti-sistema sta portando protezionismo in molte parti del mondo, dunque minore crescita economica. E grande incertezza. I mercati, per di più, nel breve termine tendono a reagire con eccessiva emotività: per cui un impatto credo che il referendum lo avrà.
Lei crede che in Europa stia emergendo un rischio politico nuovo, tale da colpire i mercati?
Io penso al contrario che gli eventi politici, tranne alcune eccezioni, siano sempre meno importanti sui mercati. Alcuni trend economici - come la demografia, la crescita e i quantitative easing - contano molto di più per chi investe. Ma la tornata elettorale americana ed europea, con l’apice nel voto in Germania nel 2017, resta un evento importante: la classe politica tradizionale sta infatti perdendo potere a favore di una nuova classe anti-sistema o populista. Questo crea incertezza.
Voi, da investitori inglesi, come vi comportate in questo contesto?
Dato che, come tutti, non conosciamo il futuro, ci siamo specializzati nell’analisi approfondita delle aziende. Questa è la nostra strategia: la scelta di aziende con buone prospettive.
Anche banche? Anche
italiane?
Siamo molto poco esposti sull’intero settore in Europa. A noi piacciono aziende con storie di crescita, mentre le banche hanno un problema di redditività.

La Stampa 30.10.16
Manovra, è corsa contro il tempo
In aula La legge di Bilancio è arrivata in ritardo alla Camera dei deputati
Quirinale: “La Camera inizi l’esame”
Il testo definitivo a Montecitorio, difficile l’approvazione entro il referendum Nella relazione 3,4 miliardi di tagli. Stop all’aumento delle accise sulla benzina

Con dieci giorni di ritardo la legge di bilancio per il 2017 è stata depositata a Montecitorio. La nota con cui il Quirinale ha vidimato il testo spiega molto del clima in cui la bozza del governo inizia l’iter parlamentare. «La firma del decreto fa in modo che le Camere possano essere subito investite della manovra». Da qualche giorno nei palazzi è scattato l’allarme rosso: siamo ormai a un mese dal 4 dicembre, il giorno in cui si voterà per il referendum costituzionale. A lungo il Quirinale ha premuto su Palazzo Chigi perché fosse scelta una data sufficientemente lontana per garantire l’approvazione definitiva da parte di almeno uno dei due rami del Parlamento: il timore è che un’eventuale vittoria del no inneschi reazioni negative sui mercati e per i titoli di Stato.
Ora calendario alla mano è difficile arrivare in tempo. E non solo per via del ritardo nella definizione del testo: prima della legge di bilancio c’è da approvare il decreto fiscale. Fonti della maggioranza danno per improbabile persino l’approvazione di quest’ultimo, a meno di non rivedere la prassi per cui nella settimana precedente un voto nazionale il Parlamento non lavora. Dice il presidente della commissione Bilancio Francesco Boccia: «Ce la possiamo fare ma ci vuole senso di responsabilità dell’opposizione. Se si mettono a fare ostruzionismo...». La tesi degli ottimisti è che la manovra potrebbe essere in aula il 24 novembre, ma come se la Commissione lavorerà questa settimana e parte della prossima al decreto? Raccontano i ben informati che il Quirinale, pur di fare in fretta, ha evitato la correzione di alcuni errori formali, rinviando la soluzione al Parlamento.
La relazione tecnica che accompagna la manovra offre qualche dettaglio in più su un testo complesso e in parte spacchettato nel decreto fiscale. Nel 2017 i ministeri dovranno rinunciare a quasi 738 milioni di euro e sono previsti tagli di spese già programmate per circa 2,6 miliardi: in tutto 3,4 miliardi. Per evitare le censure dell’Europa circa quattro miliardi di una tantum sono finite nel decreto, nella speranza di convincere la Commissione ad approvare una manovra che si finanzia in gran parte in deficit.
Per evitare lo scontro con il Parlamento, il governo ha cambiato la clausola di salvaguardia che prevedeva aumenti di accise sulla benzina nel caso in cui il gettito della nuova sanatoria sui capitali non raggiungesse gli 1,6 miliardi di euro. «Se arriva una norma così la bocciamo», aveva avvertito Boccia: la riforma della legge di bilancio vieta esplicitamente norme di quel tipo. Ora il testo definitivo scrive che i minori incassi verranno eventualmente coperti con tagli da decidere entro il 30 settembre 2017, previa delibera del Consiglio dei ministri entro il 31 agosto. Restano le clausole sull’Iva che il Tesoro considera compatibili con la nuova legge di bilancio, perché non direttamente correlate ad altre misure: dunque, a meno di non sterilizzarle come quest’anno, nel 2018 l’Iva al 10 per cento salirà al 13 e quella al 22 fino al 25. Secondo Boccia anche queste clausole sarebbero illegittime. La battaglia è aperta.
[a. ba.]

Corriere 30.10.16
La legge di Bilancio
Trattare i papà come genitori di serie b non conviene a nessuno
di Rita Querzé

Papà a termine. Per un anno, e poi si vedrà. Davvero funziona così? Assolutamente no, papà lo sei per sempre, e fin dal primo giorno. Gli uomini e le donne lo sanno. Non lo sa però la legge di Bilancio. Che per il 2017 riconferma solo per un anno i due giorni di paternità obbligatoria pagati al 100% alla nascita di un figlio. Tra meno di 12 mesi tutto tornerà in discussione.
L’incertezza non aiuta le famiglie. Molti papà non sanno dell’esistenza di questa opportunità. Così al posto del congedo utilizzano le ferie. La beffa è che lo scarso utilizzo del congedo di paternità è usato come alibi per non investire sulla misura. Non solo la proposta di legge sull’aumento a 15 dei giorni di paternità obbligatoria è rimasta finora sulla carta: persino la conferma per il 2017 del congedo a due giorni è stata in bilico fino all’ultimo.
Ma la più efficace dimostrazione di come il congedo obbligatorio dei papà sia un diritto ancora più formale che nella sostanza la si ha nel pubblico impiego. I dipendenti della pubblica amministrazione i due giorni di paternità non li hanno mai potuti sfruttare. Colpa di una circolare attuativa mancante. E pensare che il congedo di paternità obbligatorio è stato istituito nel 2012: quattro anni dovrebbero bastare per mettere a regime una norma.
Le cose non vanno meglio quando si considera il cosiddetto «congedo parentale»: per i papà fino a sette mesi di assenza pagati al 30%. Anche qui il trattamento è equo solo in apparenza. Il pagamento al 30% è garantito per 6 mesi di congedo per il nucleo familiare. Quando la madre torna al lavoro il papà spesso può sì assentarsi, ma pagato zero. Senza contare che in famiglia di solito sfrutta il congedo chi ha lo stipendio più basso. Quindi le mamme.
A conti fatti, continuare a considerare i papà genitori di serie B aiuta (poco) il bilancio dello Stato. E penalizza (tanto) gli uomini. E altrettanto le donne.

Corriere 30.10.16
La mossa dell’Italia sui migranti: sanzioni agli Stati che non accolgono
di Francesco Verderami

Emergenza migratoria e ricollocamenti, regole comunitarie violate a danno dell’Italia. Il ministro Angelino Alfano prefigura «un passo formale del governo verso la Commissione», perché Bruxelles imponga agli Stati Ue il rispetto degli accordi o li sanzioni. Intanto il governo apre il fronte dei conti per l’accoglienza: «Subito 50 milioni».

ROMA Le cifre sull’emergenza migratoria testimoniano la violazione delle regole comunitarie a danno dell’Italia. E i numeri sul ricollocamento dei richiedenti asilo smascherano l’ipocrita solidarismo dell’Unione verso Roma. Nei documenti redatti dal Viminale il ministro dell’Interno legge non solo «le ragioni della crisi dell’Europa» ma anche «la minaccia dell’interesse nazionale». Ecco cosa spinge Alfano a prefigurare — in assenza di novità sostanziali — «un passo formale del governo verso la Commissione», perché Bruxelles imponga agli Stati Ue il rispetto degli accordi presi. O li sanzioni in base ai poteri attribuitele dai Trattati.
Per l’Italia «non è accettabile» che continuino a restare disattese le «Decisioni» numero 1523 e 1601 con le quali i partner europei si erano impegnati ad accogliere «per quota» una parte di migranti approdati sul territorio nazionale. «Non è accettabile» che su 47.857 richiedenti asilo da trasferire in altri Paesi comunitari ne siano stati finora ricollocati solo 1.392. «Ancor più grave che negare la solidarietà è assicurare la solidarietà e poi negarla», commenta il titolare del Viminale scorrendo la black-list degli inadempienti.
Nell’atto d’accusa sono compresi tutti gli Stati dell’Unione, dato che nessuno ha tenuto fede alla «solenne promessa» fatta nella primavera del 2015, all’indomani dell’ennesima strage di innocenti nel Mediterraneo. Allora i leader europei si strinsero al fianco dell’Italia, «allora — ricorda il ministro dell’Interno — ci venne offerta la solidarietà in cambio di gesti di responsabilità. Dicevano: “Noi ci faremo carico di una parte dei migranti ma voi dovrete organizzare gli hotspot, prendere le impronte digitali, sigillare le frontiere...”. Quanto dovevamo fare, noi l’abbiamo fatto. Loro invece ci hanno voltato le spalle».
Di fronte a questi gesti, anche chi — come Alfano — sostiene di essere «cresciuto nell’ideale europeista», vede «messo a dura prova» il proprio credo: «Questa non è l’Europa che sognavamo». Non aleggiava certo lo spirito europeista di Adenauer o di Schumann all’ultimo vertice dove si è parlato di immigrazione, se è vero che l’ungherese Orbán prima ha attaccato violentemente Juncker, poi si è allontanato: «Devo andare in bagno». Malgrado questo clima il governo italiano «non smette di operare», nel salvataggio in mare come nella gestione a terra dei migranti. «Non è un video-game», cerca di far capire il ministro dell’Interno: «Quotidianamente impegniamo uomini e risorse, tra il dramma di chi arriva e le sofferenze dei nostri concittadini».
Il fatto che, per tutta risposta, non solo Roma sia rimasta sotto l’osservazione di occhiuti burocrati di Bruxelles, ma sia stata «persino messa all’indice per lo 0,1 del bilancio», ha provocato la reazione. Così il responsabile del Viminale ha chiesto ai suoi uffici uno studio in tempo reale sul ricollocamento. E siccome ad oggi i partner dell’Unione non hanno accolto «nemmeno il 3%» dei migranti stabiliti dalle quote, si è convinto che «è l’ora di porre un limite»: «Bisogna essere chiari con gli altri Paesi e con Bruxelles. Il problema non è lo sforamento di un decimale nei conti di uno Stato che deve ovviare a un’emergenza. Il problema è il clamoroso e collettivo inadempimento davanti a una emergenza, che lascia presagire l’inaffidabilità dell’Europa».
Di qui la decisione di mettere l’Unione dinnanzi alle proprie responsabilità: «L’Italia con il suo impegno sta salvando l’Europa, ma il governo deve e vuole difendere anche l’interesse nazionale». Perciò Alfano ritiene che l’esecutivo debba prepararsi a chiedere formalmente alla Commissione una «verifica sullo stato di attuazione delle Decisioni assunte a livello europeo per il ricollocamento dei richiedenti asilo». Tradotto dal linguaggio tecnico è una mossa che prepara la richiesta di apertura di una procedura d’infrazione per gli Stati inadempienti.
Secondo i Trattati, spetta alla Commissione vigilare sul rispetto delle regole. Nel caso la Commissione abbia notizia di una violazione, può procedere d’ufficio. Finora non s’è mossa, ma potrebbe essere «attivata» da un governo nazionale attraverso una «formale segnalazione». A quel punto spetterebbe a Bruxelles avviare la verifica e imporre agli Stati membri di ottemperare all’impegno, pena una successiva sanzione. Ovviamente la Commissione dovrebbe stabilire se c’è stata inadempienza, e sul ricollocamento dei migranti i documenti del Viminale non lasciano adito a dubbi.
«Purtroppo mancano gli strumenti giuridici», aggiunge con ironia mista ad amarezza Alfano: «Visto l’andazzo, noi dovremmo chiedere una procedura d’infrazione contro l’Europa. Dato che non si può fare, speriamo almeno che l’Europa si adoperi contro se stessa per mancata vigilanza». La prospettiva di avviare la procedura sulla disattesa applicazione delle Decisioni è un ulteriore (e diverso) strumento di pressione su Bruxelles e sui partner, rispetto all’ipotesi avanzata da Renzi di porre il veto sul bilancio europeo. Ma tanto il premier quanto il ministro dell’Interno si muovono con lo stesso intendimento: «Salvare l’Europa e difendere l’interesse nazionale».

Corriere 30.10.16
Se l’immigrazione fa aumentare il Pil
di Danilo Taino

Non saranno le statistiche a risolvere le dispute e gli scontri sull’immigrazione. Se così fosse, la questione sarebbe in gran parte risolta. Uno studio pubblicato dal Fondo monetario internazionale ha cercato di stabilire le conseguenze dell’immigrazione sul Pil pro capite nei Paesi più sviluppati, in sostanza sugli standard di vita. Il risultato più notevole è che, nel medio-lungo periodo, un aumento degli immigrati pari all’ 1% della popolazione adulta di un Paese accresce il Pil pro capite generale di almeno il 2% . Avviene, in parte, perché i migranti sono di solito più giovani della media dei cittadini delle Nazioni ricche e quindi fanno salire la quota di persone in età da lavoro; soprattutto, però, avviene perché migliora la produttività, in quanto spinge i nativi a occupare lavori più specializzati.
Una delle conclusioni interessanti dello studio dell’Fmi (che utilizza un approccio sviluppato in anni recenti da Alberto Alesina, Johann Harnoss e Hillel Rapoport) è che, a differenza di quanto in genere si pensa, il grado di istruzione degli immigrati non è l’elemento determinante per giudicarne l’effetto su un’economia. Per esempio, migranti con minori competenze spesso aumentano il numero di donne native che lavorano, in quanto vanno a sostituirle nelle prestazioni di assistenza famigliare. Inoltre, i benefici di più immigrati tendono a distribuirsi su tutta la scala sociale, anche se non allo stesso modo: per un 1% di aumento della quota di immigrati ad alta istruzione sulla popolazione, il reddito pro capite aumenta di quasi il 6% per il 10% più ricco dei residenti e di quasi il 2,5% per il restante 90% ; se l’aumento dell’ 1% della quota è composto invece da persone di istruzione media o bassa, il reddito pro capite cresce del 2,5% per il 10% più ricco dei locali e del 2,2% per il restante 90% . Interessante notare che i migranti hanno livelli di competenza sempre più alti. Tra il 1980 e il 2010, i meno istruiti in arrivo sono restati di fatto stabili, anzi leggermente in calo, attorno al 5% della popolazione. I mediamente istruiti sono saliti dal 2% al 4,5% . E i più istruiti dal 2 al 5,7% (hanno superato la quota di chi ha basse competenze a metà del decennio scorso). Tutto questo è una media tra Paesi. Decisive perché i vantaggi si concretizzino sono le politiche di integrazione nel mercato del lavoro. Su questo sarebbe bene che i governi si concentrassero.

Corriere 30.10.16
Saltano i fondi per liquidare Expo
A rischio il progetto del campus
di Andrea Senesi e Elisabetta Soglio

Finanziamenti spariti dalla Finanziaria. «Così la società andrà in fallimento»
MILANO Saltano i fondi per la liquidazione di Expo e per la società che ha gestito l’evento mondiale del 2015 c’è ora il rischio di dover portare i libri in tribunale. È lo schiaffo a Milano firmato dal governo Renzi, che nell’ultimissima versione della legge di Stabilità ha stravolto i due articoli, il 20 e l’81, che stabilivano i finanziamenti destinati al post-Esposizione. Oltre ai nove milioni di euro per ricapitalizzare la società in vista della progressiva dismissione, sono «spariti» gli altri otto inizialmente previsti per l’avvio del trasloco delle facoltà scientifiche della Statale sull’area di Rho—Pero. Non è stato invece toccato l’altro passaggio della manovra, quello che istituisce la creazione di Human Technopole e che potrà contare su una dotazione iniziale di 10 milioni di euro.
Consolazione parzialissima, però, di fronte all’allarme per la cancellazione del fondo per Expo spa. Perché quei 9,4 milioni di euro sono più che mai necessari al pagamento dei dipendenti, alle spese legali e agli arbitrati ancora da affrontare e alla conclusione delle transazioni con aziende e fornitori. Senza quei soldi — è l’allarme che lanciano Comune e Regione, i soci istituzionali — il rischio fallimento è dietro l’angolo. Non solo: era stata concordata col ministero la nomina di un commissario unico liquidatore individuato nella persona di Gianni Confalonieri, uomo di fiducia di Beppe Sala. E anche su questo passaggio oggi non c’è più certezza.
L’ipotesi più immediata è che Expo non riesca a chiudere i propri conti. L’altro capitolo riguarda Arexpo, la società che dovrà gestire il post-evento:la prossima assemblea, già fissata per novembre, avrebbe dovuto ratificare l’ingresso ufficiale del governo nella compagine e dare vita alla nuova governance . Nonostante il lavoro di tessitura del ministro Maurizio Martina e a dispetto delle numerose passerelle del premier a Milano, rischia di saltare tutto. E rischia anche di riaprirsi il braccio di ferro con la Statale, dal momento che il rettore Gianluca Vago ha più volte dichiarato che senza la copertura del governo l’intera operazione di trasloco sarebbe stata messa in forse.
E ora? C’è chi assicura che i provvedimenti saltati saranno comunque recuperati attraverso il maxiemendamento alla legge di bilancio o inseriti nel decreto fiscale già incardinato in Parlamento. Per quanto riguarda il campus universitario l’intenzione potrebbe essere quella di raccogliere tutte le risorse necessarie al finanziamento (120-130 milioni di euro) nel Patto Lombardia su cui sono al lavoro governo e Regione. In ogni caso, dopo che la notizia dello stralcio dei due articoli della manovra ha preso a circolare, è immediatamente ricominciato il giro di telefonate tra il ministro Martina e Claudio De Vincenti. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio avrebbe fornito le prime garanzie sul fatto che i soldi per il campus e per la liquidazione di Expo verranno recuperati con un nuovo emendamento.
In Comune e in Regione rimane però lo sconcerto (e pure una certa dose di scetticismo). Lo stesso Confalonieri si dice «esterefatto, perché si tratta di un fatto molto grave che mette a rischio il futuro della società in liquidazione. Ora dobbiamo ragionare per capire cosa fare e come muoverci».

Corriere 30.10.16
Tetto da 240 mila euro per le star tv
È previsto dalla nuova legge sull’editoria, dubbi interpretativi
l vertici Rai: ma così chiudiamo
di Giovanna Cavalli

ROMA Il tetto (agli stipendi) che scotta. Eccome, ora che a viale Mazzini si fa strada l’idea che possa valere non solo per i dirigenti, ma anche per le star della tv pubblica. Se ne parlerà parecchio al cda del 9 novembre. Nel frattempo l’ad Antonio Campo Dall’Orto ha scritto al ministero dell’Economia per conoscere l’opinione dell’azionista di riferimento (risposta non ancora pervenuta) e chiesto un parere a uno studio legale di Milano. Responso: la norma non si applica alle risorse artistiche.
Tutto parte dell’articolo 9 della legge sull’editoria, pubblicata domani sulla Gazzetta ufficiale , che dice (e non dice) così: «Il trattamento economico di dipendenti, collaboratori e consulenti Rai, la cui prestazione professionale non sia stabilita da tariffe regolamentate, non può superare i 240 mila euro annui».
A parte escludere il ricorso ai bond come scappatoia, la norma non aggiunge altro. Un sì o un no che, pure qui, fanno moltissima differenza. Per conduttori, attori, soubrette & co., abituati a cachet di ben altra sostanza. E per la Rai che, con il calmiere di Stato, verrebbe penalizzata nei confronti della concorrenza, libera di offrire di più: «Per noi sarebbe finita», profetizzano drastici dai piani alti. «Questo accanimento ci porterà alla chiusura».
Su cosa invece intendesse il legislatore, il senatore del Pd Francesco Verducci, che ha partecipato alla stesura della legge, toglie ogni dubbio: «Il tetto vale per chiunque abbia un contratto diretto con la Rai. Quindi anche per gli artisti. Non è un provvedimento punitivo, ma una regola virtuosa che la uniforma alle altre aziende e che, a caduta, condizionerà virtuosamente tutto il sistema radiotelevisivo».
Non che lo show-business aspiri alla parsimonia. «Se dovesse prevalere questa interpretazione, saremmo di fronte a un caso di incostituzionalità», spiega l’avvocato Giorgio Assumma, esperto di diritto dello Spettacolo, ex presidente Siae, già subissato dalle telefonate di star in ambasce da ristrettezze. «La Rai verrebbe privata del potere contrattuale, svantaggiata sul mercato nei confronti della concorrenza. Un fatto gravissimo, che potrebbe decretarne la crisi irreversibile». E prevede dove si andrà a parare per aggirare la legge: «Si ricorrerà sempre di più ad appalti esterni, in cui è il produttore a pagare il compenso dell’artista».
Avverte il consigliere Rai di maggioranza Franco Siddi che «il tema della moderazione dei compensi va affrontato ma il limite dei 240 mila euro è un handicap importante». Nel dubbio, però, intanto si fa come dice la legge: «Contro la norma certo non ci andremo, la prudenza sarà d’obbligo, non vorremmo dover rispondere di tasca nostra per garantire gli stipendi d’oro ai vari Conti, Giletti, Clerici e compagnia». Concorda il collega di opposizione Arturo Diaconale (che con Giancarlo Mazzuca e Paolo Messa ha scritto al ministero dell’Economia per sapere «che fine hanno fatto i rilievi dell’Anticorruzione sulle nomine»): «Il rischio impone una interpretazione radicale. Ma questa norma populista e demagogica rischia di uccidere la Rai».