MONDO
Repubblica 30.10.16
La sfida dei socialisti
di Piero Ignazi
LA
CRISI che i partiti socialisti attraversano in tutta Europa, raccontata
venerdì su Repubblica, è passeggera o segnala la fine di un ciclo
storico? Non dovremmo stupirci se questa seconda ipotesi si avverasse.
In fondo anche i partiti cristiano-democratici, un tempo dominanti nel
cuore dell’Europa, si sono ora ridotti a poca cosa. Solo in Germania,
grazie ad una virata in senso conservatore operata già alla fine degli
anni Settanta, resiste ancora un partito di antiche radici
confessionali, la Cdu di Angela Merkel. Questo partito ha mantenuto, e
persino accresciuto in alcune fasi, il suo peso perché ha diluito il
connotato religioso ormai incapace di convogliare consensi di massa ma,
allo stesso tempo, non ha abbandonato i suoi referenti sociali
privilegiati, agricoltori, lavoratori autonomi e piccola borghesia. Se
un fattore identitario, come quello religioso, scoloriva, in compenso
rimanevano saldi i riferimenti sociali, e i loro interessi venivano
difesi senza esitazioni.
I partiti socialisti hanno seguito una
traiettoria diversa. Anch’essi hanno annacquato gli ideali fondativi
sostituendo la trasformazione radicale dei rapporti di produzione con la
promozione del Welfare State. E fin qui tutto è andato liscio. Poi
hanno fatto un passo nel campo del nemico accettando in pieno le logiche
del mercato. Grazie a questa mossa coraggiosa sono riusciti a
convogliare consensi di settori della borghesia prima restii ad
appoggiare i partiti della “sinistra di classe”. Infine, terzo passaggio
cruciale che spiega il loro successo negli ultimi decenni del secolo
scorso, hanno anche sposato in toto i diritti individuali, assumendo
quella nuova agenda “post-materialista” che privilegia la qualità della
vita più che il benessere materiale.
I partiti socialisti
pensavano così di avere rintuzzato sia l’offensiva del
neo-conservatorismo, sia la sfida dei movimenti verdi ed ecologisti. La
capacità di muoversi promuovendo politiche pro-market e politiche
libertarie portava sulle sponde dei socialisti le componenti più
istruite, benestanti e liberal della società. Il periodo d’oro della
socialdemocrazia europea si realizza proprio quando queste nuove
acquisizioni convivono sotto lo stesso manto con la tradizionale classe
operaia. Solo che questo equilibrismo non è durato molto.
Ad un
certo punto i socialisti hanno cominciato a perdere il consenso delle
classi sottoprivilegiate in genere. Questo perché avevano diluito troppo
la loro identità e, allo stesso tempo, non avevano più difeso con
vigore quegli interessi. Il distacco delle componenti operaie è stato
rapido, massiccio e traumatico. In pochi anni milioni di voti sono
transitati dalla sinistra alla destra estrema. Si sono sentiti
abbandonati ed esclusi. Ancor peggio: si sono sentiti traditi perché i
loro vecchi partiti si occupavano di “compiacere i mercati” smantellando
pezzi di welfare e limando conquiste sociali. E per questo hanno scelto
l’alternativa più radicale che offre loro un surrogato di identità
sotto specie di comunità nazionale e, priva di ogni freno, offre mari e
monti. Bastava aver assistito al dibattito tra l’ex ministro
dell’Economia francese Emmanuel Macron e il pur attrezzato numero due
del Front National francese Florian Philippot per capire come i
populisti di Marine Le Pen raccontino favole irrealistiche quanto
seducenti per chi ha perso speranza.
Oggi tutti i partiti di
sinistra, Pd compreso, si confrontano con questa sfida epocale. Forse
subiranno un ridimensionamento irreversibile, forse riusciranno a
riconquistare il loro antico elettorato. Una via possibile passa dal
riportare al centro della politica il tema della giustizia e dell’equità
sociale, cercando così di riannodare i fili con quei settori della
società che si sentono alla deriva, traditi dai loro storici difensori.
Altrimenti sarà difficile evitare che costoro vadano ad ingrossare le
file del risentimento e i consensi dei populisti di destra.
Corriere 30.10.16
L’assistente, il marito infedele e il poliziotto
Il terzetto che rischia di affossare Hillary
di Massimo Gaggi
NEW
YORK «Oh mio Dio, ancora questo Weiner» sospira il vicepresidente Joe
Biden intervistato dalla Cnn sulla riapertura delle indagini dell’FBI
sull’«Emailgate» che mette spalle al muro Hillary Clinton a dieci giorni
dal voto per la Casa Bianca. Quella della ex First Lady con Huma Abedin
e con il suo (ormai ex) marito Anthony Weiner è una storia che può
alimentare una straordinaria rappresentazione teatrale: bisogna solo
scegliere tra commedia, farsa e tragedia.
Hillary, che sicuramente
ha commesso gravi errori di suo, rischia ora la presidenza per effetto
delle intemperanze sessuali e i comportamenti estremamente avventati di
un uomo che lei stessa aveva spinto, molti anni fa, tra le braccia della
sua assistente prediletta, Huma: una donna che è al suo fianco da 21
anni e che lei considera una seconda figlia. Ma che, a quanto pare, ha
tradito la sua fiducia lasciando che migliaia delle sue mail, comprese
quelle relative all’attività sua e della ex First Lady al Dipartimento
di Stato, finissero negli account e, quindi, nei computer personali del
suo disgraziatissimo marito.
Tutto iniziò una quindicina d’anni
fa, come una bella favola. Weiner, allora rampante deputato democratico,
andò a trovare Hillary che aveva da poco lasciato la Casa Bianca.
Accanto a lei, come durante la presidenza di Bill, c’era Huma, che aveva
cominciato a lavorare per i Clinton da stagista. Weiner la invita fuori
per un drink. Huma fa segno di no con la testa, ma Hillary la
incoraggia: «Certo che devi andare». Corteggiamento lungo: solo nel 2007
lei mostra di apprezzare Anthony, e solo perché lui si schiera con
Hillary e non con Obama per la presidenza. I due si sposano nel 2010,
celebra Bill Clinton. Lui ebreo, lei musulmana per nulla dogmatica nata
in Michigan ma cresciuta in Arabia Saudita coi genitori indopachistani.
Una coppia bella, felice e potente: la rappresentazione
dell’integrazione di religioni e culture della quale l’America vorrebbe
essere l’incarnazione.
La serenità dura poco: il demone
dell’esibizionismo sessuale che divora Weiner lo costringe a dimettersi
da membro del Congresso, dopo che le foto di sue parti anatomiche, pene
compreso, scambiate con sei donne su Twitter, arrivano ai giornali.
Carriera
politica finita e matrimonio che traballa. Ma Huma lo perdona e Hillary
l’appoggia. Due anni dopo, secondo scandalo: Weiner ci ricasca mentre
cerca di ricostruire la sua carriera correndo per la carica di sindaco
di New York. Stavolta usa uno pseudonimo, Carlos Danger, ma serve a
poco: di nuovo sbugiardato dalla stampa.
Stavolta ha chiuso con la
politica, e anche il matrimonio sembra finito. Ma c’è di mezzo un bimbo
nato da poco. Huma ci pensa a lungo. Poi decide ancora una volta di
restare al suo fianco. Hillary accetta di nuovo la sua decisione
nonostante la situazione chiaramente rischiosa e i danni di immagine che
comporta.
Solidarietà tra donne umiliate dalle trasgressioni dei
rispettivi mariti, sostengono i «buonisti». Tendenza da capobranco dei
Clinton che cercano di difendere sempre e comunque i membri del loro
clan, replicano altri, più disincantati. E poi ci sono i maliziosi,
secondo i quali, con l’esperienza quadriennale al Dipartimento di Stato
ormai alle spalle, Huma sapeva troppo: non poteva più essere lasciata al
suo destino.
Le ultime pagine della storia sono dei mesi scorsi.
Huma ormai non è più vista come una mite assistente. È vicepresidente
della campagna elettorale, il potere che ha acquistato stando sempre al
fianco di Hillary l’ha resa invisa a molti e la sua immagine è stata
compromessa dallo scandalo dei pagamenti multipli: retribuita
simultaneamente dal Dipartimento di Stato, dalla Fondazione Clinton e da
Teneo, una società di consulenza di Douglas Band, ex consigliere di
Bill alla Casa Bianca e vecchio amico di famiglia.
Ad agosto, due
mesi fa, Weiner cade ancora: stavolta le foto scambiate online finiscono
sul New York Post . Anthony riprende il suo inguine. È steso a letto e
al suo fianco c’è il figlio di quattro anni. È troppo: Huma annuncia il
divorzio. Ancora un mese: a fine settembre il Daily Mail racconta che
Weiner è stato sorpreso di nuovo a scambiare foto con una ragazzina del
North Carolina.
La storia scompare quasi subito dai giornali: Huma
l’ha abbandonato, Anthony è un uomo alla deriva. Ma, in realtà, è
questo il caso che provoca la deflagrazione: la ragazzina in questione è
una minorenne, ha 15 anni.
C’è di mezzo, quindi, un reato: l’FBI
si mette a indagare. Weiner deve consegnare i suoi computer dai quali
saltano fuori migliaia di email «sospette».
Giovedì sera gli
investigatori si presentano dal loro capo e così sul palco di questa
tragicommedia sale il terzo protagonista: James Comey, il repubblicano
apprezzato dai democratici che Barack Obama ha messo a capo della
polizia federale. Trattato da traditore dal suo partito quando chiuse
l’inchiesta «Emailgate» senza incriminare la Clinton, diventa l’eroe di
Trump ora che ha deciso di riaprirla a una manciata di giorni dal voto.
La Stampa 30.10.16
Su Hillary l’ombra di reati nelle mail nascoste all’Fbi
La candidata non rivelò l’esistenza dei testi. Rischia l’accusa di spergiuro
L’indagine si allarga. I democratici: “Comey spieghi, così viola la legge”
di Paolo Mastrolilli
Le
mail al centro della nuova inchiesta su Hillary Clinton erano contenute
in apparecchi che i suoi avvocati non avevano neppure denunciato
nell’indagine precedente chiusa a luglio. Quindi possono portare
all’individuazione di altri reati finora non considerati, come
l’ostruzione della giustizia e la falsa testimonianza. Lo rivelano a «La
Stampa» fonti direttamente informate sull’inchiesta, aggiungendo che il
direttore Comey non avrebbe mandato la lettera al Congresso senza aver
visto le mail.
Le migliaia di documenti si trovavano su un iPad,
un cellulare e un computer Dell condiviso da Huma Abedin, storico
braccio destro di Hillary, e dal suo ex marito Anthony Weiner, ora
indagato perché aveva inviato messaggi di natura sessuale ad una ragazza
quindicenne della North Carolina. Analizzando gli apparecchi
sequestrati il 3 ottobre per questa inchiesta, gli agenti dell’Fbi hanno
trovato le nuove mail. Durante l’indagine sul server privato di Clinton
chiusa a luglio, i suoi avvocati non avevano denunciato l’esistenza di
questi strumenti. I motivi, secondo le nostre fonti, possono essere solo
due: o non sapevano che esistevano, o volevano nasconderli. In entrambi
i casi, la loro scoperta porta ora l’inchiesta in direzioni impreviste e
imprevedibili.
Il secondo problema grave per Hillary è che lo
scopo dell’indagine adesso si allarga. La precedente era concentrata
sulle violazioni nella gestione delle informazioni classificate del
governo, che non dovevano transitare su un server privato. Alla fine
Comey ha stabilito che Clinton e i suoi collaboratori si erano
comportati in maniera «estremamente irresponsabile», ma non avevano
commesso reati. Ora l’obiettivo cambia. Gli agenti dell’Fbi stanno
controllando le mail per verificare se sul computer privato di Abedin e
Weiner sono finiti documenti segreti, ma non si fermeranno qui. Huma è
la collaboratrice più stretta di Hillary, e quindi è possibile che nella
posta sequestrata ci siano anche comunicazioni personali e dirette.
Questi scambi potrebbero contenere informazioni riguardo al modo in cui
la campagna di Clinton intendeva gestire lo scandalo mail, magari
ostruendo il corso della giustizia. Per fare un esempio, indicazioni sui
circa 30.000 messaggi distrutti e mai consegnati all’Fbi. Cosa
contenevano? Come e perché sono stati eliminati?
I nuovi documenti
potrebbero anche provare che l’ignoranza professata da Hillary durante
gli interrogatori del Bureau sul contenuto di alcune mail, la loro
classificazione segreta, e la loro distruzione, era falsa. Se questo
apparisse evidente nelle comunicazioni fra lei e Huma, si potrebbe
configurare il nuovo reato di spergiuro, cioè lo stesso per cui Bill
Clinton aveva subito l’impeachment della Camera durante lo scandalo
Lewinsky.
In entrambi i casi l’inchiesta prenderebbe una direzione
completamente nuova, che potrebbe portare al nulla, ma anche
all’incriminazione del presidente, se dopo la sua elezione l’8 novembre
l’Fbi arrivasse alla conclusione che Hillary ha violato la legge. Un
incubo per gli Usa, che si ritroverebbero nel pieno di una crisi
costituzionale, col capo della Casa Bianca portato a processo da
un’agenzia alle sue dipendenze. Le fonti aggiungono che Comey non
avrebbe mai mandato la sua lettera al Congresso se non avesse già visto
almeno in parte le mail e verificato che contengono informazioni di
potenziale natura criminale.
La campagna di Clinton ieri ha
risposto con una conference call a cui hanno partecipato il presidente
John Podesta e il manager Robby Mook. John ha accusato «Comey, un
repubblicano, di aver preso un’iniziativa senza precedenti, che viola le
pratiche dell’Fbi sulle inchieste in corso, ed è contro le
raccomandazioni del ministro della Giustizia. Ora ha il dovere di
spiegare agli americani il motivo». Lo stesso Comey ha ammesso in un
messaggio ai dipendenti di aver compiuto il passo inusuale di commentare
un’inchiesta in corso perché è legata alle presidenziali, e così si è
esposto al sospetto di un complotto politico. Podesta lo sfida perché è
sicuro che «le nuove mail non contengono nulla che provi reati. Molte
sarebbero solo duplicati di messaggi che l’Fbi aveva già visto», e
Abedin li aveva inviati sul suo computer personale per stamparli: «Huma
non ha fatto nulla di male e non si dimetterà». Hillary quindi ha deciso
di reagire andando all’attacco, ma un sondaggio pubblicato ieri dal
Washington Post, fatto prima dell’annuncio di Comey, la dà solo 2 punti
avanti a Trump. La corsa alla Casa Bianca è riaperta.
La Stampa 30.10.16
La campagna delle sorprese frena Hillary
di Maurizio Molinari
Le
rivelazioni sull’Fbi sulle email di Hillary Clinton confermano che
l’attuale sfida per la Casa Bianca passerà agli annali come la campagna
delle sorprese.
Tradizione vuole che sia la «sorpresa d’ottobre» a
poter essere decisiva sull’esito del duello per lo Studio Ovale, ma in
questa occasione è andata diversamente perché le sorprese hanno
accompagnato la sfida sin dalle primarie in Iowa. L’incapacità
dell’establishment repubblicano di unirsi attorno ad un candidato, il
successo dell’outsider Donald Trump nel polverizzare i concorrenti
conservatori, l’affermarsi di un popolo della rivolta che sfugge ai
sondaggi, il successo del settantenne Bernie Sanders nel rappresentare
la voglia di novità dei giovani progressisti e il giallo sulla salute di
Hillary Clinton hanno accompagnato elettori ed analisti sulle montagne
russe di una campagna elettorale che in agosto aveva la candidata
democratica in solido vantaggio ed in settembre registrava il recupero
del rivale repubblicano, fino ad pareggio statistico.
I tre
dibattiti televisivi hanno giovato a Hillary, più presidenziale e
preparata di Trump, ma ora la nuova indagine degli agenti federali sulle
email dell’ex Segretario di Stato - sospettata di aver violato le norme
sul top secret - fa percepire agli americani che la sfida torna ad
essere aperta. Per comprendere il perché di tale sentimento collettivo
bisogna partire dal paradosso registrato nella seconda metà di ottobre.
Trump è uscito dai dibattiti non solo sconfitto, ma travolto da
scandali, rivelazioni ed errori da cui non si è saputo difendere, con un
team elettorale bersagliato dalle defezioni, dalla carenza di donazioni
- incluse quelle della sua stessa Fondazione - e quindi dalla
diminuzione degli spot tv negli Stati in bilico, ovvero l’arma
strategica per corteggiare gli indecisi. Nonostante tali e tanti
indicatori negativi - a fronte di una campagna di Hillary ricolma di
dollari, corteggiata dall’establishment bipartisan e pressoché senza
avversari sui media - Trump ha continuato ad avere in tutti i sondaggi
una quota minima di popolarità del 40 per cento di favori. Ciò significa
che per una parte importante dell’elettorato - in gran parte bianco -
tutti i parametri tradizionali delle elezioni americani non valgono. Da
qui il timore del team di Hillary, guidato da un mastino di Washington
come John Podesta, che la decisione dell’Fbi possa riaprire una sfida
già considerata vinta, al punto che - come Paolo Mastrolilli ci ha
raccontato ieri - la candidata ha illustrato ai più stretti
collaboratori i piani di battaglia per dilagare negli Stati
tradizionalmente conservatori, come l’Arizona. A giovare a Trump è in
particolare il fatto che durante i dibattiti tv l’unico e vero affondo
efficace contro Hillary è stato proprio sulle 33 mila email sottratte al
Dipartimento di Stato. È solo su questo terreno che l’ex Segretario di
Stato è stata obbligata ad ammettere: «Ho sbagliato». Così come proprio
riferendosi alle email, Trump si è spinto a fino a dirle, con tono
sprezzante: «Dovresti finire in prigione». Per il candidato del popolo
della rivolta la carta delle email di Hillary è stato l’unico vero
fronte d’attacco dove è riuscito a imporsi. L’unica carta che ha giocato
con insistenza. Ed è questo punto debole dei democratici che ora è
diventato la sorpresa del momento. Riaprendo una sfida per la Casa
Bianca che in molti davano già per conclusa. Ma all’Election Night
mancano ancora 10 giorni e le sorprese potrebbero non essere finite.
Come ripeteva l’indimenticabile campione italoamericano dei «New York
Giants», Vince Lombardi: «It Ain’t Over Till It’s Over», non è finita
fino a quando è finita.
Corriere 30.10.16
Il team Clinton chiuso a riccio: per noi un disastro
Rivelando l’indagine sulle email, l’Fbi ha ignorato il ministro della Giustizia che ammoniva di non interferire
di M. Ga.
NEW
YORK L’«Emailgate» di Hillary Clinton riesplode con la decisione
dell’Fbi di riaprire le indagini dopo la scoperta di altre migliaia di
email nei computer di Anthony Weiner: messaggi che l’ex deputato
indagato per reati sessuali con minorenni ha scambiato con per anni con
la moglie (ormai ex) Huma Abedin, la più stretta collaboratrice di
Hillary Clinton. La candidata democratica, costretta a fronteggiare una
crisi forse devastante per la sua campagna a dieci giorni dal voto, ha
chiesto all’Fbi di rendere subito pubblico tutto quello che ha trovato,
per non lasciare gli elettori nell’incertezza. Ma quasi certamente gli
investigatori non formalizzeranno anche solo parte dell’inchiesta in
così pochi giorni. Il caso, quindi, diventa battaglia politica all’arma
bianca con i democratici che accusano il loro capo, James Comey, di aver
fatto un favore politico ai sui amici repubblicani.
Ieri si è
appreso che la decisione di Comey (nominato da Obama nel 2013 e in
carica per dieci anni) di informare il Congresso della riapertura
dell’inchiesta è stata contestata dal ministro della Giustizia, Loretta
Lynch, e dalla sua vice, Sally Yates. La Lynch non ha contestato la
decisione di riaprire le indagini davanti all’emergere di nuovi elementi
raccolti durante l’inchiesta Weiner, ma aveva chiesto a Comey di non
informare il Congresso sulla base di una prassi consolidata: non si
forniscono informazioni su indagini politicamente sensibili. Comey,
però, è andato per la sua strada sostenendo che questo è un caso
particolare, visto che lui è stato chiamato a riferire più volte davanti
al Parlamento. Non poteva, quindi, tacere davanti a uno sviluppo che
capovolge le decisioni — chiusura dell’inchiesta senza incriminazioni
per la Clinton — che aveva comunicato al Congresso poche settimane fa.
Ora
Comey, il traditore diventato eroe per i repubblicani, è sotto il fuoco
delle accuse dei democratici. Che temono serie ripercussioni
elettorali. «È come se ci avesse investito un tir», ha commentato Donna
Brazile, leader del Democratic National Committee. Gli ultimi sondaggi
già segnalavano un recupero di Trump: dato a due punti dalla Clinton (47
a 45) in una rilevazione completata giovedì, poche ore prima
dell’annuncio della riapertura delle indagini, da Washington Post e Abc .
Altri sondaggi danno ancora un vantaggio più ampio alla Clinton.
Cosa
accadrà ora? Il principale problema, per Hillary, è l’ulteriore colpo
alla sua credibilità anche tra democratici e indipendenti. Un sondaggio
mirato della Fox indica che, se il 99 per cento dei sostenitori di Trump
considera la Clinton disonesta, anche il 32 per cento dei democratici
che la voteranno non giudica l’ex «first lady» degna di fiducia. Mentre
tra gli indipendenti, solo il 14 per cento si fida di lei.
La Stampa 30.10.16
“Mandate la Clinton in galera”
Trump trova la spinta giusta e azzera il distacco nei sondaggi
È a meno 2 dalla rivale. L’effetto “mailgate” ancora deve farsi sentire
di Gianni Riotta
Che
week end di Halloween 2016! Donald Trump, candidato repubblicano, salta
nei sondaggi al 45%, due soli punti dietro la democratica Hillary
Clinton. E i numeri non calcolano ancora la reazione di un elettorato
stanco, frustrato, malmostoso al caos scatenato da James Comey,
repubblicano capo dell’Fbi nominato da Obama, con la irrituale lettera
al Congresso su nuovi, possibili, accertamenti a proposito di e-mail
della Clinton.
Trick or Treat, scherzetto o dolcetto, l’America si
maschera anche in politica, due tribù l’una contro l’altra armate. In
New Hampshire, dove Hillary è avanti di un punto, e in Iowa, Trump
avanti di un punto, il magnate di New York accoglie il dolcetto Fbi
incitando le folle a «sbattere in galera Hillary», l’accento rotondo di
Queens, suo quartiere natale, rilanciato rauco dai microfoni. La colonna
sonora è adesso i Rolling Stones, «You can’t always get what you want»,
i versi dei vecchi rockettari colgono l’humor nero trumpista. Siamo
andati giù alla dimostrazione, a prenderci la vostra buona dose di
insulti, cantando «Noi vogliamo urlare la nostra frustrazione,
altrimenti facciamo esplodere pure le valvole da 50-amp!».
Trump
rioccupa il terreno prediletto, il trash, il sospetto, al confine tra
Vero, Falso, Verosimile, dove i militanti si caricano di energie anti
Hillary, «bitch», la cagna delle t-shirt più vendute. Come osservano nel
saggio appena pubblicato da Franco Angeli, «Misinformation, Guida
all’età dell’informazione e della credulità» gli studiosi Quattrociocchi
e Vicini, gli elettori colgono online solo i fatti che aderiscono alle
loro opinioni, magma fazioso in cui Trump sguazza a suo agio. L’Fbi non
ha rimesso Hillary sotto inchiesta – almeno per ora -, e Comey ha
disubbidito alle indicazioni dirette del ministro della Giustizia Lynch,
temendo probabilmente di essere accusato dal suo partito di parzialità
filo democratici. Trump ha però buon gioco a infierire sugli errori,
stupefacenti, della rivale: permettere alla fida consigliera Huma
Abedin, moglie separata del disgraziato ex deputato Wiener, sorpreso a
ripetizione con sms porno pare anche a minorenni, di condividere con
l’assatanato coniuge il telefonino. E da questo scaricare, e stampare,
mail dell’allora segretaria di Stato perché Hillary, ahinoi analfabeta
digitale, non legge se non su carta e non distingue un server web
privato da uno pubblico.
La volata della campagna più pazza a
memoria d’uomo, e stavolta sembra non entrarci Putin con gli gnomi
hacker pronti a rubacchiare mail democratiche e girarle a Wikileaks,
rioffre a Trump l’occasione per vincere sul filo di lana, o almeno
perder bene. Lo stato maggiore del partito repubblicano, umiliato nelle
primarie in primavera, costretto al silenzio dalla populista Convenzione
di Cleveland in estate, aveva trovato nella débâcle delle molestie
sessuali di Trump in autunno occasione per rialzare la testa, con i due
ex candidati, McCain 2008 e Romney 2012 a guidare lo sdegno contro «il
barbaro» Trump. Ora è in gioco anche il Senato, dove il partito ha la
maggioranza 54 a 46, ma teme il pareggio 50-50 (maggioranza andrebbe ai
democratici, con il vicepresidente Kaine a rompere l’impasse). Dire no a
Trump e perdere la Camera Alta rischia di facilitare a Hillary la
nomina di giudici costituzionali progressisti.
Con Obama che si
sgola a far comizi, Florida, North Carolina e Ohio stati in altalena tra
i partiti, i leader repubblicani devono trangugiare l’amara realtà.
Vinca o perda a novembre, Donald Trump è il loro Clown Killer, il mostro
fantastico che i bambini temono divertiti questo Ognissanti. La sua
presenza nella destra è e resterà forte, se davvero lanciasse un canale
di talk show, ogni candidato dovrà genuflettersi, se partecipasse a
future campagne sarà ostico ignorarne i seguaci scatenati.
A 192
ore dal voto il pasticciaccio Comey-Fbi conferma la debolezza di Hillary
come candidata (nei sondaggi parecchi repubblicani la battono
facilmente), corroborata solo dall’impopolarità di Trump. Se l’aria
infelice che pesa sulla democratica e il richiamo della foresta del
machismo di Trump strappassero all’astensionismo gli arrabbiati elettori
maschi bianchi che lo adorano, per la Clinton sarà una lunga notte, l’8
di novembre. Per questo dal presidente, alla popolarissima First Lady
Michelle, alla esausta Hillary, al bonario vicepresidente Biden il grido
comune è «Votate!», per questo Trump rialza a palla il volume dei
Rolling Stones «Facciamo esplodere tutte le valvole!».
La Stampa 30.10.16
Ohio, tra le tute blu tentate da Donald “Pronti a fare il salto”
“Questo scandalo lo farà vincere”
di Francesco Semprini
Gli
studenti della Youngstown State University mettono a punto i carri in
vista di Halloween, si respira un’aria frizzante in questa città
dell’Ohio, e non solo per l’arrivo della notte delle streghe. La notizia
delle nuove indagini sulle mail di Hillary qui è rimbalzata alla
velocità della luce, riaccendendo le speranze di vederla chiusa fuori
dai cancelli della Casa Bianca. Se ne discute con animosità in un
McDonald davanti al campus, dove è in corso la festa degli studenti.
«Basta che si azzuffino - dice George, afro-americano sui 60 anni - Di
noi non interessa a nessuno». «Sicuramente non alla Clinton - replica
Ted, 50enne bianco - È una strega». Ted è uno «steeler», tuta blu
dell’acciaio di una delle rare imprese sopravvissute alla crisi della
«Rust Belt», l’industria pesante messa in ginocchio dalla
delocalizzazione. Rust, ruggine, come quella che ha divorato Youngstown,
un declino iniziato negli anni ’80 e accelerato dagli accordi di libero
scambio Nafta e Wto. Gli oltre 160 mila abitanti degli anni ‘60 sono
oggi 64 mila. Un impulso alla rinascita è dato dall’ateneo,
«l’incubatore della ripresa», come l’ha definito Obama, e grazie al
quale si sta sviluppando un distretto di start-up. Ma il timore è che
con i nuovi accordi Ttp e Ttip, la città, lo Stato, la nazione, venano
gambizzati di nuovo. «Con Hillary faranno la stessa fine anche loro»,
dice Ted indicando il tappeto di felpe rosse degli universitari. Rosse
come il cappello che lo «steeler» indossa, con la scritta «Fare
l’America grande di nuovo». Ma a Youngstown si parte da un gradino più
basso: «Save America, Vote Trump», recitano i cartelloni tra le vie
della città. Perché ancor prima di rifare grande il Paese occorre
salvarlo dalla strega, dice Donald Skowron, poliziotto in pensione e
militante repubblicano. È lui ad aver creato il motto «Cross Over», fai
il salto, che campeggia sui muri di Youngstown o su alcuni furgoncini.
La città non elegge un candidato del Gop da quando Nixon vinse le
elezioni del 1972, ma ora il cambiamento è «un dovere». Il primo «Cross
Over» è stato di Ronald Skowron, fratello di Donald, ex vice sceriffo ed
ex democratico, oggi sostenitore di Trump per il quale fa campagna
nella contea di Mahoning, secolare feudo blu forgiato dalle «Union» dopo
la Grande Depressione. Oggi però le tute blu hanno fatto il salto
anti-sistema, spinti dal rancore per Washington e dal «tradimento di
quell’establishment democratico che fa politiche per l’1% e strizza
l’occhio a clandestini e disoccupati per scelta». E con loro questa
volta ci sono anche i sindacati, come il «Golden Lodge Local» di Canton,
oltre cento chilometri a sud-ovest. Bocche cucite ufficialmente, ma a
microfoni spenti ammettono il loro «piccolo segreto». «In realtà i blue
collar sono spaccati - dicono - Se le priorità sono economia e lavoro
allora voti Trump». E tra le tute blu l’economia, quella micro e non dei
grandi sistemi, conta eccome. Conta in tutta la cintura della ruggine,
nella Washington County, una delle dieci contee della Pennsylvania
«indecise» per vocazione, ma che si stanno colorando inesorabilmente di
rosso. L’allarme giunge a gran voce da Ron Sicchitano, ex minatore e
presidente del Partito democratico locale: «Le invettive contro il
carbone di Obama e Clinton ci stanno devastando». Così qui Trump ha
gioco facile, come a Youngstown, dove si invoca un nuovo «Black Monday»,
il lunedì nero del settembre di 39 anni fa, quando gli operai invasero
la città per manifestare contro la chiusura di «Youngtown Sheet and
Tube». Mentre c’è chi rivive nel tycoon di New York l’epopea di Jim
Traficant, «cowboy democratico» e unico candidato dell’Asinello eletto
al Congresso nell’anno in cui Reagan sbancò in 49 Stati. Esuberante e
controverso politico dalla chioma bizzarra che prometteva legge e ordine
a «Crimetown» (nomignolo di Youngstown), e chiedeva restrizioni
all’immigrazione con lo slogan «America First». La sua maschera e quella
di Trump sono tra quelle dei carri dell’Halloween di Youngstown: «Un
rito - dicono - per celebrare lo scandalo mail ed esorcizzare la
“strega”».
Il Sole 30.6.16
Non era meglio aspettare?
Anche l’Fbi finisce nella tempesta
di Mario Platero
È
il momento dei veleni. Ma anche di una crisi istituzionale senza
precedenti in America. Per intervento dell’Fbi riemerge lo scandalo
emailgate di Hillary Clinton.
E il “Reality Show” di queste
incredibili elezioni americane arriva alla miscela esplosiva finale:
e-mail, conflitti di interesse, sesso, menzogne, abusi di potere,
depravazioni, sospetti, si intrecciano seguendo un unico filo
conduttore, l’incertezza. Incertezza sulle ragioni dell’intervento
dell’Fbi a dieci giorni dall’appuntamento alle urne, incertezza
sull’esistenza di e-mail che possano davvero inchiodare Hillary Clinton,
incertezza sull’esito elettorale. Incertezza dei mercati. Incertezza
dello stesso capo dell’Fbi, James Comey: «Per ora non sappiamo granché»,
ha di fatto scritto al Congresso. Ma la bomba è esplosa lo stesso,
facendo schricchiolare l’impianto democratico americano. Non era meglio
aspettare?
«Nel dubbio astieniti» dice il vecchio proverbio.
Eppure Comey nel dubbio è andato avanti. Ecco perché la crisi degli
ultimi due giorni oltre che elettorale diventa istituzionale. La
separazione dei poteri, cardine di questa democrazia, tutela l’autonomia
dell’Fbi in cambio di un paio di contropartite, equilibrio e certezze.
Esattamente il contrario di quel che è successo, Comey non ha solo
introdotto improvvisi drammatici elementi di incertezza a dieci giorni
dalle elezioni per la Casa Bianca 2016, ma lo ha fatto con una forte
impulsività.
Per questo sia democratici che repubblicani chiedono i
fatti e attaccano l’Fbi. E fanno bene, perché un’uscita di questo
genere - la diffusione del sospetto e della calunnia senza possibilità
di assoluzione o di conferme delle accuse “prima” delle elezioni - non è
solo miscela esplosiva, ma abuso di potere. Trump sa che solo la
pubblicizzazione di una e-mail devastante per Hillary potrebbe davvero
aprirgli le porte della Casa Bianca. Hillary sa che senza la prova che
le e-mail non contengono nulla di nuovo rischia di vedere franare la sua
solida maggioranza per vincere la Casa Bianca. E se vincerà sarà anatra
zoppa prima ancora di cominciare. L’unica certezza per ora è che
nell’era di Internet dieci giorni sono un’eternità.
Resta un
mistero: se Comey non sapeva, come ha confessato al Congresso, perché
non ha atteso l’esito dell’inchiesta, la verifica delle e-mail prima di
gettare barili di benzina in uno scenario politico incandescente? C’è
chi dice, come Carl Bernstein, il giornalista che ha denunciato lo
scandalo Watergate, che lo ha fatto perché le prove erano schiaccianti.
Ma può aver anche ceduto alle pressioni di agenti disillusi dopo
l’archiviazione del caso contro Hillary in luglio. Sappiamo che Comey è
stato attaccato all’interno. Sappiamo che è repubblicano. Ma sappiamo
anche che è al di sopra di ogni sospetto di parzialità, per questo Obama
lo ha scelto. E allora? Per Comey forse ha prevalso la difesa
dell’integrità e dell’autonomia del suo Bureau, la necessità di tirare
dritto proprio per tutelare la separazione dei poteri ex post. Ma
l’autonomia istituzionale chiede responsabilità al servizio del Paese.
Che la sacrosanta separazione dei poteri abbia invece portato a
irresponsabilità e al disservizio per gli americani, la dice lunga sulla
crisi delle democrazie occidentali.
il manifesto 30.10.16
L’ipotesi di un «inside job»: chi ha interesse in questo scandalo
Stati
uniti. Al momento si sa ancora molto poco visto che l’indagine su
Weiner è in corso, ma le teorie di complotto interno rendono bene l’idea
di come questa sia la peggiore campagna elettorale di sempre
di Marina Catucci
NEW
YORK La notizia dell’apertura da parte dell’Fbi di un nuovo caso
riguardante le mail di Hillary Clinton si è abbattuta sui media e su una
campagna elettorale che riserva una sorpresa al giorno. Che una notizia
di queste proporzioni arrivi 10 giorni prima delle elezioni fa
sollevare mille illazioni riguardo chi ci sia davvero dietro questo
scoop.
Facendo un passo indietro, nei mesi passati c’è stato un
fuoco di fila di rivelazioni riguardanti i democratici, tutte arrivate
tramite hackeraggi alle mail del partito e dei suoi funzionari;
rivelazioni il più delle volte divulgate dall’arci nemico di Hillary
Clinton, Julian Assange. Una delle voci più autorevoli ad essersi alzata
a proposito di tutte queste rivelazioni riguardanti le mail dei
democratici, è stata quella di Bill Binney, analista americano che, dopo
36 passati a lavorare per la National Security Agency di cui è stato
direttore tecnico, coordinando il lavoro di 6.000 uomini, resosi conto
del programma di controllo di massa che aveva contribuito ad
implementare ai danni dei cittadini americani, ha deciso di renderlo
pubblico diventando un whistleblower. Binney, qualche anno prima di
Edward Snowden, ha tentato di opporsi ai programmi di sorveglianza di
massa di George W. Bush e ne ha parlato pubblicamente in occasioni come
la conferenza hacker newyorkese Hope, in un intervento immortalato da
Laura Poitras e che apre il suo film Citizen four.
Una delle
peculiarità di Binney è quella di essere uno dei più grandi crittografi
che la Nsa abbia mai avuto; in occasione delle rivelazioni sui
democratici rese pubbliche da WikiLeaks, Binney è stato interpellato più
volte e in diverse occasioni ha parlato della fuga delle email dei
democratici attraverso un’analisi del tutto diversa da quella presentata
dal governo americano; di base Binney ha respinto le certezze che danno
per sicure le prove e le tracce informatiche che portano a parlare di
un’incursione di hacker russi nel furto di mail. Secondo Binney, invece,
le tecniche usate, anche nei leaks riguardanti le mail di Podesta, il
capo della campagna di Hillary, porterebbero direttamente alla Nsa, un
inside job, come si dice, un lavoro interno operato da un braccio della
stessa Nsa.
Secondo Binney la NSA ha sistemi che possono
rintracciare i pacchetti di informazioni mentre lasciano la casella di
posta della Dnc, e seguire i loro percorsi fino alla «posta in arrivo»
di WikiLeaks. Queste affermazioni sono state ripescate anche in questa
occasione per sostenere l’ipotesi che anche in questo caso si sia di
fronte ad un altro inside job, con un braccio dell’Fbi che non ha mai
smesso di indagare sulle mail di Clinton, così come altre voci
ipotizzano che il capo dell’Fbi, stia in realtà lavorando per Putin per
discreditare Clinton, cosí come lo si è ipotizzato per WikiLeaks. Al
momento si sa ancora molto poco visto che l’indagine su Weiner è in
corso, ma le teorie di complotto interno rendono bene l’idea di come
questa sia la peggiore campagna elettorale di sempre.
Il Sole Domenica 30.10.16
Stati Uniti
Una Costituzione fondata sulla frontiera
di Massimo Teodori
L’eco
delle origini degli Stati Uniti come nazione dei pionieri che nel
Settecento e Ottocento colonizzarono il continente nordamericano si fa
sentire ancora nelle pulsioni populiste che percorrono l’elezione
presidenziale di quest’anno. Alla fine del secolo XIX un giovane storico
americano, Frederick J. Turner, pubblicò il saggio The significante of
the Frontier in American History che pose l’epopea della frontiera al
centro della storia americana. La tesi, destinata a dominare il
dibattito intellettuale fino agli anni 30 del Novecento, sosteneva che
le istituzioni e le culture delle tradizioni europee, trasferite
nell’ambiente vergine del continente americano, si erano del tutto
trasformate e avevano prodotto forme originali di vita individuale e
collettiva. La personalità degli americani era stata plasmata secondo un
carattere pratico, energico e individualista, naturalmente tendente
all’egualitarismo, alla democrazia e all’autogoverno senza il peso delle
antiche gerarchie del Vecchio continente.
Partendo dai
presupposti elaborati da Turner, Andrea Buratti sostiene nel saggio La
frontiera americana. Una interpretazione costituzionale che la frontiera
ha influito anche sul modo in cui le regole costituzionali hanno pesato
sullo sviluppo degli Stati Uniti, originariamente costituiti da tredici
colonie che si estendevano tra l’oceano Atlantico e i monti Allegheny
con quattro milioni di abitanti, in un secolo trasformatisi in una
nazione continentale con 80 milioni di cittadini in gran parte di
origine pionieristica. Durante l’avanzamento della frontiera verso Ovest
il principale problema istituzionale riguardava il regime sotto cui i
nuovi territori dovevano entrare a far parte degli Stati Uniti d’America
governati dalla Costituzione federale del 1789. La questione era a chi
spettava governare gli immensi territori che, con l’acquisto di ampie
regioni, la guerra ai confinanti e la repressione dei nativi, mano a
mano passavano sotto la bandiera a stelle a strisce. Doveva prevalere il
potere di Washington o bisognava instaurare una qualche regola
democratica? Doveva predominare l’esercito federale o le milizie
territoriali?
L’Ordinanza del Nord-Ovest, emessa nel 1787, ancor
prima che i Founding Fathers siglassero definitivamente la Costituzione
federale, è il documento che stabiliva la forma istituzionale a cui
dovevano assoggettarsi i nuovi territori che passavano sotto la
giurisdizione statunitense, dapprima con le regioni fino ai grandi laghi
(con la formazione degli Stati dell’Ohio, Indiana, Illinois, Michigan e
Wisconsin) e poi con tutti gli altri nuovi Stati aggregatisi a
Washington fino al 1913. Accanto alla Costituzione federale, liberale e
federalista, l’Ordinanza del Nord-Ovest ebbe il merito di dare una legge
quadro democratica alla peculiare popolazione di frontiera che con
l’immigrazione andava crescendo a ritmi intensi e si diffondeva negli
immensi territori estesi dal bacino del Mississippi alle sconfinate
praterie dell’Ovest. Con il documento di rango costituzionale venivano
così tutelati i diritti fondamentali degli individui, l’autogoverno dei
nuovi insediamenti, e il diritto alla formazione dei nuovi Stati che
raggiungevano una determinata soglia di abitanti. Di più, la carta del
Nord-Ovest proibiva a Nord lo schiavismo, cosa che finì col provocare
nel 1861 la Guerra di secessione.
Corriere 30.10.16
Spagna, un destino da Don Chisciotte per Sánchez
Pedro
Sánchez, giovane promessa del socialismo spagnolo rottamato dalla
vecchia guardia del partito, si è prima dimesso da segretario generale
del Psoe e, ieri, anche da deputato. In un mese è passato da aspirante
premier a «senza lavoro». L’ha fatto per non tradire le sue promesse
elettorali («Mai con Rajoy»), ma anche per non venir meno alla
disciplina del partito (che ha imposto ai deputati l’astensione). Il bel
Sánchez sorrideva ieri mentre firmava le dimissioni e annunciava la sua
nuova candidatura a segretario. Lo aspetta una traversata nel deserto.
Potrebbe arrivare dall’altra parte come il rifondatore del riformismo
europeo o scomparire sulla via. Per ora è semplicemente affascinante che
l’abbia fatto. In Italia le dimissioni si minacciano, si annunciano, si
sbandierano, ma non si danno. Pedro le ha firmate col sorriso. Il gesto
eroico, idealistico, estremo è nel dna della Spagna. Don Chisciotte,
hidalgo senza macchia e senza paura, sarebbe fiero di lui. Così come il
matador che aspetta a pie’ fermo la carica di un toro da mezza
tonnellata. Gli spagnoli sentono l’attrazione per il tragico, hanno
l’istinto a dividersi tra amici e nemici. Quest’aspetto dello spirito
nazionale si ritrova nella tremenda guerra civile come nelle cupe chiese
barocche, nei dipinti scuri di Velázquez, negli incubi di Goya dove
l’azzurro di Leonardo o Tiziano non bagna il pennello. Felipe González,
l’ex premier divenuto killer politico del giovane Sánchez, lo sa bene.
Un anno fa, dopo il crollo del bipartitismo, disse che Madrid si era
scoperta con un Parlamento ingovernabile come quello di Roma. «Il
problema è che non siamo italiani». Pensava forse a quello che gli
rimproverò Giulio Andreotti: «Voi spagnoli siete proprio come noi, solo
vi manca la finezza».
Il Sole 30.10.16
Spagna
Le basi fragili di un governo voluto a tutti i costi
di Luca Veronese
Sono
due le cause che hanno portato alla formazione di un nuovo governo del
conservatore Mariano Rajoy. Entrambe potrebbero rivelarsi deboli
ancorché comprensibili, cause perse, in contraddizione tra loro. E in
definitiva potrebbero non aiutare la Spagna, la sua politica e la sua
economia.
Pur di dare un governo al Paese dopo dieci mesi di
paralisi, si è arrivati a un compromesso rischioso. A muovere i partiti -
ed è questa la prima causa per il governo Rajoy - sono stati «il senso
di responsabilità», «lo spirito patriottico», «la necessità di non
distruggere la credibilità conquistata negli ultimi anni», «la volontà
di non compromettere la ripresa economica»: parole che hanno accomunato
la destra dei Popolari, i loro avversari di sempre, i Socialisti, e i
centristi di Ciudadanos, oltre a qualche formazione regionale minore. A
tenere assieme il governo fin dalla nascita è tuttavia anche la paura di
nuove elezioni: i Socialisti che con l’astensione hanno dato il via
libera a Rajoy non hanno alternative, non possono infatti permettersi di
affrontare un nuovo voto in cui, secondo i sondaggi, perderebbero
ancora consensi diventando una forza marginale, dietro a Podemos nella
sinistra. Questa seconda causa che ha garantito la continuità di governo
dei conservatori è certo meno nobile ma sarà probabilmente dominante
nei prossimi mesi.
Non c’è un agenda condivisa, non c’è - nemmeno
nelle dichiarazioni - un governo per le riforme, non c’è un accordo
sull’emergenza, sulle cose da fare comunque e subito. «Nessuno può dire
quanto durerà questo governo: un mese, un anno, di certo nessuno pensa
all’intera legislatura. E se invece di finirla lì, si dovesse tirare
avanti vivacchiando, sarebbe anche peggio», dice un vecchio funzionario
dei palazzi di governo, vicino ai Popolari.
Eppure la Spagna ha
davanti a sé molte e difficili scelte politiche che modificheranno le
relazioni con l’Unione europea (c’è un budget da sistemare); lo sviluppo
dell’industria (la bolla immobiliare ha insegnato qualcosa?); la vita
delle famiglie (ci sono ancora 4,6 milioni di disoccupati); la
convivenza tra regioni dentro lo Stato (la Catalogna arriverà in pochi
mesi allo scontro finale con Madrid).
La bugia - populista e
superficiale - del Paese che sta meglio senza governo, dell’economia che
cresce anche senza una guida alla Moncloa, verrà smascherata nei
prossimi anni: il vuoto di investimenti, il rallentamento delle
amministrazioni, il ritardo dei progetti a lungo termine, le difficoltà
che le regioni e dei comuni hanno affrontato si faranno sentire.
Anche
quest’anno il Pil della Spagna aumenterà più del 3% ma la crescita sta
moderando il ritmo. «Nel 2017 i consumi privati rallenteranno per il
venire meno di alcuni fattori temporanei che li avevano sostenuti: il
prezzo del petrolio è risalito, l’euro ha smesso di deprezzarsi e il
governo spagnolo, dopo la riduzione delle tasse, sarà costretto a
introdurre misure fiscali restrittive per centrare gli obiettivi di
bilancio stabiliti con l’Unione. Anche gli investimenti rallenteranno in
modo significativo per colpa del clima di incertezza. Mentre le
difficoltà internazionali non aiuteranno la domanda esterna», spiega
Apolline Menut di Barclays.
Da Bruxelles hanno già chiarito che
per riportare sotto controllo il deficit servono misure per circa 5,5
miliardi di euro nella prossima Finanziaria. La Commissione europea e la
Bce - in una lettera ufficiale al governo di Madrid - si sono inoltre
fatte sentire chiedendo che «non venga interrotto il percorso delle
riforme avviato», ma anche «maggiore equilibrio nell’economia» e un
ulteriore sforzo per «sostenere produttività e occupazione».
Il
«senso di responsabilità» ha poco da spartire con la paura di
scomparire. Rajoy - dato per finito più volte - non può accettare di
fallire: gli scandali di corruzione hanno indebolito i Popolari che per
ora resistono solo per mancanza di alternative. I Socialisti - spaccati
in due proprio sulla fiducia a Rajoy - hanno annunciato «opposizione
dura su ogni provvedimento del governo». Ciudadanos fa da comparsa.
Podemos con Pablo Iglesias insiste nell’attaccare il patto di governo ma
è fuori dai giochi.
Tutta la Spagna è ancora in una fase di
passaggio. Se il bipartitismo dell’alternanza tra Popolari e Socialisti è
crollato, il rinnovamento è per ora solo una bozza. Ma alcune emergenze
- economiche e sociali - vanno affrontate subito: le riforme (del
lavoro, del sistema bancario, del sistema scolastico) sono incomplete;
il patto tra Stato e Regioni è da riscrivere; le rivendicazioni della
Catalogna devono trovare una risposta. Mentre, per le cause che hanno
portato alla sua nascita, questo governo di Rajoy sembra tra i meno
adatti a governare davvero la Spagna.
il manifesto 30.10.16
Il ritorno di Rajoy e la frittata socialista
Spagna.
Sulla scelta dell’astensione socialista hanno influito le posizioni del
leader storico Felipe González, della confederazione degli industriali,
della grande stampa, come El País e El Mundo, oltre al blocco dei
socialisti andalusi - la federazione più numerosa e potente - capeggiati
da Susana Díaz, candidata in pectore alla segreteria del Psoe nel
congresso che si terrà nel 2017 e strenua sostenitrice della
«governabilità nell’interesse nazionale della Spagna»
di Aldo Garzia
La
Spagna ha da ieri sera un nuovo governo. Mariano Rajoy, come previsto,
guida un esecutivo formato da Partito popolare (Pp) e Ciudadanos con
l’astensione decisiva dei socialisti (Psoe). È un esecutivo di
centrodestra bis con lo stesso premier uscente della scorsa legislatura.
Dieci mesi senza governo, due elezioni in dodici mesi con più o meno un
pari e patta tra Pp più Ciudadanos da una parte e sinistra dall’altra
(Unidos Podemos, Psoe), hanno piegato la resistenza socialista che aveva
come alternative o l’alleanza con Podemos e liste nazionaliste o nuove
elezioni (le terze in un anno). I socialisti, nel negoziato sulla loro
sofferta astensione, non sono riusciti a ottenere che fosse un altro
esponente del Pp, meno compromesso a destra di Rajoy, a guidare il
governo.
Il thriller della crisi politica spagnola non è ancora
concluso. Pedro Sánchez, dimessosi da segretario perché contro
l’astensione, ieri la lasciato pure il suo scranno da deputato «per non
votare contro se stesso», annunciando che darà battaglia per «rifondare
il partito a sinistra». Tutti i riflettori erano del resto puntati sul
Psoe che ha reso possibile questo esito. Nel corso del voto sono stati
15 – come previsto – i parlamentari socialisti che non hanno rispettato
la decisione presa a maggioranza dal Comitato federale del Psoe. Javier
Fernández, reggente del partito e governatore delle Asturie, aveva detto
di augurarsi di non dover prendere provvedimenti disciplinari nei
confronti dei probabili dissidenti.
La minaccia – neanche tanto
velata – era quella della radiazione dal gruppo parlamentare con
l’automatico passaggio al gruppo misto. Ora vedremo se ci saranno o meno
provvedimenti disciplinari. Tra i non astenuti ci sono i 7 deputati del
Psc, importantissima federazione della Catalunya, convinti che
l’astensione indebolisca la posizione socialista che a Barcellona vuole
evitare rotture con il resto della Spagna all’insegna della secessione
pur sostenendo una riformulazione del patto tra Stato centrale e
autonomie regionali. La prima frattura nel Psoe si era verificata la
settimana scorsa nella storica sede di via Ferraz a Madrid, quando nel
parlamentino del partito in 139 avevano votato a favore dell’opzione
dell’astensione a Rajoy e in 96 si erano pronunciati contro.
Tra i
contrari, oltre ai catalani, dirigenti di rilievo come Patxi López,
leader dei socialisti dei Paesi baschi e governatore di quella regione,
il deputato europeo dal forte prestigio Josep Borrell, José Luís Ábalos,
segretario di Valencia, e molti dirigenti locali: dalle Baleari
all’Extremadura, dalla Galizia a Madrid.
Sulla scelta
dell’astensione socialista hanno influito le posizioni del leader
storico Felipe González, della confederazione degli industriali, della
grande stampa, come El País e El Mundo, oltre al blocco dei socialisti
andalusi – la federazione più numerosa e potente – capeggiati da Susana
Díaz, candidata in pectore alla segreteria del Psoe nel congresso che si
terrà nel 2017 e strenua sostenitrice della «governabilità
nell’interesse nazionale della Spagna». Il refrain della governabilità a
ogni costo è diventato così assordante da piegare tutte le buone
ragioni di una difficile unità a sinistra. La maggioranza del Psoe ha
ritenuto Podemos un alleato non affidabile, Podemos ha pensato in
definitiva lo stesso del Psoe.
A impedire un avvicinamento
unitario hanno provveduto pure i dissensi politici accompagnati
dall’aperta competizione tra queste due forze, dal momento che la posta
in palio è chi diventerà il principale partito della sinistra, con
sondaggi attualmente favorevoli a Podemos, avvantaggiatosi dalla
collocazione astensionista e di appoggio al governo di centrodestra
assunta dai socialisti. Rajoy ha nel frattempo addolcito i toni del suo
liberismo tradizionale nel discorso programmatico alle Cortes, dicendo
di voler governare per una intera legislatura in alleanza con Ciudadanos
e in dialogo con i socialisti per attuare riforme costituzionali (un
più netto federalismo) ed economiche. Il Psoe lo ha avvertito che
l’astensione è solo un gesto di responsabilità per evitare nuove
elezioni. La frittata però è fatta, con conseguenze imprevedibili sul
futuro del Psoe e della legislatura che si apre.
Corriere 30.10.16
Dublino: ci opporremo in ogni modo a una «Brexit dura» per l’Irlanda
Il ministro degli Esteri: una rottura radicale è incompatibile con gli accordi di pace
di Federico Fubini
Sciogliere
uno a uno i legami che dovrebbero permettere alla Gran Bretagna di
districarsi dall’Unione Europea non è mai sembrato facile, fin dal
mattino dopo il referendum di giugno. C’è però un nodo in particolare
con cui i Brexiters, i fautori della rottura, non devono aver fatto i
conti: l’Accordo del Venerdì santo, la svolta del processo di pace in
Irlanda del Nord del 1998. Charles Flanagan, ministro degli Esteri della
Repubblica d’Irlanda, ricorda che lui stesso è istituzionalmente
«co-garante» di quegli accordi e di ciò che essi comportano:
l’«invisibilità» del confine di terra fra Eire e Gran Bretagna e la
garanzia che «il popolo dell’isola d’Irlanda» non venga di nuovo diviso.
Una
«hard Brexit», una rottura radicale con la Ue che Londra ormai persegue
apertamente, appare incompatibile con l’accordo del Venerdì santo.
Basta sentire l’emozione nella voce di Flanagan, per misurare le
conseguenze che questo divorzio può portare nel processo di pace di
Belfast e sulla stessa unità territoriale del Regno Unito.
Ministro, nel governo di Londra si lavora ormai a uno scenario di «hard Brexit». Visto da Dublino, che impressione fa?
«Sono
molto preoccupato da qualunque tentativo di ricreare un confine fra
l’Irlanda e il Regno Unito, da Dork a Derry lungo 499 chilometri, che
non sia più invisibile come oggi. Preservare un’area di viaggio e
movimento libera è di enorme importanza, per le popolazioni dai due lati
che ogni giorno si muovono per lavoro, per commercio nelle due
direzioni, per visitare la famiglia da un lato e dall’altro.
Dall’Accordo del Venerdì santo quel confine è stato invisibile. Deve
rimanere tale».
Teme che l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue,
voluta per controllare le migrazioni anche alle frontiere, sposti gli
equilibri sull’isola?
«Nel negoziato che ci aspetta quest’aspetto
sarà importante. Va riconosciuto il carattere unico del confine fra la
Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord. Mi incoraggiano i commenti di
ministri britannici come David Davis e Boris Johnson, quando affermano
che non si augurano un ritorno alla frontiera del passato. Certamente
noi cercheremo di mantenere la situazione attuale».
Che implicazioni ha il fatto che questo aspetto è parte degli Accordi del Venerdì santo e del processo di pace?
«Mi
permetta di dirlo in modo chiaro. In qualità di ministro degli Esteri
di Dublino, io sono co-garante di quegli accordi, che sono stati
ratificati nel 1998 sia da un referendum in Irlanda del Nord che da un
secondo referendum in Eire».
Sta cercando di dire che la sovranità
di Londra nel determinare il nuovo status del confine irlandese con la
Brexit non è priva di restrizioni?
«L’Irlanda del Nord è parte del
Regno Unito, ma Londra deve riconoscere nel corso del negoziato di
uscita il fatto che una maggioranza della popolazione in Irlanda del
Nord ha votato per rimanere nell’Unione Europea. Il caso del confine di
terra fra i nostri due Paesi, lo ripeto, è unico. E quella separazione
deve restare invisibile. Non si può dividere il popolo irlandese. È una
questione difficile per la Ue e per Londra, ma la nostra preoccupazione
per mantenere la libertà di movimento sull’isola va rispettata
pienamente. Non torneremo a un confine duro, o fortificato come prima».
Pensa che se succederà possa esserci una pressione dall’Irlanda del Nord per fare secessione dalla Gran Bretagna?
«Direi
questo: in base ai termini dell’accordo, potrebbe esserci una sfida
costituzionale all’interno del Regno Unito e sarà una questione di
primaria importanza per i prossimi dieci anni. La Scozia ha votato per
la permanenza in Gran Bretagna meno di due anni fa. In Irlanda del Nord
la questione non si è posta a causa degli accordi di Belfast e
l’apertura completa dei confini via terra con la nostra Repubblica.
Quanto a noi, lo sottolineo, siamo i co-garanti sul piano legale della
situazione in Irlanda del Nord. E certo, come membro unitario
dell’Unione Europea, il negoziato sull’uscita spetta interamente al
Regno Unito e al suo governo. Ma le conseguenze negative per l’Irlanda
del Nord andranno ridotte al minimo possibile».
Come le sembra che sia stia muovendo il premier di Londra, Theresa May?
«Accolgo
con favore il fatto che si sia impegnata nell’ascoltare le posizioni
espresse in Irlanda del Nord e coinvolgerla il più possibile nei
pre-negoziati in vista della Brexit. Dovremo vedere quali saranno le sue
priorità. Fra i nostri due Paesi ci sono scambi commerciali da 1,2
miliardi di euro ogni settimana. Una hard Brexit non aiuterebbe
nessuno».
Corriere La Lettura 30.10.16
La terza espansione russa
Il
comportamento aggressivo di Putin si ricollega alla politica di potenza
inaugurata ai tempi di Pietro il Grande e giunta al culmine sotto
Stalin
Nonostante il ritardo del Paese in campo economico, il leader del Cremlino mostra
i muscoli in Medio Oriente e sul teatro europeo. Ecco quali sono i pericoli di una strategia
che fa leva sulla frustrazione di un popolo abituato a coltivare l’orgoglio nazionalista dopo
la grande vittoria sui tedeschi nella Seconda guerra mondiale
di Antonio Monteverdi
In
una recente corrispondenza da Istanbul per «Le Monde», Marie Jégo ha
attirato l’attenzione sulla singolare iniziativa presa dalla stampa
turca filogovernativa, la quale ha pubblicato le carte geografiche
dell’Impero ottomano prima della sconfitta nella Grande guerra. I
giornali hanno ricordato all’opinione pubblica interna che Mosul e
Kirkuk, nonché l’intera Siria, un tempo appartenevano all’impero turco.
Un influente commentatore politico, vicino al presidente Erdogan, ha
scritto che il Nord dell’Iraq e la Siria debbono considerarsi il cortile
di casa della Turchia, così come Putin considera lo spazio della
defunta Urss la naturale sfera d’influenza della Russia. In effetti, vi
sono analogie tra i sogni imperiali del sultano di Ankara e i progetti
dello zar di Mosca, se non altro per il linguaggio antioccidentale che
li accomuna.
A lungo Barack Obama e le cancellerie europee hanno
sottovalutato i proclami e gli atti imperiali di Vladimir Putin,
scorgendovi una rude espressione dell’orgoglio nazionale russo. Neppure
l’invasione e lo smembramento dell’Ucraina, uno Stato sovrano grande
come la Francia, hanno aperto gli occhi ai governanti e all’opinione
pubblica dell’Occidente. Soltanto adesso Obama e alcuni governi europei,
non quello italiano, sembrano aver capito chi è davvero e cosa vuole il
signore del Cremlino. Ma ciò è avvenuto soltanto dopo infiniti segnali
inquietanti, dalle provocatorie esibizioni degli aerei militari di Mosca
alla montante isteria guerrafondaia in Russia, dalla rozza
intromissione nella competizione elettorale americana ai crimini di
guerra contro la popolazione civile di Aleppo.
Dopo aver intonato
spesso un cupo lamento sulla fine dell’Urss, negli ultimi anni Putin è
andato annunciando con voce tonante la necessità per la Russia di
riarmarsi e di tornare da protagonista sulla scena internazionale.
Aprendo il 5 ottobre i lavori del suo docile Parlamento, egli ha
ribadito il diritto storico della Russia ad «essere forte». Tale
messaggio ricorda quanto avvenuto parecchie volte nella storia
dell’impero eurasiatico, assurto con Pietro il Grande al rango di
potenza europea e mondiale. Alberto Ronchey coniò la calzante formula di
«superpotenza sottosviluppata» per designare i tratti peculiari
dell’Urss poststaliniana, pronta a rivaleggiare con gli Usa nella corsa
al riarmo, ma incapace di garantire un livello di vita decoroso ai suoi
abitanti. L’economia statalizzata destinava le migliori risorse e le più
progredite tecnologie al settore militare, garantendo il benessere
della casta privilegiata e trascurando i bisogni della popolazione
comune.
L’odierno capitalismo mafioso e parassitario, che ha
sostituito la pianificazione burocratica, ha logorato il vecchio tessuto
produttivo, generando stridenti diseguaglianze e diffuse sacche di
povertà. Gli alti prezzi del petrolio e del gas hanno rimpinguato, per
alcuni anni, le casse dello Stato. Putin ne ha approfittato per
potenziare la capacità bellica del Paese, senza curarsi di ammodernare
l’economia e di tutelare i ceti meno abbienti. Così, oggi la Russia
dispone nuovamente di armi sofisticate e altre ne prepara, come il nuovo
missile intercontinentale Satan 2; ma carenti restano la tecnologia
civile e la medicina. Ci sarebbero tutti i presupposti per una violenta
esplosione della collera popolare, come tante volte è accaduto nella
storia russa. Invece — ecco il miracolo operato da Putin — la gente si
stringe intorno al suo zar, sfogando contro l’Occidente frustrazione e
rabbia. Come mai? La risposta si trova nelle parole del giornalista
tedesco Christian Neef: «Il patriottismo offre anche ai più umiliati
russi della provincia, privi di diritti, un sentimento di superiorità
sulle persone che vivono in Paesi di gran lunga più democratici e
opulenti. Essi si rallegrano quando Putin fa di nuovo volare
sull’Atlantico bombardieri a lungo raggio, e parla giorno dopo giorno di
“armi miracolose”; e quando l’Occidente ha di nuovo paura della Russia»
(«Der Spiegel», 28 marzo 2015).
Perché un Paese gigantesco, che
dopo la fine dell’Urss non è stato invaso né minacciato da nessuno, non
sa utilizzare saggiamente le proprie immense risorse? Se diamo uno
sguardo alla storia, vediamo che il primo grande sforzo produttivo si
ebbe all’inizio del Settecento per iniziativa di Pietro il Grande,
impegnato nel grande duello con la Svezia per il dominio sul Baltico.
Oltre a introdurre costumi occidentali, lo zar creò in breve tempo un
apparato industriale, decuplicando il numero delle fabbriche e
manifatture. Create dallo Stato, esse si reggevano sulle commesse
statali, lavoravano per la guerra e adopravano manodopera servile. Si
trattava d’una industrializzazione drogata e diretta dall’alto, volta a
finalità belliche e basata su una tremenda pressione fiscale, che esaurì
il Paese suscitando malcontento e rivolte. Inoltre, Pietro consolidò ed
estese la servitù della gleba, che in Occidente s’era estinta o stava
morendo. Su tali basi egli creò l’impero, assumendo nel 1721 il titolo
di imperatore. La Russia divenne una grande potenza espansionistica,
dotata d’un temibile esercito e partecipe dei grandi giochi
diplomatico-militari. Ma la società russa, al di là della
occidentalizzazione di facciata, restava arcaica e arretrata era
l’economia.
I successori di Pietro ampliarono ulteriormente i
confini dell’impero, senza avviare un reale rinnovamento. Soltanto negli
ultimi decenni dell’Ottocento sorse una più solida base industriale e
l’influsso europeo si fece maggiormente sentire. Il terremoto del 1917
portò poi alla disgregazione dell’artificioso e anacronistico impero
russo. Ma la «prigione dei popoli» fu in parte ricostruita dai
bolscevichi, i quali ne rinnovarono le basi ideologiche, sostituendo
alla religione ortodossa e al culto dello zar il messaggio falsamente
universale del comunismo, in cui si celava il nocciolo duro
dell’imperialismo zarista.
Aggredendo l’Urss nel 1941, Hitler
paradossalmente salvò l’impopolare regime comunista, e contribuì
enormemente alla mirabolante espansione dell’impero di Stalin. La
Seconda guerra mondiale ebbe un’altra importante conseguenza: la nascita
dello spirito patriottico in un Paese i cui ceti popolari prima erano
rimasti sordi alla sirena patriottarda e avevano sempre avversato i
signori di turno, nobili o comunisti che fossero. Invece, dopo la
«Grande guerra patriottica», il culto sciovinistico di Stalin cominciò
ad attecchire tra i russi, fieri della marcia trionfale dell’Armata
rossa in Europa. Fu allora che si forgiò un’identità nazionale, o meglio
nazionalista.
La coscienza sciovinistica dei russi andò
affievolendosi, fin quasi a scomparire, in seguito alle attese deluse di
un benessere economico che non giungeva mai. Cominciò a diffondersi tra
gli abitanti delle grandi città l’ammirazione del livello di vita
occidentale, tanto superiore al loro. La fine dell’Urss portò
all’insorgere di frustrazioni e fobie, generate dal peggioramento delle
condizioni di vita e dal sentimento d’umiliazione per la perdita, dai
russi giudicata iniqua, di territori etnicamente e culturalmente non
russi. Il retaggio della propaganda comunista fece sì che molti
cominciassero a rovesciare sugli stranieri la colpa dei loro mali e
della loro incapacità, radicata in secolari vicende storiche, di dar
vita a una società e a uno Stato moderni e civili. Putin ha saputo
cavalcare per le sue ambizioni imperiali gli umori antioccidentali dei
suoi compatrioti. I russi, da sempre alla disperata ricerca d’una
identità nazionale, l’hanno oggi trovata nel furore sciovinistico. Ad
alimentare una siffatta identità contribuisce grandemente la Chiesa
ortodossa di Mosca, alleata del potere politico.
La Russia di
Putin è ancora, al pari dell’Urss, una potenza sottosviluppata. Ma vi
sono importanti differenze. L’arsenale convenzionale non ha raggiunto il
livello dell’epoca sovietica, e il poderoso complesso
militare-industriale è solo un ricordo del passato. Ma Putin è popolare,
come non lo è stato nessun capo sovietico dopo Stalin, e possiede un
terrificante arsenale nucleare. Mentre la direzione collegiale nell’Urss
poststaliniana rappresentava, in fondo, una garanzia contro follie
individuali, Putin è solo al comando; e paiono sinistre le sue reiterate
minacce di premere il grilletto atomico. L’angosciosa speranza è che
gli Stati Uniti e la Nato sappiano assolvere l’arduo compito di fermare
il capo del Cremlino senza mettere a repentaglio la sopravvivenza del
genere umano.
Corriere La Lettura 30.10.16
Odiare Lenin quanto gli zar
Ma tanta paura dell’orso cattivo è anche il frutto di un pregiudizio
di Paolo Valentino
Uno
spettro nuovo e antico si aggira per l’Europa. Chiuso il «secolo breve»
con l’implosione della galassia comunista, minaccia chiara e
concretissima ma anche utile cemento dell’incerta identità europea,
l’«orso russo» torna a turbare i governi e le opinioni pubbliche
dell’Occidente. Eppure parliamo di un Paese, la Russia, che ha un
prodotto lordo inferiore a quello dell’Italia, ormai l’ombra della
superpotenza sovietica che per mezzo secolo contese agli Stati Uniti il
predominio del mondo. Nessun analista serio oggi è disposto a
considerare atti pur gravi e da condannare con forza, come l’annessione
della Crimea, la guerra ibrida in Ucraina o le sbavature siriane, come
il preludio a un’aggressione su vasta scala verso Ovest, tantomeno la
prova di un’ambizione egemonica globale di Vladimir Putin.
Perché
allora tanto allarme ed enfasi sul pericolo russo? Perché toni così
ostili e a tratti isterici verso il Cremlino e il suo leader,
sicuramente non un democratico a 24 carati, come disse una volta di lui
il cancelliere tedesco Gerhard Schröder, ma raccontato dai governi e dai
media occidentali al meglio come un autocrate megalomane e mattoide, al
peggio come un dittatore assetato di sangue? Com’è possibile che,
crollata l’Urss, dissolto senza spargimento di sangue il suo impero,
restituita la libertà ai Paesi dell’Europa centrale occupati e
l’indipendenza a 15 ex repubbliche sovietiche, la Russia sia tornata
spauracchio e concreta incarnazione del nemico, torvo e cattivo?
Il
giornalista svizzero Guy Mettan ha una risposta semplice e ardita:
l’odio ancestrale per la Russia, la sua cultura, la sua gente, la sua
identità, i suoi costumi. È certo un libro a tesi e di parte il suo
Russofobia , edito da Sandro Teti nella collana Historos diretta da
Luciano Canfora. Ma è un libro rigoroso nella dimostrazione di un
teorema che, se a tratti può essere rovesciato, offre squarci
illuminanti su un rapporto complesso e tormentato. Come spiega Franco
Cardini nella sua bella introduzione, la russofobia occidentale «nacque
dalla diffidenza verso Bisanzio» cui Carlo Magno contese il ruolo di
erede dell’Impero romano, «per poi accanirsi contro l’imperialismo degli
zar» e infine approdare nell’Ottocento «alla demonizzazione della
tirannide zarista», vista come barbarie e poi «tradotta senza soluzione
di continuità nell’odio per quella bolscevica». Mettan definisce le
origini storiche, religiose, ideologiche e geopolitiche dell’odio verso
la Russia, distinguendo cinque forme di russofobia: quella del papato e
poi quelle francese, tedesca, inglese e americana. Nella sua visione, si
tratta di «un’unica guerra millenaria, più o meno calda, che
l’Occidente ha condotto contro la Russia, la quale peraltro ha
largamente ricambiato».
L’autore rifiuta tuttavia l’etichetta di
un saggio antioccidentale: «Evidenziare le cause dell’odio per la Russia
non significa rinnegare i valori di democrazia, libertà e diritti umani
che l’Occidente promuove fin dalla rivoluzione francese, né ammirare in
estasi la Russia di Putin». Men che meno significa sollevare Mosca
dalle sue mancanze e responsabilità. Più semplicemente Mettan vuole
convincere il lettore che «non è necessario odiare la Russia per parlare
con essa».
Il libro è anche un atto di accusa contro il
pregiudizio dei media occidentali quando si occupano della Russia.
Ricostruendo le coperture di eventi come il sequestro di Beslan, la
guerra in Ossezia, i giochi olimpici di Soci e da ultimo la crisi
ucraina, Mettan cerca di dimostrare come i media europei e americani
«abbiano rinunciato a esporre i fatti, a porre domande, a esplicitare i
punti di vista che non quadravano con la versione ufficiale». Non sempre
le prove a carico sono convincenti, ma non c’è dubbio che nel caso
dell’Ucraina, per esempio, la narrazione dominante sia stata quella
semplicistica dell’aggressione russa, senza alcuna considerazione per il
passato comune, gli inquinamenti filonazisti del nazionalismo ucraino,
la paura legittima delle minoranze russofone di fronte al governo di
Jevromaidan (nato dalle manifestazioni di Kiev). Ma l’autore è attento a
non scivolare nella trappola della cospirazione: «La russofobia è uno
stato d’animo, non un complotto».
Una delle conclusioni più
interessanti di Mettan è che il racconto della Russia cattiva che sogna
di divorare l’innocente Europa, sia «fondativo per una identità
occidentale mai raggiunta». Detto altrimenti, l’Europa in crisi e divisa
avrebbe bisogno di tenere vivo il mito dell’alterità russa, vicina ma
incivile e barbara, una sorta di doppio negativo, per rinsaldare il
fondamento vacillante della sua unità. Se così è, non sembra che il
tentativo stia producendo grandi risultati. E forse faremmo bene a
ripensare l’intero rapporto con Mosca, invece di riprodurre, mille anni
dopo, il Grande Scisma.
Corriere 30.10.16
Funziona con Pechino la diplomazia del gelato
di Guido Santevecchi
Ci
fu la diplomazia del ping pong, utilizzata per i primi contatti tra
Cina e Usa ai tempi di Henry Kissinger. Ora è il momento della
diplomazia del gelato: Vladimir Putin ne ha portato uno scatolone dalla
Russia e lo ha regalato a Xi Jinping durante il G20 a settembre. Sta
avendo un boom a Pechino: +267% di import in un anno. Un piccolo segno
di quella nuova amicizia tra le due potenze che nel 1969 si affrontarono
per mesi a cannonate lungo il confine. Kissinger fu l’architetto di una
«diplomazia triangolare» nella quale Washington sfruttava l’inimicizia
tra i due giganti comunisti. Il gioco si è rovesciato e sono Putin e Xi a
guidare la partita, hanno stabilito un rapporto personale solido: 19
incontri faccia a faccia dal 2012. Hanno firmato un contratto strategico
per 400 miliardi di dollari di gas russo che arriverà in Cina nei
prossimi 30 anni. E poi manovre navali congiunte, dal Mar cinese
meridionale al Mediterraneo.
Corriere 30.10.16
Islanda, balzo dei Pirati ma la maggioranza non è sicura
Primi exit poll, il movimento antisistema conquisterebbe con gli alleati 32 seggi su 63
di Luigi Offeddu
l’abbordaggio
dei «pirati» al Parlamento islandese sarebbe riuscito solo a metà. Il
partito antisistema di Birgitta Jónsdóttir (foto) quadruplica i seggi,
ma è incerto se l’alleanza con i partiti del centrosinistra potrà
scalzare la maggioranza uscente di centrodestra.
Nebbia politica e
neve meteorologica, l’abbordaggio dei «pirati» al Parlamento islandese
sarebbe riuscito solo a metà. La rivoluzione della democrazia diretta
via Web, almeno finora, sarebbe rimandata. A tarda notte, gli exit poll
iniziali diffusi dalla Tv pubblica islandese dicono infatti che ha vinto
la voglia di stabilità, e la paura dell’ignoto, cioè di un partito che
non ha mai governato nei suoi quattro anni di vita: i conservatori del
Partito dell’indipendenza restano primi, il partito della «capitana
Birgitta» restano alle loro spalle. Da oggi si ricomincia a trattare, ma
i corsari dovranno faticare molto per mettere in pericolo la coalizione
attuale fra conservatori e «progressisti». Avrebbero dunque perso
l’occasione d’oro: e cioé l’ondata di protesta prodotta dalla «mani
pulite» islandese, pochi mesi fa, con le dimissioni di un primo ministro
colto con le mani nel sacco dell’evasione fiscale.
Hanno votato
per la «capitana Birgitta», sicuramente, gli elettori più giovani. Hanno
votato per il centrodestra, altrettanto sicuramente, coloro che
preferiscono mantenere un’Islanda al di fuori della Ue (ma questo, anche
i Pirati lo escludevano) e non gradiscono accogliere come loro
concittadino onorario un Edward Snowden, gola profonda dei servizi
segreti americani (era appunto una delle promesse centrali della
«capitana Birgitta»). A questo punto ci si chiede se la «capitana»
cambierà linea, almeno di poco. Certo, non le verrà facile riprendere le
file di quell’accordo di massima già raggiunto l’altra sera con i
progressisti di «Sinistra Verde» e con quelli di «Futuro Luminoso», per
una maggioranza alternativa nel caso di un lungo vuoto di potere: gli
exit poll assegnano 32 seggi su 63 alla coalizione. E c’è molta
attenzione anche per «Risveglio», un movimento che si presentava per la
prima volta alle elezioni e che chiede la ripartenza delle trattative
per l’adesione dell’Islanda alla Ue: finora l’aveva chiesto in perfetta
solitudine, ma gli ultimi sondaggi hanno certificato che il 68% degli
islandesi condivide la stessa scelta anti-isolazionista, lontano dalle
tentazioni populiste anti-Ue.
L’Althingi è il Parlamento più
antico d’Europa, si riunì per la prima volta nell’anno 930: e anche
questi simbolismi sono importanti ora, nel momento in cui Londra se ne
va, L’Aja resta ma a malincuore (il governo olandese deve trovare entro
due giorni una risposta al no anti-Ucraina pronunciato mesi fa in un
referendum convocato dai populisti di Geert Wilders), e Marine Le Pen si
prepara a scendere in campo dalle parti di Parigi, o Viktor Urban
promette nuovi muri sui confini della sua Ungheria. In questo quadro,
l’Islanda era ed è certo un protagonista di sfondo. Ma non meno
importante di altri, appunto. Anche per la sua collocazione militare e
strategica: da decenni, è infatti il perno della rotta aero-navale della
Nato dal Centro-Europa verso gli Usa, oltre la Groenlandia.
Corriere 30.10.16
Chi è la donna che guida la rivolta contro i partiti
Da mamma disoccupata a leader anti politica. La lunga ascesa di Birgitta
di Luigi Offeddu
Altro
che folletto anarchico, mattacchione e anche divertente, come a volte
l’hanno dipinta i media. Su di lei, Birgitta Jónsdóttir, 49 anni, la
leader ufficiosa del «Partito Pirata» che dopo le elezioni politiche di
ieri potrebbe entrare per la prima volta in una coalizione di governo in
Islanda, la vita ha picchiato duro: padre adottivo e marito suicidi,
nel giro di pochi anni, una giovinezza vissuta in alcuni periodi da
madre single disoccupata con tre figli piccoli, e un giorno il salto
dall’Islanda all’altro capo della terra, Australia, in una landa
altrettanto sperduta dal nome (Mullumbimby) che starebbe bene in un
racconto di Harry Potter.
Per un anno soltanto, lei restò laggiù,
«ma qualcuno mi disse che un anno di vita per me sono sette anni per
chiunque altro. Sentii che quello — come ha spiegato lei stessa poco
tempo fa, in un’intervista alla rete televisiva Abc — sarebbe stato un
modo sano di vedere se stessi, andare alla fine assoluta del mondo e
fare un po’ di lavoro interiore, e capire meglio come un giorno avrei
potuto agire e funzionare in Islanda».
Ci sono naturalmente varie
Birgitte. C’è quella che già a 14 anni, e poi a 30 e praticamente fino a
ieri, si dice poetessa e basta, e si fa domande sulle sue radici
nordiche: «Ho sognato che tornava a cantare il mio sangue di
pellerossa..».
C’è la Birgitta ragazzina che cresce in un
villaggio di pescatori, nove mesi di oscurità nel corso di un anno, i
vulcani e i ghiacciai intorno a dettare le regole della vita e della
società insieme con le tradizioni degli anziani. Lei non mostra
reverenza per tutto questo, ma nello stesso tempo trova forza nel
confronto quotidiano con coloro che le stanno intorno: «In qualche modo,
nella mia alienazione da ragazza, riuscii a tramutare in forza queste
difficoltà».
C’è poi la Birgitta studentessa «anarchica», quella
confusa fra i tanti altri giovani che frequentano i pub «alternativi» e
le biblioteche della borghesissima Rejkyavick quando ancora l’Islanda è —
apparentemente — un piccolo paradiso finanziario e sociale: nessuno sa
ancora che cosa ci sia davvero oltre le pareti di quel paradiso, come
molto lontano da lì nessuno sa davvero che cosa nascondano le pareti
della Lehmann Brothers a New York; ma in qualche modo i giovani
«anarchici» di Rejkyavick l’hanno già intuito.
C’è infine, dal
2008-2009 in poi, la Birgitta che come tanti altri suoi coetanei vive la
rabbia del grande scandalo: il crac delle banche islandesi, i risparmi
della gente in fumo, i banchieri colti con le mani nella marmellata;
altro che la purezza ideale delle società vichinghe, il loro rigore
nell’amministrare le poche risorse concesse dalla natura, sghignazzano i
fogli satirici degli studenti. E ancora una volta, la leader «pirata»
di oggi è fra loro.
È questa Birgitta, mamma disoccupata e con tre
figli, che chiede di lavorare come volontaria nell’organizzazione di
WikiLeaks: «Voglio migliorare la società», dice ai suoi amici. «La
verità è rivoluzionaria», aveva scritto un giorno nelle sue poesie
echeggiando il vecchio Lenin, ma ora ha scoperto che anche il vecchio
Lenin imbalsamato, trasferito sul web senza regole né frontiere, può
ancora ribaltare il mondo.
È la svolta nella sua vita. Birgitta
conosce Julian Assange, lavora con lui al video scottante di «Collateral
Murder», «Assassinio collaterale» sugli omicidi di civili compiuti dai
soldati americani in Iraq. Nel 2009, fonda il «Movimento dei Cittadini»,
da cui nascono poi il «Movimento» e il «Partito Pirata»: libertà di
informazione totale, democrazia diretta del web, gli stessi concetti
portati oggi dai «Pirati» nella campagna per le elezioni politiche.
La
ragazzina ribelle di un tempo è diventata un personaggio importante, e
tosto. Ma è la stessa che un giorno scriveva dall’Australia, nel suo
blog personale: «Abbiamo bisogno di vedere e di sentire... perché nuove
idee crescano e perché la rivoluzione possa aver luogo».