ITALIA
Corriere 30.10.16
«La corruzione è sistemica e danneggia anche i cittadini»
intervista di Giovanni Bianconi
All’indomani
dell’ultima operazione anticorruzione il procuratore di Roma, Giuseppe
Pignatone, denuncia la minaccia delle tangenti: «Un fenomeno
multilaterale o addirittura sistemico, in cui intervengono, per trarne
guadagni illeciti, oltre a pubblici ufficiali e corruttori, altri
protagonisti che lucrano a danno delle casse pubbliche». Un pericolo per
i cittadini: «Molto spesso l’imprenditore che paga le mazzette è
tentato di rifarsi abbassando la qualità dell’opera. È ciò che conparole
diverse dicono tanto papa Francesco che il presidente della
Repubblica:la corruzione è una malattia che corrode la struttura vitale
della società».
ROMA «La corruzione oggi si manifesta
sempre più spesso come un fenomeno multilaterale o addirittura
sistemico, in cui intervengono, per trarne guadagni illeciti, oltre a
pubblici ufficiali e corruttori, altri protagonisti (consulenti,
professionisti, addetti ai controlli, eccetera) che lucrano ognuno
qualcosa a danno, in sostanza, delle casse pubbliche», sostiene il
procuratore di Roma Giuseppe Pignatone all’indomani dell’ultima
operazione anticorruzione condotta dal suo ufficio.
Ci sono anche conseguenze dirette a danno dei cittadini?
«Direi
di sì, poiché molto spesso l’imprenditore che paga le mazzette è
tentato di rifarsi abbassando la qualità dell’opera; “questo cemento
sembra colla”, dice uno degli indagati. Sono anche emersi episodi di
reciproci ricatti tra gli stessi inquisiti, perché è inevitabile che se
si entra in una rete di rapporti di natura criminale si corre il rischio
di perdere la propria libertà di determinazione. È ciò che con parole
diverse dicono tanto papa Francesco che il presidente della Repubblica:
la corruzione è una malattia che corrode la struttura vitale della
società».
Il metodo mafioso stavolta sembra non entrarci.
«No,
ma l’indagine nasce dagli accertamenti eseguiti su un commercialista
emerso in un filone minore di Mafia Capitale, che mette la sua capacità
professionale in tema di fatture false, falso in bilancio, riciclaggio
di somme pagate in nero, tanto a disposizione di organizzazioni mafiose o
camorriste, quanto di esponenti di criminalità organizzata
transnazionale (per esempio albanesi dediti al traffico di droga), o di
imprenditori “normali”. Il rischio è che questi soggetti detentori di un
particolare know how agevolino i contatti tra i diversi fenomeni
criminali con un aumento esponenziale della pericolosità degli uni e
degli altri».
Però siamo in presenza di un’indagine, poi magari si arriva al processo e tutto si sgonfia.
«Io
sto parlando della fotografia della realtà che emerge da questa e da
tante altre inchieste, a prescindere dal giudizio di colpevolezza sulle
singole persone. In questo caso, comunque, c’è già un giudice che ha
sancito l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza».
Ma secondo
lei esiste il problema di inchieste che poi sfociano in sentenze di
assoluzione, dopo anni di attesa per gli imputati?
«Le assoluzioni
rientrano nella fisiologia del sistema processuale. Giudicare su
colpevolezza o innocenza degli imputati è una decisione di grande
responsabilità, spesso anche complessa. Le sentenze non si ottengono con
un’operazione al computer, specie per reati come quelli di corruzione, e
per assicurare il massimo di garanzia al cittadino il nostro
legislatore ha previsto tre gradi di giudizio. Accettando, di
conseguenza, la possibilità di giudizi contraddittori».
Con tempi un po’ troppo lunghi, non crede?
«Un
sistema di garanzie come il nostro non esiste negli altri Paesi
europei. Il legislatore ha scelto di pagare anche un pesante prezzo in
termini di lunghezza dei processi, lunghezza che naturalmente dipende
anche da altri fattori».
L’ultima assoluzione che ha fatto rumore è quella dell’ex sindaco di Roma Marino.
«Non
parlo di casi particolari, e peraltro quella non è una sentenza
definitiva. Ci potranno essere impugnazioni e altre pronunce. Noi
rispettiamo le sentenze, anche quelle che non condividiamo perché, ad
esempio, si pongono in contrasto con l’orientamento della Cassazione,
ocon altre pronunce di merito sugli stessi temi».
Caso Marino a
parte, pensa che l’informazione dia troppo peso agli arresti o alle
indagini preliminari, rispetto ai dibattimenti e alla conclusione dei
processi?
«Che le sentenze abbiano un’eco mediatica molto minore
di quella riservata alle prime fasi dei procedimenti non dipende certo
dai magistrati. Così come non dipende da noi il fatto che la politica
faccia discendere le sue scelte dall’andamento dei processi».
Vi
hanno contestato di aver tenuto riservate alcune indagini a carico di
certi politici, e non le fughe di notizie su altri. Che cosa risponde?
«Che
non è vero. Si continua a parlare di fughe di notizie da parte di
Procure e polizie, ma in realtà le violazioni del segreto sono
rarissime. Quelle che quotidianamente leggiamo sui giornali sono notizie
non più coperte da segreto in base ai meccanismi del codice. O
addirittura rese pubbliche, legittimamente, da chi fa una denunzia.
Ricordo che io o altri colleghi avevamo suggerito di consentire la
pubblicazione solo delle ordinanze del giudice, con la conseguenza di
escludere la diffusione di notizie contenute negli altri atti
processuali, comprese le informative della polizia e le richieste del
pubblico ministero. Ma la proposta, oggetto di violente critiche da più
parti, non ha avuto esito».
A proposito di Mafia Capitale: com’è
possibile che dopo tanto rumore, a quasi due anni dagli arresti, sia
arrivata la richiesta di archiviazione per 116 indagati?
«Ecco, su
questo vorrei fare un po’ di chiarezza. Intanto sul piano quantitativo.
Oltre ai 48 imputati nel processo in corso, per i quali il tribunale
dirà se sono responsabili o meno dei reati contestati, ci sono già 14
sentenze di patteggiamento o di condanna, e una di assoluzione. Per
altre 27 persone stiamo per chiedere il rinvio a giudizio dopo il
deposito degli atti. In tutto 90 posizioni. Dei 116 per cui è stata
richiesta l’archiviazione, esattamente la metà, 58, sono persone che
rientrano tra quelle 90 posizioni e per le quali, come per Buzzi e
Carminati, l’archiviazione riguarda solo qualcuno tra i molti reati
inizialmente ipotizzati. Poi ci sono una ventina di iscrizioni nel
registro degli indagati derivanti dalle accuse di Buzzi, necessarie per
eseguire i riscontri che al momento ne hanno dimostrato
l’inattendibilità. Il resto sono posizioni emerse nel corso delle
indagini per reati diversi, e per cui riteniamo non ci siano elementi
sufficienti a giustificare il processo».
Qual è la conclusione di questo chiarimento «quantitativo»?
«Che
in questi numeri non c’è nulla di strano. Sono proporzioni che
caratterizzano tutti i più importanti processi di mafia. Nell’indagine
Crimine sulla ‘ndrangheta, conclusa con la conferma di quasi tutte le
condanne in Cassazione, i rinviati a giudizio erano 161 e le posizioni
archiviate 169».
E sul piano «qualitativo»?
«Rivendico le
richieste di archiviazione, a riprova dell’attenzione e dello scrupolo
con cui la Procura svolge il suo compito. Credo che dobbiamo condurre le
indagini in tutte le direzioni e senza pregiudizi, cioè senza ritenere a
priori qualcuno colpevole o innocente, e poi chiedere il rinvio a
giudizio solo nei casi in cui riteniamo ci siano prove sufficienti a
sostenere l’accusa in dibattimento. Come dice il codice. Anche questa
valutazione non è semplice, e cerchiamo di farla con il massimo rigore,
senza preoccuparci dei consensi o delle critiche che queste decisioni
possono suscitare. Consapevoli che la nostra richiesta è solo il primo
passo di un processo che vedrà il contributo delle parti e le decisioni
di molti giudici».
Repubblica 30.10.16
Referendum, il piano Renzi per recuperare voti a sinistra “Partito della nazione è il No”
Il premier insegue tutti i consensi di area Pd: “A rischio 1 milione”
Ai militanti suggerisce: “Portate in pizzeria 20 indecisi alla volta”
di Goffredo De Marchis
ROMA.
Bella ciao, la citazione di Bernie Sanders, il richiamo al senso di
comunità, la riscoperta del Pd in piazza, luogo tradizionale della
sinistra, visto che la prossima settimana, alla Leopolda, al solito le
bandiere dem resteranno fuori. A poco più di un mese dal referendum
costituzionale, Matteo Renzi pianifica il recupero di tutti i voti del
popolo democratico. Pensa di averne conquistato il grosso ma non basta
per un appuntamento che si giocherà intorno alla soglia del 50 per
cento. «Non mi posso permettere di non combattere per un milione di voti
nostri che ancora ballano», dice nel backstage della manifestazione
romana.
Ieri quindi è partito il piano renziano per tenere insieme
il più possibile l’elettorato di sinistra, rispolverando la “Ditta”.
Mobilitarlo, blandirlo, stimolarlo. E togliere l’acqua in cui nuota la
minoranza bersaniana che si prepara a condurre, nelle ultime quattro
settimane, una campagna per il No non più timida non più nascosta. Su
cosa hanno battuto Bersani e Speranza in questi mesi? Sul partito della
Nazione, poltiglia trasformistica, male assoluto della politica del
segretario. Allora Renzi ribalta il tavolo, parla con disprezzo del
partito della Nazione e lo attribuisce al fronte del No «che va da
Brunetta a Travaglio, sull’Europa da Monti a Salvini, da De Mita a
Gasparri, finendo a D’Alema». Il vero fritto misto della partita
referendaria. L’ex segretario di Bettola non viene citato, tentativo
disperato di lasciare aperto uno spiraglio. Ma a Bersani Renzi si
riferisce quando elogia il comportamento del “socialista” Sanders,
avversario della Clinton alle primarie. «Ha perso e oggi fa campagna per
Hillary non per Trump. Avremmo bisogno di un Sanders anche qui».
Al
netto del classico valzer di numeri sulle presenze in piazza del Popolo
«non del populismo» (sicuramente, siamo lontani dal pienone ma sono
molto cambiati i tempi e i partiti), il segretario dem pensa già a una
nuova manifestazione a ridosso del 4 dicembre. Secondo i calcoli del
guru Jim Messina non è sufficiente la Leopolda di sabato prossima, il
cui effetto, dicono gli esperti, può durare al massimo quindici giorni.
Occorre un’altro momento di mobilitazione.
Intanto Renzi chiede ai
suoi elettori lo sforzo ulteriore di un impegno individuale, una sera
libera a settimana per andare a cena fuori con gli indecisi, gli
scettici. «Cinque serate in pizzeria con 20 persone alla volta.
Discutete, apritevi. In tempo di odio sui social, anche se non
convincete nessuno, è un gesto di buona politica».
Massimo D’Alema
è ormai un bersaglio facile in una piazza del Pd. Lui è l’unico a
essere attaccato frontalmente, senza paura di strappi ulteriori. «Ha
detto che gli anziani votano Sì perché non capiscono il tema. Qui ho
parlato con una sindacalista dei pensionati (Carla Cantone ndr) che mi
ha rivelato che loro votano Sì proprio perché hanno visto all’opera
quelli come D’Alema». In piazza c’è dunque la Cgil, spunta qualche
fazzoletto dell’Associazione nazionale partigiani, sul palco parlano
l’impreditore e l’operaio, il neo assunto grazie al Jobs act e il marito
della donna morta in Puglia, vittima del caporalato. Per un giorno,
insomma, il referendum «non si vince a destra», come ha confessato il
premier-segretario poco tempo fa.
La presenza di Gianni Cuperlo è
la ciliegina sulla torta di una possibile unità da trasformare in
consensi il 4 dicembre. Non basta, ovvio. Serve ricostruire al volo un
sentimento, una connessione con il popolo della sinistra. E anche
l’appartenenza al partito, trascurato negli anni della segreteria Renzi.
Per questo, il premier ripete una decina di volte la parola “comunità”
che ha sempre distinto i movimenti dei lavoratori dall’individualismo
della destra liberale. Categorie antiche, ma non è detto che non siano
ancora stratificate in una parte dell’elettorato.
Di certo, il
recupero pieno della sinistra non è affidato alla legge elettorale.
Renzi non la considera un’arma, almeno per i grandi numeri. «Vogliamo
cambiarla — concede —. Abbiamo spalancato le porte alle modifiche. Ma il
punto non è questo». Non lo è per il voto giovanile, quello che a
giudizio dei sondaggi manca all’appello del Sì. Il più difficile da
intercettare e orientare. Infatti l’ultimo richiamo di Renzi è ai
ragazzi dem: «Dovete esserci, nelle scuole e nelle università».
Repubblica 30.10.16
A un mese dal voto in vantaggio il No il Pd si compatta intorno al premier
Personalizzare
la consultazione ha trasformato il referendum in un giudizio pro o
contro il governo. Con conseguenze sulla legittimazione di Renzi
di Ilvo Diamanti
IL
CLIMA POLITICO del tempo è acceso. Da un solo fuoco. Il referendum
sulla riforma costituzionale, che avrà luogo il prossimo 4 dicembre.
Così il mese che ci separa dal voto è percepito – e vissuto - come una
lunga attesa. Il sondaggio condotto nei giorni scorsi da Demos per
Repubblica riflette, dunque, un sentimento che definirei di sospensione.
Da un lato, gli orientamenti politici riproducono le tendenze
dell’ultimo periodo. Le stime di voto, come nella rilevazione
precedente, delineano un sostanziale equilibrio, fra Pd e M5S. Con un
lieve vantaggio del Pd, nel voto proporzionale, e del M5S, nel
ballottaggio. In entrambi i casi, la distanza è molto ridotta. Tanto da
non permettere previsioni. D’altra parte, però, le intenzioni di voto,
in merito al referendum, fanno osservare un ribaltamento rispetto alle
precedenti rilevazioni. Il No, per la prima volta, supera il Sì. Di
stretta misura, in effetti: 4 punti. Anche perché gli incerti sono
ancora molti. E la quota dei potenziali astenuti – nascosti, fra
l’altro, nelle mancate risposte – ancora molto elevata. Si tratta di un
orientamento osservato da altri già da qualche mese. I nostri sondaggi,
invece, rilevano questa svolta solo ora. Anche se giunge a conclusione
di un avvicinamento progressivo. Da febbraio, quando il Sì risultava in
netto vantaggio, fino ad oggi. Questo percorso è segnato, e quasi
determinato, dalle scelte del premier, Matteo Renzi. Che l’ha
trasformato in un referendum “personale”. Con l’intenzione, evidente, di
ricavarne una legittimazione diretta. Per rimediare al problema, che lo
ha sempre angustiato, di apparire – ed essere – un premier “non
eletto”. In questo modo, però, Renzi ha prodotto un esito imprevisto e
in-intenzionale. Ha, cioè, politicizzato il referendum, trasformandolo
in un canale di “mobilitazione” di tutti gli scontenti. Contro di lui.
Il
sondaggio dell’Atlante Politico di Demos rende evidente questo processo
di personalizzazione del voto. Solo un quarto degli elettori –
intervistati – ritiene, infatti, che l’obiettivo del referendum sia di
riformare oppure mantenere l’attuale Costituzione. Mentre una
maggioranza molto larga – 57% - pensa che si tratti di una consultazione
a favore oppure contro Renzi e il suo governo. Ed è probabile, dunque,
che, a sua volta, voterà seguendo la stessa logica.
I caratteri
che accompagnano il voto, d’altronde, sono piuttosto chiari. Il favore
per la riforma è più largo nel Nord (dove, peraltro, prevale il No) e
nelle “regioni rosse” del Centro. Mentre l’opposizione cresce
soprattutto fra i più giovani. Ma la discriminante delle scelte
rispecchia soprattutto le preferenze politiche ed elettorali. Il
sostegno alla riforma costituzionale, infatti, raggiunge il livello più
elevato fra gli elettori del Pd e, in secondo luogo, della nebulosa
centrista (Ncd e dintorni). Il fronte del No, simmetricamente, mobilita
gli elettori della Destra Forza-leghista e del M5S. Non per caso lo
spartiacque riproduce il giudizio sul governo. Fra chi ne ha fiducia, i
favorevoli alla riforma raggiungono il 60% e i contrari si fermano al
13% (il resto è avvolto dalla nebbia dell’incertezza). Mentre fra chi
esprime sfiducia verso il governo il peso del No è perfino più ampio:
62%.
Difficile, dunque, pensare che l’esito del referendum non
produca conseguenze significative sulla posizione e sulla legittimazione
di Renzi. E del suo governo. Non per caso oltre metà degli italiani
pensa che, in caso di vittoria del No, il premier si dovrebbe dimettere.
Non solo, ma la maggioranza degli elettori ritiene probabile che dopo
il referendum il Pd si dividerà. È ciò che pensano, fra l’altro, oltre 4
elettori del Pd su 10. Più che di fratture reali si tratta, in effetti,
di conflitti d’opinione. Prodotti e amplificati dalle polemiche accese
che attraversano il partito, al suo interno. Dove alcuni autorevoli
leader, come Bersani e D’Alema, si sono espressi – e operano -
apertamente per il No. Così, si riproduce, con maggiore evidenza,
l’immagine di due Pd - sempre più distanti e distinti fra loro. Da un
lato il “Pd delle origini”, che riassume tradizioni e organizzazione dei
partiti di massa. Dall’altro il Pd-di-Renzi, un partito
“personalizzato” e sempre più “personale”. Tuttavia, la “marcia del
referendum” pare stia producendo – e abbia prodotto – un esito diverso
delle previsioni. Più che accentuare le divisioni interne fra gli
elettori, ha, invece, compattato il Pd intorno alle posizioni e alla
persona del leader-premier. Circa 3 elettori del Pd su 4 affermano che
voteranno Sì alla riforma costituzionale. E 9 su 10 manifestano fiducia
nel governo (guidato da Renzi). Intanto, la stima personale nei
confronti di Renzi appare stabile, mentre la considera- zione verso gli
oppositori interni – del premier e della riforma – cala sensibilmente.
Bersani, nell’ultimo mese, perde 3 punti. D’Alema 6. E finisce sotto il
20%. Le divisioni e i conflitti nel Pd, dunque, sembrano coinvolgere e
dividere i gruppi dirigenti e i militanti, più che la base elettorale.
La
campagna del referendum, invece, pare aver contribuito a rafforzare
l’identità “personale” del Pd. A sovrapporre il PdR al Pd. Fino quasi a
farli coincidere. Ha, inoltre, radicalizzato il confronto. Fra il No e
Renzi. Senza alternative.
Così, è facile prevedere che l’esito del
voto, il prossimo 4 dicembre, avrà un impatto rilevante sulla politica
italiana. Sul destino del governo e del premier. Sul futuro del Pd e del
PdR. Dopo, di certo, nulla – o quasi – sarà come prima.
La Stampa 30.10.16
Renzi in piazza attacca
“Il partito della Nazione è il fronte del No”
Il premier, sotto nei sondaggi, cambia e attacca la vecchia guardia
di Fabio Martini
Da
mezzora, nella grande e scenografica piazza del Popolo, migliaia di
militanti del Pd - arrivati da tutta Italia con i mezzi messi a
disposizione dal partito - stanno applaudendo puntualmente tutti i
passaggi più efficaci del discorso di Matteo Renzi, che lassù sul palco,
scandisce a squarciagola battute e slogan, ma senza mai riuscire a far
scattare l’ovazione, uno di quei momenti nei quali il capo di solito
tocca il punto sensibile della sua gente. Ad un certo punto Renzi, in
maniche di camicia, dice: «Perché quelli della vecchia guardia dicono
No? Ripetono: “se la scrivevamo noi sarebbe stata meglio...” Può darsi.
Il punto è che non l’hanno scritta: l’hanno discussa, contestata,
chiacchierata, digerita e poi si sono dimenticati di scriverla. Il fatto
che voi avete fallito, non vuol dire che dovete far fallire noi!».
A
questo punto dalla platea si è alzato un lungo applauso, è scattato
anche un coro: «Mat-teo, Mat-teo, Mat-teo!». Sembra strano ma non capita
quasi mai che Matteo Renzi sia chiamato per nome e in coro ritmato
dalla sua gente, che lo ammira ma gli tributa applausi ripetuti ma
sempre brevi, quasi a segnalare un coinvolgimento emotivo effimero. E
invece quello slogan sulla vecchia guardia ha fatto breccia tra il
popolo del Pd giunto a Roma per la manifestazione nazionale a sostegno
del Sì al referendum ed è esattamente la stessa reazione che Renzi sta
raccogliendo nei comizi nell’Italia profonda. Qualche minuto prima lo
stesso concetto, il presidente del Consiglio lo aveva espresso con una
battuta, un po’ più in «politichese»: «Il vero Partito della Nazione è
quello del No, che va da Monti a Salvini, da Brunetta a Travaglio, da
Gasparri a Tremonti, da Berlusconi a D’Alema. Può dire solo di no,
questo è il partito che vuole bloccare l’Italia».
Nel comizio
tenuto nella romana piazza del Popolo, Matteo Renzi ha decisamente
imboccato la strada che, spera il premier, potrebbe portarlo ad
invertire la tendenza che nei sondaggi attualmente premia il No. Puntare
sul merito della riforma ha già capito che non funziona più di tanto.
Puntare sul proprio carisma meno che mai. E dunque il messaggio,
esplicito e subliminale, sul quale Renzi punta è questo: cari italiani,
io sarò pure antipatico a molti di voi, ma attenti, perché la vecchia
guardia è peggio di me. Certo, Renzi non si esprimerà mai in questi
termini ma qualche giorno fa, parlando in un teatrino di Palermo, si è
rivolto ai militanti palermitani, dicendo testualmente: «Agli
anti-renziani va detto: guardate, se vi sta antipatico quello e non lo
sopportate, bene..., ma state attenti perché se votate No, l’occasione
per cambiare non vi ricapita più». Renzi sa che le battaglie più incerte
si vincono, azzeccando, tirando fuori e capitalizzando un umore
profondo nell’opinione pubblica. E il presidente del Consiglio pensa di
averlo trovato, «criminalizzando» quelli che «con il No al referendum
costituzionale rischiano di mettere indietro le lancette di una
generazione».
Organizzata con grande dispendio di energie
finanziarie, la manifestazione per il Sì ha consentito di portare in
piazza del Popolo (capienza di 60 mila persone) il numero di persone
«giuste» per il colpo d’occhio da telegiornali e poco importa che un
quarto della piazza fosse vuota, mentre sul palco si sono alternati
musiche e gruppi funzionali ad una immagine di sinistra, utile per
provare a lanciare «messaggi» agli elettori incerti. Nel suo comizio
Renzi ha trascurato il merito del referendum e ha lanciato un
avvertimento ai partner europei: «Noi diciamo che siccome nel 2017
casualmente a Roma si riuniranno i capi di governo e in Ue arriva a
scadenza il tema del fiscal compact, noi non accetteremo di inserirlo
nei trattati Ue».
il manifesto 30.10.16
Renzi non unisce. E divide
di Norma Rangeri
A
poco piu di un mese dal 4 dicembre, Matteo Renzi approda a piazza del
Popolo per il giro di boa che segna l’ultimo miglio della campagna
elettorale piu lunga della storia. Il governo forte e il paese unito
invocati dal palco per battere «l’egoismo europeo», il
presidente-segretario spera di conquistarli con la vittoria del Sì al
referendum contro la Costituzione. Ma se vincerà la sfida referendaria
riuscirà a rafforzare il governo, mentre sarà più difficile unire
un’Italia che da sei mesi vive, grazie a lui, una divisione profonda tra
rottamatori e difensori della Carta costituzionale.
Il comizio
elettorale tocca fatalmente tutti i tasti della propaganda del nuovo che
vuole seppellire il vecchio, del futuro che per realizzarsi ha bisogno
di togliere di mezzo il principale ostacolo individuato – dalle schiere
renziane – nella democrazia parlamentare per come l’abbiamo conosciuta e
vissuta, da sostituire con una democrazia d’investitura, con un
indebolimento della rappresentanza ed un rafforzamento del potere
esecutivo. E la propaganda dice che chi sposa la bandiera del Si
desidera un paese migliore mentre chi si batte per il No «vuole solo
riprendersi il posto che gli è stato tolto».
Però è uno strano
modo di unire il paese se si toglie all’avversario – e ai milioni di
cittadini che voteranno No – dignità politica, se si svilisce il
dissenso interno, se si ridicolizza la critica che arriva dalla società,
se si accusano gli avversari di pensare solo alla poltrona falsificando
così l’identikit di chi non vuole sottoscrivere la sua idea-marketing
del cambiamento.
Questo grillismo in salsa renziana aveva premiato
il presidente-segretario, lanciandolo alla guida del partito e,
successivamente, al comando del governo, grazie anche alla sbornia di
quel 40 per cento di voto europeo che poi lo aveva spinto a cucirsi su
misura una legge elettorale a colpi di voti di fiducia.
Ma oggi
l’arma della rottamazione mostra un po’ la corda, rivelando un partito
che perde voti e iscritti, che cede l’amministrazione di importanti
città e che il 4 dicembre andrà oltretutto diviso alle urne. Un partito
che, come ha ricordato il vecchio Ciriaco De Mita, nel faccia a faccia
televisivo di venerdì sera su La7, al giovane leader dal piglio
fanfaniano, sembra quasi ridotto a cassa di risonanza del segretario,
dell’uomo solo al comando.
Un presidente-segretario che si perde
per strada buona parte del Pd (qualunque cosa significhi la presenza in
piazza di Cuperlo, immortalato dal selfie con la ministra Boschi), che
provoca l’opposizione di mondi larghi come quello della scuola e del
lavoro, è un politico che corre verso una meta precisa: quel partito
della nazione che nel fuoco della battaglia referendaria dovrebbe
perdere l’antica pelle della sinistra, per assumere un nuova identità
che guarda sempre di più alla sua destra. Ma se questa è la scommessa, a
rimetterci la pelle potrebbe essere non uno schieramento, non un
partito, bensì la nostra Costituzione. Per questo «Bella ciao», usata
per scaldare la piazza romana in attesa del comizio, più che come un
omaggio sembrava scandire le note e le parole di un addio.
Corriere 30.10.16
A sorpresa c’è Cuperlo. Il gelo dei bersaniani
di Alessandro Trocino
La base lo ringrazia. Lui : «Non potevo restare a casa». Speranza: rispetto per chi non c’era
ROMA
«Compagno Cuperlo, non deve essere una notizia che sei qui. Te lo dico
con il cuore in mano, compagno!». L’anziano Angelo Vischetti, fazzoletto
tricolore dell’Anpi sul collo, stringe in una morsa le mani di Gianni
Cuperlo e poi scoppia a piangere. Eppure, che il «compagno» Cuperlo sia
in piazza, in questa tarda ottobrata romana, è una notizia eccome. Non
solo: l’esponente della sinistra pd è accolto trionfalmente dalla
renzianissima folla. È come un figliol prodigo che torna: ma più che un
pellegrinaggio il suo è una sorta di giro d’onore, tra selfie e strette
di mano.
Di selfie Cuperlo ne fa uno che colpisce: con il ministro
Maria Elena Boschi, dietro le quinte. Seguono abbracci con Roberta
Pinotti e Lorenzo Guerini. Affettuosità reciproche non scontate in un
partito diviso come non mai, con una distanza sul referendum che fa
ipotizzare un rischio rottura con diaspora. Per scongiurarla, Cuperlo ha
accettato di mettersi alla guida del comitato che dovrà provare a
riformare la legge elettorale. Mercoledì sera ci sarà la riunione
decisiva. Ma il clima è pessimo. Molti della sinistra danno per scontato
il No. Cuperlo è il più dialogante, secondo alcuni in odore di
ambiguità e collusione con il «nemico».
Venerdì sera era andato a
letto pensando di disertare la piazza. Aveva rassicurato più volte sulla
sua assenza Roberto Speranza, che raccontano furioso. E poi? «Mi sono
svegliato e ho deciso di venire, sapendo di attirarmi le critiche degli
assenti. Ma non me la sentivo di stare a casa».
Qualche timore
c’era: «Mi aspettavo contestazioni». Invece solo complimenti: «Molti mi
hanno detto di aver votato per me: chiederò il riconteggio al
congresso». Scherza e incassa lodi e incoraggiamenti: «Grazie di essere
venuto», «Bello vederti»; «Dai una sveglia a quei cretini»; «Ti do
l’hashtag : uniti si vince»; «Dillo a Bersani». Un’insegnante fa una
filippica contro D’Alema. Lui sorride: «Prendo atto». Un militante si
rifiuta di stringergli la mano: «Solo se voti Sì». Ma è l’unico. Cuperlo
saluta Claudio Velardi, il sindaco di Cava dei Tirreni e quello di
Lampedusa, Giusi Nicolini: «Visto che non mi avete portato da Obama,
vengo qui». Poi si allontana con il parlamentare Andrea De Maria,
cuperliano ma schieratissimo con il Sì.
Il paradosso è esplicito:
Cuperlo idolo della folla nella piazza più renziana d’Italia, per
l’occasione riverniciata con tocchi di sinistra, dalla compagnia di
musica popolare al cantante di colore che vuole «scacciare gli spiriti
maligni». Ci prova anche Cuperlo, a scacciarli, ma «il sentiero è
stretto»: «Bersani è cauto, capisco. Ma in caso di novità ha detto che
ripenserebbe alla sua posizione». Quello che serve è «un atto del
segretario». A sinistra storcono il naso, temono l’ennesima conversione
al renzismo. Speranza dice: «Una parte significativa degli elettori del
centrosinistra e del Pd non era in piazza perché pensa di votare No. Va
rispettata o il rischio è che non si sentirà più a casa nel Pd». Dopo
«Bella Ciao» parte «’O Sole mio» e parla Renzi. Cuperlo ascolta.
Repubblica 30.10.16Il leader della minoranza dem “Matteo al bivio, dipende da lui se cambierò idea”
Sotto il palco spunta Cuperlo “Non tradisco ma serve rispetto. Qui tanti hanno votato Bersani”
“Io come Moretti che si tormenta se andare? Ho scelto così per evitare una piazza anti-sinistra”
intervista di Giovanna Casadio
ROMA.
«Una scelta d’affetto, soprattutto. Ma non ho cambiato opinione su
quello che ho sempre detto: se non ci sono novità concrete
sull’Italicum, voterò No al referendum». Gianni Cuperlo lascia piazza
del Popolo dove è stato accolto da applausi, evviva, bravo. «Cuperlo sei
un grande uomo», lo ferma un militante del Sì. «No, ma non fa niente»,
risponde lui, triestino colto dall’ironia pronta, sfidante di Renzi
all’ultimo congresso e ora leader della minoranza dem. E il doppio giro
che fa della piazza renziana è una sorpresa per Gianni e forse una
catarsi per i militanti con gli striscioni di “BastaunSì” . Esorcizzato,
almeno per qualche ora, lo spettro della scissione che si aggira nel
Pd: «Ho evitato che si trasformasse in una piazza contro la sinistra
dem». Confessa Cuperlo, diventato d’improvviso un eroe per la piazza del
Sì? E un traditore per il Pd del No?
«Lasciamo eroi e traditori
alla letteratura. C’è stato rispetto. Sono andato perché in quella
piazza c’era anche un pezzo della sinistra, del popolo del Pd. Ma so che
esiste un’altra parte della sinistra e del Pd che in quella piazza non è
andata perché non la sentiva come sua. Se non torniamo a unire quei due
popoli oltre il Sì e il No la sinistra non è più forte ma più divisa e
fragile».
Sui social lo criticano, gli chiedono se non si comporti
alla Nanni Moretti del “mi si nota di più se ci sono o se non ci sono”.
Cuperlo replica: «In questi anni le critiche non mi sono mancate. Ero
lì in piazza con le mie idee e convinzioni, con lo spirito di chi pensa
che servono ponti e non steccati». Dicono che le conversazioni con
Lorenzo Guerini, il vice segretario dem, e gli incontri nella
commissione per modificare l’Italicum tentando di fare rientrare i Dem
del No, abbiamo avuto un peso determinante nella sua scelta della
piazza. Ettore Rosato, il capogruppo del Pd a Montecitorio, anche lui
triestino e anche lui uno dei saggi in commissione, lo abbraccia
vedendolo: «Ero certo che saresti venuto». Gianni mormora: «Faticoso».
Bersani e i bersaniani, che hanno disertato la piazza del Sì, sempre più
orientati per il No al referendum, sono irritati. Roberto Speranza,
altro leader della sinistra dem, ha ricevuto ieri all’ora di pranzo la
telefonata con cui Cuperlo gli comunicava la sua scelta. Gelo.
E
quindi Cuperlo, non teme l’irritazione dei compagni di minoranza? «Spero
che non sia così. Molti in piazza mi hanno detto di avere votato per
Bersani. Tanti altri per me all’ultimo congresso, io ho scherzato:
“Allora ci sono stati brogli, perché ho perso”. Non c’è dubbio che
dobbiamo aver grande attenzione verso chi non c’era e sono stati tra i
primi ad avere chiesto cittadinanza dentro il Pd per quanti sceglieranno
o hanno già scelto di votare No. Sulla Costituzione ciascuno risponde
in primo luogo alla sua coscienza».
Si sfoga, Cuperlo: «La mia
angoscia maggiore è per il giorno dopo e per la possibilità di
ricostruire un centrosinistra di governo. La nostra gente ce lo chiede.
Renzi ha molto potere. Ha fatto cose positive e compiuto errori. Adesso è
a un bivio. Penso che la denigrazione di chi è venuto prima non
accresca la sua autorevolezza. Far intendere che il mondo inizia ogni
mattina daccapo è un gioco che può far male a chi lo fa. Come rimuovere
che è anche grazie ad altri, a cominciare da Bersani, se oggi lui può
sedere a Palazzo Chigi».
Ma insomma la presenza in piazza è stata
vista come un avvicinamento verso il Sì di Cuperlo? «Assolutamente non
voterò Sì se non c’è un atto politico concreto di Renzi sulla legge
elettorale. Ho sempre fatto le battaglie in cui ho creduto. Mi sono
dimesso da presidente del partito, non cerco e non chiedo nulla per me.
Le richieste che ho fatto a nome della sinistra restano intatte». Spiega
che alla commissione Guerini crede. Ma: «Renzi ha detto in piazza che
la legge elettorale cambierà. Non bastano le parole. Ho chiesto al
segretario di depositare la nuova proposta del Pd in Parlamento. Per me
vuol dire: eleggere direttamente i senatori e una legge per la Camera
con collegi e un premio di maggioranza ma in un regime parlamentare. Se
questa scelta ci sarà la saluterò con gioia, se no sarò coerente e ne
trarrò le conseguenze».
Repubblica 30.10.16
Istantanea di una piazza a metà “Gli assenti? Un favore a Grillo”
Meno presenze del previsto, i militanti: “e l’unità?”. Fischi a D’Alema
Dirigenti e ministri restano in disparte Malumori sui costi per organizzare la kermesse
Carlo, ex consigliere Dc: “Quelli dei Ds non la smettono mai di litigare”
Noi e loro. I buoni e “quelli di prima”. Un partito, due partiti, in un sabato di ottobre con le urne che si avvicinano.
di Alessandra Longo
ROMA.
Fatta. E’ andata. Al calar della luce il Pd di piazza del Popolo
riavvolge le bandiere. I 18 bus della Calabria aspettano con il motore
acceso, i 4000 toscani festanti per il Sì segnalati nella capitale
corrono al treno o al parcheggio, i mille della Sicilia si racconteranno
la giornata nelle lunghe ore del rientro. Quanti in tutto? Non certo 50
mila come nelle previsioni, o forse nei desideri degli organizzatori,
ma nemmeno un drappello di «impalpabili» come li vorrebbe, perfido,
Renato Brunetta.
Il partito c’era. Una quota parte, però, quella
che si affida a Renzi ritenendolo un buon traghettatore verso lidi più
sicuri. Ed è il gioco delle assenze/presenze che rende diverso questo
sabato romano dal clima dolcissimo, per certi versi sospeso, tra i
fischi a Massimo D’Alema, evocato dal palco, ai baci e agli abbracci al
«compagno» Gianni, «grazie di essere venuto». Sottofondo musicale
altrettanto fluido da «Bella Ciao», intonata dalle donne di Terni, a
«Sole mio» scelta per l’ingresso trionfale del segretario.
Clima
volutamente popolare, con signori nessuno sul palco (a parte Renzi, Sala
e Giusi Nicolini), e i ministri, l’establishment in «borghese» dentro
la piazza. Andrea Orlando in giro con il padre, Matteo Orfini, in
giubbino caki, che convoglia con un tweet i manifestanti più accaldati
verso una gelateria di sua fiducia. Piero Fassino che non parla con
nessuno e scatta foto come un turista. Magliette a 8 euro, palloncini,
spillette: il solito armamentario. Un Sì organizzato, anche, pare, con
ragguardevoli costi per il partito (c’è chi non crede alla cifra di 150
mila euro), ma la comunità non si è militarizzata, mantiene il sorriso e
la leggerezza della gita fuori porta e invoca, nonostante i pessimi
segnali, la solita parola proibita: unità. Uniti, uniti, stiamo uniti,
«sennò regaliamo il Paese a Grillo». Come sembrano saggi certi ragazzi.
Gaetano e Roberta arrivano dalla Sicilia, tutti e due con incarichi nel
partito: «Noi non votiamo per Renzi, noi votiamo per le riforme».
Freschezza dell’età: «Basterebbe che ognuno facesse un passo indietro».
Mica facile. Le posizioni si sono incancrenite. «Tra noi e loro - dice
Carlo - c’è una differenza enorme. Noi al partito ci crediamo e alle
manifestazioni ci andiamo comunque. Saremmo venuti anche se ci fosse
stato Bersani».
Noi, loro. Due pezzi, due anime, appunto. Carlo
viene dalla Dc, ha fatto per 20 anni il consigliere comunale a Rufina,
paesino toscano. Per lui la colpa è dello zoccolo duro diessino, «sempre
pronti a litigare, ad ostacolarsi l’un l’altro. Non che la Dc non
avesse le correnti, figurarsi, ma poi c’era la sintesi, una linea cui
attenersi». Sono loro a parlare in piazza perché loro hanno deciso di
esserci, rappresentano un punto di vista, non l’unico. Manca il
contradditorio, manca, appunto, un pezzo di mondo, il pezzo del «no».
«Ci spiace se non sono venuti, peggio per loro, per Bersani, per
Speranza. Cuperlo ha fatto bene a farsi vedere, nessuno qui pensa di
buttarlo fuori». Bontà loro, si può ancora ricucire. Angelo viene da
Ascoli, a 16 anni già militava nella Margherita. Renzi? «E’ la strada
alternativa». E se vincessero i No? La vecchietta di Milano esibisce il
suo cartello alle telecamere: «Qualunque sarà il risultato non ti devi
dimettere». Nei 17 mila metri quadrati di piazza gli estimatori del
segretario si muovono soddisfatti. Max e Antonio sono una coppia da 10
anni, a breve si sposeranno. Il primo è pianista, il secondo è impiegato
di un ministero. «Dopo 30 anni di lacrime, chi ha fatto le Unioni
Civili? Questo governo!». E allora capisci che il «Sì», per loro,
contiene tutto. «D’Alema è diventato insopportabile e cattivo», dice
Nicola, 82 anni, prima tessera Pci nel 1950.
Repubblica 30.10.16
I due paradossi nella piazza Pd
La posta in gioco era il controllo del partito e il destino della legge elettorale
di Claudio Tito
C’È
UN doppio paradosso nella manifestazione organizzata ieri dal Pd. Una
iniziativa che non può essere giudicata semplicemente sul successo
numerico. In quella piazza il vero confronto non riguardava la capacità
di raccogliere militanti e elettori per sostenere il Sì. La posta in
gioco era tutt’altra. Anzi, erano altre due. La natura di quel partito e
con essa la capacità della sua leadership di persuadere una parte della
minoranza interna a considerare quella piazza una “casa comune”. E
soprattutto il destino della legge elettorale, ossia dell’Italicum.
Ecco, i due paradossi sono questi. Il confronto non riguarda più la
riforma costituzionale. Non si discute sul bicameralismo o sul Titolo V
della Carta. Si consumano semmai in anticipo le due sfide finali: la
riforma del sistema di voto e il controllo del partito.
Intorno a
quel palco si è dunque ballato una sorta di lezioso minuetto nel quale
le reali ragioni del contendere sono state da tutti sottaciute. La
sinistra dem ha disertato la manifestazione perché semplicemente ha
deciso da tempo di regolare i conti con Matteo Renzi al referendum di
dicembre e perché ha stabilito che nessun accordo deve essere trovato
sulla riforma elettorale. E questo ha poco a che fare con la effettiva
possibilità di trovare un accordo. Si fa finta di essere disponibili a
trattare per non assumersi la responsabilità di una rottura evidente. Il
No è quindi semplicemente strumentale al regolamento dei conti. La
riconquista della “ditta” passa per le urne referendarie e per il
sostanziale ritorno ad un modello proporzionale di legge elettorale.
Ma
anche il segretario del Pd e i suoi sostenitori si sono presentati
davanti ai militanti velando la vera posta in gioco. Si parla di riforme
ma si pensa all’Italicum, si spiegano le ragioni del Sì ma si disegnano
le possibili conseguenze del voto di dicembre. Perché è ormai evidente
che le sorti del governo e di Renzi saranno determinate dal referendum. E
sebbene abbiano abbandonato la strada della personalizzazione, anche a
Palazzo Chigi sanno che una sconfitta adesso significa riconsegnare la
leadership del Paese e non solo del centrosinistra. Azzerare il
contatore per poi, in caso, ricominciare daccapo con il congresso che si
terrà inevitabilmente il prossimo anno. Così come una vittoria del Sì
offrirebbe la possibilità al premier di “spianare” gli avversari. Questo
è l’ultimo sintomo di una antica malattia: quella che porta la sinistra
a spaccarsi sempre e a considerare un nemico chi dirige il partito in
quel momento. Ma è anche il segno più recente della ferita che nel Pd
non si rimargina: quella della mancata legittimazione reciproca.
Del
resto che si tratti di un minuetto, lo si capisce proprio da quel che
accade in quelle riunioni del partito democratico sulla riforma
elettorale. Nessuno vuole un effettivo risultato. L’obiettivo dei
bersanian/ dalemiani è semplicemente di far fallire tutto. Quello dei
renziani anche. Con una piccola sfumatura. Il premier continua a credere
che l’Italicum sia una buona legge. E prova a spaccare il fronte
interno portandosi dalla sua parte l’ala critica della minoranza: quella
guidata da Gianni Cuperlo. Che non a caso ieri si è presentato a piazza
del Popolo. Renzi ha bisogno di dimostrare che ha fatto di tutto per
tenere unito il suo partito e lo fa attraverso Cuperlo. Quest’ultimo ha
bisogno di emanciparsi dalla tradizionale linea di comando composta da
Bersani e D’Alema pensando ad una prospettiva autonoma nella prossima
legislatura.
Il doppio paradosso è proprio questo: in una
manifestazione convocata per le riforme costituzionali, le due poste in
gioco erano altre. Il futuro del Pd e la legge elettorale. Senza contare
che in questi giorni nessuno, dentro e fuori i confini del Pd, ha il
coraggio di ammettere che fin quando la Corte Costituzionale non avrà
emesso il suo verdetto sull’Italicum nessuna modifica a quella legge è
davvero praticabile. Ma questo, infatti, non è certo il tempo della
franchezza. Quello improvvisamente si materializzerà il 5 dicembre.
Repubblica 30.10.16
Dem e M5S si contendono il primato
Sinistra avanti di poco nel proporzionale, i cinquestelle vincerebbero al ballottaggio
di Roberto Biorcio Fabio Bordignon
SORPASSI
e controsorpassi. In parte oscurato dalla corsa verso il 4 dicembre,
prosegue il testa a testa tra Pd e M5S. Il partito di Renzi conserva un
piccolo margine, in un ipotetico primo turno. Ma il M5S torna a
scavalcarlo nel confronto diretto del ballottaggio.
Le intenzioni
di voto rilevate, nell’ultima settimana, dall’Atlante politico Demos- La
Repubblica appaiono in continuità con le tendenze emerse nell’ultimo
anno. Sono sempre più chiari i segni di una progressiva bipolarizzazione
dello scenario politico: da una parte il Pd renziano, dall’altra il
movimento fondato da Beppe Grillo.
Il M5S, penalizzato, nei mesi
scorsi, dai travagli della giunta Raggi a Roma, torna oggi a superare il
30%. Pare nuovamente in grado di contendere al Pd al ruolo di primo
partito. Soprattutto, risulta favorito in tutti gli scenari di
ballottaggio. Il ritorno di Grillo alla guida del movimento ha in parte
appianato le divergenze interne, garantendo, al contempo, una costante
visibilità a posizioni alternative al governo e al premier, a partire
dalla proposta sul dimezzamento degli stipendi dei parlamentari.
Il
Pd mantiene con lievi oscillazioni il primato negli orientamenti di
voto. Mentre Renzi conserva un livello elevato di gradimento del suo
governo (44%) e della sua leadership (45%). Un’impresa non facile, in
una fase di diffusa sofferenza per gli effetti della crisi economica e
sfiducia nei confronti delle politiche pubbliche. L’idea di chiudere
Equitalia, cancellando sanzioni e interessi sulle cartelle arretrate,
incontra largo favore tra gli intervistati (60%). Ma prevalgono i
giudizi critici, rispetto a quelli positivi, sulle misure che riguardano
le pensioni (45% a 40%) e sul complesso della manovra (41% a 39%). Le
posizioni critiche di Renzi rispetto all’Unione Europea godono d’altra
parte di una larga popolarità: la fiducia nelle istituzione comunitarie
si è ormai ridotta ai livelli minimi tra i cittadini (25%). Si è inoltre
ridimensionato il gradimento di alcuni leader della sinistra critici
rispetto alle politiche di Renzi: Bersani, De Magistris e soprattutto
D’Alema. Le polemiche sul referendum e sulle prospettive future hanno
indubbiamente incrinato l’unità dell’ex-area ulivista.
In questo
contesto, il ruolo e il rilievo delle opposizioni di centrodestra
appaiono notevolmente ridotti. Tutti i loro leader - da Salvini a
Meloni, da Parisi a Berlusconi - hanno registrato una contrazione della
fiducia, rispetto al sondaggio di settembre. Restano stabili, nel
complesso, le intenzioni di voto per i partiti dell’area. Ma gli
equilibri interni, solo qualche mese fa favorevoli alla Lega, vedono ora
crescere il peso di Forza Italia. Una lista unitaria tra i due partiti,
insieme a Fratelli d’Italia, sarebbe però nettamente sconfitta, nel
ballottaggio, sia con il Pd che con il M5S.
La Stampa 30.10.16
Intervista a Miguel Gotor
«L’Ulivo nato per unire. Ormai siamo divisi su tutto»
Senatore Miguel Gotor, perché ieri non era in piazza?
«Non condivido la piattaforma della manifestazione, il sì al referendum: mi è sembrato più serio non partecipare».
Voi della minoranza non avete paura di spaccare il partito?
«Nel
’96 lo slogan dell’Ulivo era “Uniti per unire”; oggi è “Divisi per
dividere”. C’è una responsabilità nel fare questo, e non è della
minoranza».
Di chi è?
«Del segretario Renzi, che ha fatto due errori strategici».
Quali?
«Primo: scegliere la Costituzione come terreno di scontro e lacerazione nel centrosinistra e nel Paese».
E il secondo?
«Fermo
restando il diritto di dire che il Pd è per il sì, ha sbagliato a
rendere quella posizione esclusiva. I nostri elettori per il no devono
sentirsi a casa loro, mentre sono stati sbeffeggiati con frasi tipo “chi
vota no è come Casapound”».
Il fronte del no, dice Renzi, è il vero partito della Nazione…
«E’
ovvio che in un referendum ci si polarizza sul sì o sul no, ci vorrebbe
più rispetto. Tra un anno, agli elettori di centrosinistra che votano
no, chiederemo il voto: Renzi dovrebbe avere una sensibilità politica un
po’ più all’altezza delle sue responsabilità».
Il Sole 30.10.16
Sulla legge elettorale schieramenti distanti
Cantiere
Italicum. Renzi non cede sul ballottaggio «anti-inciucio», Berlusconi
chiede il proporzionale e l’accordo «tra i due poli»
di Emilia Patta
«L’unica
direzione possibile di riforma elettorale è il ritorno al proporzionale
con una seria soglia di sbarramento. Se nessuno dovesse davvero
prevalere sarà necessario un accordo tra i due poli, come è avvenuto in
Germania in Spagna e in Austria». Eccolo, il “progetto” di Silvio
Berlusconi, affidato come ai tempi d’oro a Bruno Vespa per l’uscita del
suo ultimo libro dal titolo “C’eravamo tanto amati”. Attendere che vinca
il No, senza per altro fare una grande campagna elettorale, per poi
riproporre la grande coalizione con il Pd in funzione anti-Grillo.
Comprensibilmente l’ex premier, sapendo che il centrodestra al momento
non è competitivo al punto da sperare in una vittoria al ballottaggio
previsto dall’Italicum, cambia schema di gioco. Riproponendo per altro,
lui che ha sempre odiato collegi uninominali e preferenze, il sistema
delle liste bloccate. Ed è uno schema di gioco che non dispiace al
Movimento 5 stelle di Beppe Grillo. Che non a caso propone un modello
simile, il cosiddetto Toninellum dal nome del primo firmatario Danilo
Toninelli, ossia un proporzionale temperato in senso maggioritario
dall’introduzione di piccoli collegi sul modello spagnolo con l’effetto
di una soglia di sbarramento implicita dal 5 all’8 per cento: proprio
nel terreno politico dell’”inciucio” perenne tra centrodestra e
centrosinistra si nutre il voto “anticasta” e di protesta dei Cinque
stelle.
È esattamente per evitare lo schema che porta dritto alla
grande coalizione che Matteo Renzi, pur ribadendo la sua disponibilità a
modificare in alcuni punti l’Italicum, è fortemente restio a rinunciare
al ballottaggio. Unica garanzia in un sistema tripolale, a suo modo di
vedere, per avere un vincitore certo. E dunque a legarsi le mani ora a
una proposta di legge specifica, prima di conoscere il risultato del
referendum e le eventuali obiezioni della Consulta sull’Italicum. Per
questo la commissione del Pd messa su dallo stesso Renzi per tentare di
trovare una quadra innanzitutto nel Pd, commissione alla quale partecipa
Gianni Cuperlo a nome di tutta la sinistra, ha nei prossimi giorni un
compito difficilissimo.
Il premier in verità ha già dato per perso
il suo predecessore a Largo del Nazareno Pier Luigi Bersani e tutti i
parlamentari che a lui fanno riferimento, che sembrano aver imboccato la
via senza ritorno del No. Tanto meglio se Cuperlo, coccolatissimo dai
dirigenti del Pd e dalla piazza dei militanti, alla fine voterà Sì. Ma
le concessioni non possono andare oltre: sì a collegi sullo stile del
Provincellum per la scelta degli eletti (si tratta di collegi
uninominali con ripartizione proporzionale) e sì, per la gioia dei
centristi di Alfano, alla possibilità di apparentamento tra liste tra
primo e secondo turno. Ma da qui a cancellare la garanzia anti-inciucio
costituita dal ballottaggio ce ne passa. E di fronte al comprensibile
rifiuto delle altre forze politiche, a cominciare dal M5S e da Fi, di
affrontare prima del referendum la questione legge elettorale non ha
molto senso tradurre in atti parlamentari l’eventuale intesa che si
dovesse trovare nel Pd. Cuperlo da parte sua chiede un vero testo
depositato in Commissione Affari costituzionali. «Poi è evidente che il
tema si affronta dopo il referendum, ma serve che il Pd prenda una
posizione netta», spiega. Quanto ai contenuti della nuova legge
elettorale, per Cuperlo «il ballottaggio così com’è confligge con la
richiesta di molti compreso Matteo Orfini per un premio fisso e tale da
incentivare la governabilità ma senza uscire dal perimetro di un regime
parlamentare».
La prossima settimana, prima della Leopolda che
segnerà il vero inizio della campagna in favore del Sì del Pd e del
governo, la commissione dem chiuderà in un senso o nell’altro i suoi
lavori. Ma è chiaro che la scelta della sinistra è tutta politica: stare
dentro il Pd o prendere una strada che, anche al di là delle
intenzioni, porta fuori. E ieri Cuperlo, con la sua presenza in piazza,
ha dato il segnale di volere restare dentro.
Il Sole 30.10.16
Ma per allargare il consenso resta decisivo il tavolo dell’Italicum
di Paolo Pombeni
Complice
un clima che rimane sempre avvelenato, sembra che dall’ambiguità della
situazione si faccia fatica ad uscire. Tentiamo di leggere la “giornata
particolare” che ha impegnato ieri il Pd a Roma. Nello sforzo di
mostrare che il popolo della sinistra c’è e il segretario può
mobilitarlo come hanno fatto altri prima di lui, va individuato un primo
aspetto da non sottovalutare. L’ha riconosciuto anche Cuperlo quando ha
detto che non poteva mancare all’appuntamento per rispetto alla gente
del suo partito.
A questo popolo Renzi ha dichiarato di non volere
ammannire populismi, ma onestà vuole che si riconosca che non è
riuscito ad evitare di cadere nel vortice della polemica. Comprensibile
visto che lo si attacca su tutti i fronti, ma anche rischioso, perché
sembra sottoscrivere la tesi che per vincere in politica un appello agli
animal spirits della gente è sempre una carta vincente.
Non che
il linguaggio molto a punta non abbia toccato nodi reali: quando
rinfaccia alla vecchia classe dirigente di non consentire a quella nuova
di provare a scogliere quei nodi che essa non è stata capace di
sgarbugliare, può risultare urtante per gli attacchi alle persone, ma fa
una constatazione che la gente condivide quasi d’istinto.
Il
taglio dato alla “giornata particolare” del Pd non è stato solo quello
di un’operazione a sostegno del sì al referendum, perché il
segretario-premier ha voluto fare un discorso ad ampio raggio. Se lo si
comprende nella sua impostazione, il che magari nello strabordare delle
polemiche non viene facile, lancia un messaggio forte: si cambia
l’organizzazione dei sistemi di decisione politica perché c’è un
contesto complicato, economico, internazionale e sociale, per cui la
deriva consociativa su cui aveva da tempo deviato il sistema attuale non
funziona più. Non si tratta solo di accelerare astrattamente le
decisioni, che a volte possono anche richiedere qualche tempo di
riflessione, si tratta di mettere fuori gioco l’intrico dei poteri di
veto che consente di prendere decisioni solo se si possono accontentare
quasi tutti, anche quelli che pretendono cose che indeboliscono se non
vanificano le misure che si vorrebbero prendere.
Far comprendere
questo messaggio è tutt’altro che facile, ma in definitiva è su questo
fronte che si sta giocando la stessa partita della revisione della legge
elettorale. Su questo terreno sembra sia stato fatto un passo
importante da parte della leadership renziana: aver compreso che il
messaggio sul “combinato disposto” fra riforma costituzionale e Italicum
sta facendo molta presa fra la gente. Si può anche discutere quanto
quella percezione colga una realtà sul piano tecnico, ma rimane che i
tabù in politica giocano un ruolo anche quando sono costruiti su dei
castelli di aria.
È perciò positivo che si sia capito che, proprio
per dare credibilità al messaggio che individua come decisiva la sfida
attuale sulla riforma, diventa necessario puntare ad allargare il campo
del consenso non solo in direzione per così dire generica, ma anche
verso quegli ambienti dirigenti del Pd che non condividono la svolta
renziana. Offrire a loro, ma non solo a loro, la prova che non si vuole
mettere in piedi un risiko pur con l’obiettivo di avere un governo
stabile, ma che si punta ad individuare un meccanismo che raggiunga
quell’obiettivo in un quadro senza troppi azzardi, è una buona scelta.
Bisogna
però arrivare a concretizzare la proposta in un qualcosa che sia non
solo comprensibile nei suoi fini, ma impegnativo fin quasi ad essere
vincolante per chi lo propone. Dalla “giornata particolare” questo non è
ancora emerso, benché si lasci capire che si sarebbe sulla buona
strada. Esaurita con un certo successo la fase dell’esibizione, ci si
aspetta però che si passi in fretta a mettere sul tavolo il documento
che certifica l’avvio della nuova fase.
Il Sole 30.10.16
Intervista a Edward Bonham Carter vicepresidente Jupiter
«Ecco perché il referendum preoccupa gli investitori»
intervista di My.L.
«Ormai
la politica produce effetti limitati, e momentanei, sui mercati
finanziari. Ci sono però delle eccezioni, in cui eventi politici possono
avere impatti significativi: per esempio il referendum su Brexit e
quello sulla Costituzione italiana». Edward Bonham Carter,
vicepresidente della società di gestione di fondi britannica Jupiter,
con 44,5 miliardi di attivi in gestione, porta il pensiero di molti
investitori esteri: il referendum che si terrà in Italia il 4 dicembre è
una fonte profonda di preoccupazione per cui investe in Borsa.
Intende dire che il referendum italiano sia paragonabile in pericolosità per i mercati a quello su Brexit?
Non
fino a quel punto, ma può comunque avere un impatto forte. La domanda
che gli investitori si pongono, dall’estero, è: per cosa voteranno gli
italiani? Per una riforma costituzionale? Per o contro il Governo Renzi?
Oppure sul voto convergerà una più vasta protesta anti-sistemica, che
potrebbe usare il referendum come grimaldello per qualcosa di più
grande? Questa è la domanda. Per questo cresce l’ansia sui mercati:
perché la protesta anti-sistema sta portando protezionismo in molte
parti del mondo, dunque minore crescita economica. E grande incertezza. I
mercati, per di più, nel breve termine tendono a reagire con eccessiva
emotività: per cui un impatto credo che il referendum lo avrà.
Lei crede che in Europa stia emergendo un rischio politico nuovo, tale da colpire i mercati?
Io
penso al contrario che gli eventi politici, tranne alcune eccezioni,
siano sempre meno importanti sui mercati. Alcuni trend economici - come
la demografia, la crescita e i quantitative easing - contano molto di
più per chi investe. Ma la tornata elettorale americana ed europea, con
l’apice nel voto in Germania nel 2017, resta un evento importante: la
classe politica tradizionale sta infatti perdendo potere a favore di una
nuova classe anti-sistema o populista. Questo crea incertezza.
Voi, da investitori inglesi, come vi comportate in questo contesto?
Dato
che, come tutti, non conosciamo il futuro, ci siamo specializzati
nell’analisi approfondita delle aziende. Questa è la nostra strategia:
la scelta di aziende con buone prospettive.
Anche banche? Anche
italiane?
Siamo
molto poco esposti sull’intero settore in Europa. A noi piacciono
aziende con storie di crescita, mentre le banche hanno un problema di
redditività.
La Stampa 30.10.16
Manovra, è corsa contro il tempo
In aula La legge di Bilancio è arrivata in ritardo alla Camera dei deputati
Quirinale: “La Camera inizi l’esame”
Il
testo definitivo a Montecitorio, difficile l’approvazione entro il
referendum Nella relazione 3,4 miliardi di tagli. Stop all’aumento delle
accise sulla benzina
Con dieci giorni di ritardo la
legge di bilancio per il 2017 è stata depositata a Montecitorio. La nota
con cui il Quirinale ha vidimato il testo spiega molto del clima in cui
la bozza del governo inizia l’iter parlamentare. «La firma del decreto
fa in modo che le Camere possano essere subito investite della manovra».
Da qualche giorno nei palazzi è scattato l’allarme rosso: siamo ormai a
un mese dal 4 dicembre, il giorno in cui si voterà per il referendum
costituzionale. A lungo il Quirinale ha premuto su Palazzo Chigi perché
fosse scelta una data sufficientemente lontana per garantire
l’approvazione definitiva da parte di almeno uno dei due rami del
Parlamento: il timore è che un’eventuale vittoria del no inneschi
reazioni negative sui mercati e per i titoli di Stato.
Ora
calendario alla mano è difficile arrivare in tempo. E non solo per via
del ritardo nella definizione del testo: prima della legge di bilancio
c’è da approvare il decreto fiscale. Fonti della maggioranza danno per
improbabile persino l’approvazione di quest’ultimo, a meno di non
rivedere la prassi per cui nella settimana precedente un voto nazionale
il Parlamento non lavora. Dice il presidente della commissione Bilancio
Francesco Boccia: «Ce la possiamo fare ma ci vuole senso di
responsabilità dell’opposizione. Se si mettono a fare ostruzionismo...».
La tesi degli ottimisti è che la manovra potrebbe essere in aula il 24
novembre, ma come se la Commissione lavorerà questa settimana e parte
della prossima al decreto? Raccontano i ben informati che il Quirinale,
pur di fare in fretta, ha evitato la correzione di alcuni errori
formali, rinviando la soluzione al Parlamento.
La relazione
tecnica che accompagna la manovra offre qualche dettaglio in più su un
testo complesso e in parte spacchettato nel decreto fiscale. Nel 2017 i
ministeri dovranno rinunciare a quasi 738 milioni di euro e sono
previsti tagli di spese già programmate per circa 2,6 miliardi: in tutto
3,4 miliardi. Per evitare le censure dell’Europa circa quattro miliardi
di una tantum sono finite nel decreto, nella speranza di convincere la
Commissione ad approvare una manovra che si finanzia in gran parte in
deficit.
Per evitare lo scontro con il Parlamento, il governo ha
cambiato la clausola di salvaguardia che prevedeva aumenti di accise
sulla benzina nel caso in cui il gettito della nuova sanatoria sui
capitali non raggiungesse gli 1,6 miliardi di euro. «Se arriva una norma
così la bocciamo», aveva avvertito Boccia: la riforma della legge di
bilancio vieta esplicitamente norme di quel tipo. Ora il testo
definitivo scrive che i minori incassi verranno eventualmente coperti
con tagli da decidere entro il 30 settembre 2017, previa delibera del
Consiglio dei ministri entro il 31 agosto. Restano le clausole sull’Iva
che il Tesoro considera compatibili con la nuova legge di bilancio,
perché non direttamente correlate ad altre misure: dunque, a meno di non
sterilizzarle come quest’anno, nel 2018 l’Iva al 10 per cento salirà al
13 e quella al 22 fino al 25. Secondo Boccia anche queste clausole
sarebbero illegittime. La battaglia è aperta.
[a. ba.]
Corriere 30.10.16
La legge di Bilancio
Trattare i papà come genitori di serie b non conviene a nessuno
di Rita Querzé
Papà
a termine. Per un anno, e poi si vedrà. Davvero funziona così?
Assolutamente no, papà lo sei per sempre, e fin dal primo giorno. Gli
uomini e le donne lo sanno. Non lo sa però la legge di Bilancio. Che per
il 2017 riconferma solo per un anno i due giorni di paternità
obbligatoria pagati al 100% alla nascita di un figlio. Tra meno di 12
mesi tutto tornerà in discussione.
L’incertezza non aiuta le
famiglie. Molti papà non sanno dell’esistenza di questa opportunità.
Così al posto del congedo utilizzano le ferie. La beffa è che lo scarso
utilizzo del congedo di paternità è usato come alibi per non investire
sulla misura. Non solo la proposta di legge sull’aumento a 15 dei giorni
di paternità obbligatoria è rimasta finora sulla carta: persino la
conferma per il 2017 del congedo a due giorni è stata in bilico fino
all’ultimo.
Ma la più efficace dimostrazione di come il congedo
obbligatorio dei papà sia un diritto ancora più formale che nella
sostanza la si ha nel pubblico impiego. I dipendenti della pubblica
amministrazione i due giorni di paternità non li hanno mai potuti
sfruttare. Colpa di una circolare attuativa mancante. E pensare che il
congedo di paternità obbligatorio è stato istituito nel 2012: quattro
anni dovrebbero bastare per mettere a regime una norma.
Le cose
non vanno meglio quando si considera il cosiddetto «congedo parentale»:
per i papà fino a sette mesi di assenza pagati al 30%. Anche qui il
trattamento è equo solo in apparenza. Il pagamento al 30% è garantito
per 6 mesi di congedo per il nucleo familiare. Quando la madre torna al
lavoro il papà spesso può sì assentarsi, ma pagato zero. Senza contare
che in famiglia di solito sfrutta il congedo chi ha lo stipendio più
basso. Quindi le mamme.
A conti fatti, continuare a considerare i
papà genitori di serie B aiuta (poco) il bilancio dello Stato. E
penalizza (tanto) gli uomini. E altrettanto le donne.
Corriere 30.10.16
La mossa dell’Italia sui migranti: sanzioni agli Stati che non accolgono
di Francesco Verderami
Emergenza
migratoria e ricollocamenti, regole comunitarie violate a danno
dell’Italia. Il ministro Angelino Alfano prefigura «un passo formale del
governo verso la Commissione», perché Bruxelles imponga agli Stati Ue
il rispetto degli accordi o li sanzioni. Intanto il governo apre il
fronte dei conti per l’accoglienza: «Subito 50 milioni».
ROMA
Le cifre sull’emergenza migratoria testimoniano la violazione delle
regole comunitarie a danno dell’Italia. E i numeri sul ricollocamento
dei richiedenti asilo smascherano l’ipocrita solidarismo dell’Unione
verso Roma. Nei documenti redatti dal Viminale il ministro dell’Interno
legge non solo «le ragioni della crisi dell’Europa» ma anche «la
minaccia dell’interesse nazionale». Ecco cosa spinge Alfano a
prefigurare — in assenza di novità sostanziali — «un passo formale del
governo verso la Commissione», perché Bruxelles imponga agli Stati Ue il
rispetto degli accordi presi. O li sanzioni in base ai poteri
attribuitele dai Trattati.
Per l’Italia «non è accettabile» che
continuino a restare disattese le «Decisioni» numero 1523 e 1601 con le
quali i partner europei si erano impegnati ad accogliere «per quota» una
parte di migranti approdati sul territorio nazionale. «Non è
accettabile» che su 47.857 richiedenti asilo da trasferire in altri
Paesi comunitari ne siano stati finora ricollocati solo 1.392. «Ancor
più grave che negare la solidarietà è assicurare la solidarietà e poi
negarla», commenta il titolare del Viminale scorrendo la black-list
degli inadempienti.
Nell’atto d’accusa sono compresi tutti gli
Stati dell’Unione, dato che nessuno ha tenuto fede alla «solenne
promessa» fatta nella primavera del 2015, all’indomani dell’ennesima
strage di innocenti nel Mediterraneo. Allora i leader europei si
strinsero al fianco dell’Italia, «allora — ricorda il ministro
dell’Interno — ci venne offerta la solidarietà in cambio di gesti di
responsabilità. Dicevano: “Noi ci faremo carico di una parte dei
migranti ma voi dovrete organizzare gli hotspot, prendere le impronte
digitali, sigillare le frontiere...”. Quanto dovevamo fare, noi
l’abbiamo fatto. Loro invece ci hanno voltato le spalle».
Di
fronte a questi gesti, anche chi — come Alfano — sostiene di essere
«cresciuto nell’ideale europeista», vede «messo a dura prova» il proprio
credo: «Questa non è l’Europa che sognavamo». Non aleggiava certo lo
spirito europeista di Adenauer o di Schumann all’ultimo vertice dove si è
parlato di immigrazione, se è vero che l’ungherese Orbán prima ha
attaccato violentemente Juncker, poi si è allontanato: «Devo andare in
bagno». Malgrado questo clima il governo italiano «non smette di
operare», nel salvataggio in mare come nella gestione a terra dei
migranti. «Non è un video-game», cerca di far capire il ministro
dell’Interno: «Quotidianamente impegniamo uomini e risorse, tra il
dramma di chi arriva e le sofferenze dei nostri concittadini».
Il
fatto che, per tutta risposta, non solo Roma sia rimasta sotto
l’osservazione di occhiuti burocrati di Bruxelles, ma sia stata «persino
messa all’indice per lo 0,1 del bilancio», ha provocato la reazione.
Così il responsabile del Viminale ha chiesto ai suoi uffici uno studio
in tempo reale sul ricollocamento. E siccome ad oggi i partner
dell’Unione non hanno accolto «nemmeno il 3%» dei migranti stabiliti
dalle quote, si è convinto che «è l’ora di porre un limite»: «Bisogna
essere chiari con gli altri Paesi e con Bruxelles. Il problema non è lo
sforamento di un decimale nei conti di uno Stato che deve ovviare a
un’emergenza. Il problema è il clamoroso e collettivo inadempimento
davanti a una emergenza, che lascia presagire l’inaffidabilità
dell’Europa».
Di qui la decisione di mettere l’Unione dinnanzi
alle proprie responsabilità: «L’Italia con il suo impegno sta salvando
l’Europa, ma il governo deve e vuole difendere anche l’interesse
nazionale». Perciò Alfano ritiene che l’esecutivo debba prepararsi a
chiedere formalmente alla Commissione una «verifica sullo stato di
attuazione delle Decisioni assunte a livello europeo per il
ricollocamento dei richiedenti asilo». Tradotto dal linguaggio tecnico è
una mossa che prepara la richiesta di apertura di una procedura
d’infrazione per gli Stati inadempienti.
Secondo i Trattati,
spetta alla Commissione vigilare sul rispetto delle regole. Nel caso la
Commissione abbia notizia di una violazione, può procedere d’ufficio.
Finora non s’è mossa, ma potrebbe essere «attivata» da un governo
nazionale attraverso una «formale segnalazione». A quel punto
spetterebbe a Bruxelles avviare la verifica e imporre agli Stati membri
di ottemperare all’impegno, pena una successiva sanzione. Ovviamente la
Commissione dovrebbe stabilire se c’è stata inadempienza, e sul
ricollocamento dei migranti i documenti del Viminale non lasciano adito a
dubbi.
«Purtroppo mancano gli strumenti giuridici», aggiunge con
ironia mista ad amarezza Alfano: «Visto l’andazzo, noi dovremmo chiedere
una procedura d’infrazione contro l’Europa. Dato che non si può fare,
speriamo almeno che l’Europa si adoperi contro se stessa per mancata
vigilanza». La prospettiva di avviare la procedura sulla disattesa
applicazione delle Decisioni è un ulteriore (e diverso) strumento di
pressione su Bruxelles e sui partner, rispetto all’ipotesi avanzata da
Renzi di porre il veto sul bilancio europeo. Ma tanto il premier quanto
il ministro dell’Interno si muovono con lo stesso intendimento: «Salvare
l’Europa e difendere l’interesse nazionale».
Corriere 30.10.16
Se l’immigrazione fa aumentare il Pil
di Danilo Taino
Non
saranno le statistiche a risolvere le dispute e gli scontri
sull’immigrazione. Se così fosse, la questione sarebbe in gran parte
risolta. Uno studio pubblicato dal Fondo monetario internazionale ha
cercato di stabilire le conseguenze dell’immigrazione sul Pil pro capite
nei Paesi più sviluppati, in sostanza sugli standard di vita. Il
risultato più notevole è che, nel medio-lungo periodo, un aumento degli
immigrati pari all’ 1% della popolazione adulta di un Paese accresce il
Pil pro capite generale di almeno il 2% . Avviene, in parte, perché i
migranti sono di solito più giovani della media dei cittadini delle
Nazioni ricche e quindi fanno salire la quota di persone in età da
lavoro; soprattutto, però, avviene perché migliora la produttività, in
quanto spinge i nativi a occupare lavori più specializzati.
Una
delle conclusioni interessanti dello studio dell’Fmi (che utilizza un
approccio sviluppato in anni recenti da Alberto Alesina, Johann Harnoss e
Hillel Rapoport) è che, a differenza di quanto in genere si pensa, il
grado di istruzione degli immigrati non è l’elemento determinante per
giudicarne l’effetto su un’economia. Per esempio, migranti con minori
competenze spesso aumentano il numero di donne native che lavorano, in
quanto vanno a sostituirle nelle prestazioni di assistenza famigliare.
Inoltre, i benefici di più immigrati tendono a distribuirsi su tutta la
scala sociale, anche se non allo stesso modo: per un 1% di aumento della
quota di immigrati ad alta istruzione sulla popolazione, il reddito pro
capite aumenta di quasi il 6% per il 10% più ricco dei residenti e di
quasi il 2,5% per il restante 90% ; se l’aumento dell’ 1% della quota è
composto invece da persone di istruzione media o bassa, il reddito pro
capite cresce del 2,5% per il 10% più ricco dei locali e del 2,2% per il
restante 90% . Interessante notare che i migranti hanno livelli di
competenza sempre più alti. Tra il 1980 e il 2010, i meno istruiti in
arrivo sono restati di fatto stabili, anzi leggermente in calo, attorno
al 5% della popolazione. I mediamente istruiti sono saliti dal 2% al
4,5% . E i più istruiti dal 2 al 5,7% (hanno superato la quota di chi ha
basse competenze a metà del decennio scorso). Tutto questo è una media
tra Paesi. Decisive perché i vantaggi si concretizzino sono le politiche
di integrazione nel mercato del lavoro. Su questo sarebbe bene che i
governi si concentrassero.
Corriere 30.10.16
Saltano i fondi per liquidare Expo
A rischio il progetto del campus
di Andrea Senesi e Elisabetta Soglio
Finanziamenti spariti dalla Finanziaria. «Così la società andrà in fallimento»
MILANO
Saltano i fondi per la liquidazione di Expo e per la società che ha
gestito l’evento mondiale del 2015 c’è ora il rischio di dover portare i
libri in tribunale. È lo schiaffo a Milano firmato dal governo Renzi,
che nell’ultimissima versione della legge di Stabilità ha stravolto i
due articoli, il 20 e l’81, che stabilivano i finanziamenti destinati al
post-Esposizione. Oltre ai nove milioni di euro per ricapitalizzare la
società in vista della progressiva dismissione, sono «spariti» gli altri
otto inizialmente previsti per l’avvio del trasloco delle facoltà
scientifiche della Statale sull’area di Rho—Pero. Non è stato invece
toccato l’altro passaggio della manovra, quello che istituisce la
creazione di Human Technopole e che potrà contare su una dotazione
iniziale di 10 milioni di euro.
Consolazione parzialissima, però,
di fronte all’allarme per la cancellazione del fondo per Expo spa.
Perché quei 9,4 milioni di euro sono più che mai necessari al pagamento
dei dipendenti, alle spese legali e agli arbitrati ancora da affrontare e
alla conclusione delle transazioni con aziende e fornitori. Senza quei
soldi — è l’allarme che lanciano Comune e Regione, i soci istituzionali —
il rischio fallimento è dietro l’angolo. Non solo: era stata concordata
col ministero la nomina di un commissario unico liquidatore individuato
nella persona di Gianni Confalonieri, uomo di fiducia di Beppe Sala. E
anche su questo passaggio oggi non c’è più certezza.
L’ipotesi più
immediata è che Expo non riesca a chiudere i propri conti. L’altro
capitolo riguarda Arexpo, la società che dovrà gestire il post-evento:la
prossima assemblea, già fissata per novembre, avrebbe dovuto ratificare
l’ingresso ufficiale del governo nella compagine e dare vita alla nuova
governance . Nonostante il lavoro di tessitura del ministro Maurizio
Martina e a dispetto delle numerose passerelle del premier a Milano,
rischia di saltare tutto. E rischia anche di riaprirsi il braccio di
ferro con la Statale, dal momento che il rettore Gianluca Vago ha più
volte dichiarato che senza la copertura del governo l’intera operazione
di trasloco sarebbe stata messa in forse.
E ora? C’è chi assicura
che i provvedimenti saltati saranno comunque recuperati attraverso il
maxiemendamento alla legge di bilancio o inseriti nel decreto fiscale
già incardinato in Parlamento. Per quanto riguarda il campus
universitario l’intenzione potrebbe essere quella di raccogliere tutte
le risorse necessarie al finanziamento (120-130 milioni di euro) nel
Patto Lombardia su cui sono al lavoro governo e Regione. In ogni caso,
dopo che la notizia dello stralcio dei due articoli della manovra ha
preso a circolare, è immediatamente ricominciato il giro di telefonate
tra il ministro Martina e Claudio De Vincenti. Il sottosegretario alla
presidenza del Consiglio avrebbe fornito le prime garanzie sul fatto che
i soldi per il campus e per la liquidazione di Expo verranno recuperati
con un nuovo emendamento.
In Comune e in Regione rimane però lo
sconcerto (e pure una certa dose di scetticismo). Lo stesso Confalonieri
si dice «esterefatto, perché si tratta di un fatto molto grave che
mette a rischio il futuro della società in liquidazione. Ora dobbiamo
ragionare per capire cosa fare e come muoverci».
Corriere 30.10.16
Tetto da 240 mila euro per le star tv
È previsto dalla nuova legge sull’editoria, dubbi interpretativi
l vertici Rai: ma così chiudiamo
di Giovanna Cavalli
ROMA
Il tetto (agli stipendi) che scotta. Eccome, ora che a viale Mazzini si
fa strada l’idea che possa valere non solo per i dirigenti, ma anche
per le star della tv pubblica. Se ne parlerà parecchio al cda del 9
novembre. Nel frattempo l’ad Antonio Campo Dall’Orto ha scritto al
ministero dell’Economia per conoscere l’opinione dell’azionista di
riferimento (risposta non ancora pervenuta) e chiesto un parere a uno
studio legale di Milano. Responso: la norma non si applica alle risorse
artistiche.
Tutto parte dell’articolo 9 della legge sull’editoria,
pubblicata domani sulla Gazzetta ufficiale , che dice (e non dice)
così: «Il trattamento economico di dipendenti, collaboratori e
consulenti Rai, la cui prestazione professionale non sia stabilita da
tariffe regolamentate, non può superare i 240 mila euro annui».
A
parte escludere il ricorso ai bond come scappatoia, la norma non
aggiunge altro. Un sì o un no che, pure qui, fanno moltissima
differenza. Per conduttori, attori, soubrette & co., abituati a
cachet di ben altra sostanza. E per la Rai che, con il calmiere di
Stato, verrebbe penalizzata nei confronti della concorrenza, libera di
offrire di più: «Per noi sarebbe finita», profetizzano drastici dai
piani alti. «Questo accanimento ci porterà alla chiusura».
Su cosa
invece intendesse il legislatore, il senatore del Pd Francesco
Verducci, che ha partecipato alla stesura della legge, toglie ogni
dubbio: «Il tetto vale per chiunque abbia un contratto diretto con la
Rai. Quindi anche per gli artisti. Non è un provvedimento punitivo, ma
una regola virtuosa che la uniforma alle altre aziende e che, a caduta,
condizionerà virtuosamente tutto il sistema radiotelevisivo».
Non
che lo show-business aspiri alla parsimonia. «Se dovesse prevalere
questa interpretazione, saremmo di fronte a un caso di
incostituzionalità», spiega l’avvocato Giorgio Assumma, esperto di
diritto dello Spettacolo, ex presidente Siae, già subissato dalle
telefonate di star in ambasce da ristrettezze. «La Rai verrebbe privata
del potere contrattuale, svantaggiata sul mercato nei confronti della
concorrenza. Un fatto gravissimo, che potrebbe decretarne la crisi
irreversibile». E prevede dove si andrà a parare per aggirare la legge:
«Si ricorrerà sempre di più ad appalti esterni, in cui è il produttore a
pagare il compenso dell’artista».
Avverte il consigliere Rai di
maggioranza Franco Siddi che «il tema della moderazione dei compensi va
affrontato ma il limite dei 240 mila euro è un handicap importante». Nel
dubbio, però, intanto si fa come dice la legge: «Contro la norma certo
non ci andremo, la prudenza sarà d’obbligo, non vorremmo dover
rispondere di tasca nostra per garantire gli stipendi d’oro ai vari
Conti, Giletti, Clerici e compagnia». Concorda il collega di opposizione
Arturo Diaconale (che con Giancarlo Mazzuca e Paolo Messa ha scritto al
ministero dell’Economia per sapere «che fine hanno fatto i rilievi
dell’Anticorruzione sulle nomine»): «Il rischio impone una
interpretazione radicale. Ma questa norma populista e demagogica rischia
di uccidere la Rai».