domenica 30 ottobre 2016

MONDO

Repubblica 30.10.16
La sfida dei socialisti
di Piero Ignazi

LA CRISI che i partiti socialisti attraversano in tutta Europa, raccontata venerdì su Repubblica, è passeggera o segnala la fine di un ciclo storico? Non dovremmo stupirci se questa seconda ipotesi si avverasse. In fondo anche i partiti cristiano-democratici, un tempo dominanti nel cuore dell’Europa, si sono ora ridotti a poca cosa. Solo in Germania, grazie ad una virata in senso conservatore operata già alla fine degli anni Settanta, resiste ancora un partito di antiche radici confessionali, la Cdu di Angela Merkel. Questo partito ha mantenuto, e persino accresciuto in alcune fasi, il suo peso perché ha diluito il connotato religioso ormai incapace di convogliare consensi di massa ma, allo stesso tempo, non ha abbandonato i suoi referenti sociali privilegiati, agricoltori, lavoratori autonomi e piccola borghesia. Se un fattore identitario, come quello religioso, scoloriva, in compenso rimanevano saldi i riferimenti sociali, e i loro interessi venivano difesi senza esitazioni.
I partiti socialisti hanno seguito una traiettoria diversa. Anch’essi hanno annacquato gli ideali fondativi sostituendo la trasformazione radicale dei rapporti di produzione con la promozione del Welfare State. E fin qui tutto è andato liscio. Poi hanno fatto un passo nel campo del nemico accettando in pieno le logiche del mercato. Grazie a questa mossa coraggiosa sono riusciti a convogliare consensi di settori della borghesia prima restii ad appoggiare i partiti della “sinistra di classe”. Infine, terzo passaggio cruciale che spiega il loro successo negli ultimi decenni del secolo scorso, hanno anche sposato in toto i diritti individuali, assumendo quella nuova agenda “post-materialista” che privilegia la qualità della vita più che il benessere materiale.
I partiti socialisti pensavano così di avere rintuzzato sia l’offensiva del neo-conservatorismo, sia la sfida dei movimenti verdi ed ecologisti. La capacità di muoversi promuovendo politiche pro-market e politiche libertarie portava sulle sponde dei socialisti le componenti più istruite, benestanti e liberal della società. Il periodo d’oro della socialdemocrazia europea si realizza proprio quando queste nuove acquisizioni convivono sotto lo stesso manto con la tradizionale classe operaia. Solo che questo equilibrismo non è durato molto.
Ad un certo punto i socialisti hanno cominciato a perdere il consenso delle classi sottoprivilegiate in genere. Questo perché avevano diluito troppo la loro identità e, allo stesso tempo, non avevano più difeso con vigore quegli interessi. Il distacco delle componenti operaie è stato rapido, massiccio e traumatico. In pochi anni milioni di voti sono transitati dalla sinistra alla destra estrema. Si sono sentiti abbandonati ed esclusi. Ancor peggio: si sono sentiti traditi perché i loro vecchi partiti si occupavano di “compiacere i mercati” smantellando pezzi di welfare e limando conquiste sociali. E per questo hanno scelto l’alternativa più radicale che offre loro un surrogato di identità sotto specie di comunità nazionale e, priva di ogni freno, offre mari e monti. Bastava aver assistito al dibattito tra l’ex ministro dell’Economia francese Emmanuel Macron e il pur attrezzato numero due del Front National francese Florian Philippot per capire come i populisti di Marine Le Pen raccontino favole irrealistiche quanto seducenti per chi ha perso speranza.
Oggi tutti i partiti di sinistra, Pd compreso, si confrontano con questa sfida epocale. Forse subiranno un ridimensionamento irreversibile, forse riusciranno a riconquistare il loro antico elettorato. Una via possibile passa dal riportare al centro della politica il tema della giustizia e dell’equità sociale, cercando così di riannodare i fili con quei settori della società che si sentono alla deriva, traditi dai loro storici difensori. Altrimenti sarà difficile evitare che costoro vadano ad ingrossare le file del risentimento e i consensi dei populisti di destra.

Corriere 30.10.16
L’assistente, il marito infedele e il poliziotto
Il terzetto che rischia di affossare Hillary
di Massimo Gaggi

NEW YORK «Oh mio Dio, ancora questo Weiner» sospira il vicepresidente Joe Biden intervistato dalla Cnn sulla riapertura delle indagini dell’FBI sull’«Emailgate» che mette spalle al muro Hillary Clinton a dieci giorni dal voto per la Casa Bianca. Quella della ex First Lady con Huma Abedin e con il suo (ormai ex) marito Anthony Weiner è una storia che può alimentare una straordinaria rappresentazione teatrale: bisogna solo scegliere tra commedia, farsa e tragedia.
Hillary, che sicuramente ha commesso gravi errori di suo, rischia ora la presidenza per effetto delle intemperanze sessuali e i comportamenti estremamente avventati di un uomo che lei stessa aveva spinto, molti anni fa, tra le braccia della sua assistente prediletta, Huma: una donna che è al suo fianco da 21 anni e che lei considera una seconda figlia. Ma che, a quanto pare, ha tradito la sua fiducia lasciando che migliaia delle sue mail, comprese quelle relative all’attività sua e della ex First Lady al Dipartimento di Stato, finissero negli account e, quindi, nei computer personali del suo disgraziatissimo marito.
Tutto iniziò una quindicina d’anni fa, come una bella favola. Weiner, allora rampante deputato democratico, andò a trovare Hillary che aveva da poco lasciato la Casa Bianca. Accanto a lei, come durante la presidenza di Bill, c’era Huma, che aveva cominciato a lavorare per i Clinton da stagista. Weiner la invita fuori per un drink. Huma fa segno di no con la testa, ma Hillary la incoraggia: «Certo che devi andare». Corteggiamento lungo: solo nel 2007 lei mostra di apprezzare Anthony, e solo perché lui si schiera con Hillary e non con Obama per la presidenza. I due si sposano nel 2010, celebra Bill Clinton. Lui ebreo, lei musulmana per nulla dogmatica nata in Michigan ma cresciuta in Arabia Saudita coi genitori indopachistani. Una coppia bella, felice e potente: la rappresentazione dell’integrazione di religioni e culture della quale l’America vorrebbe essere l’incarnazione.
La serenità dura poco: il demone dell’esibizionismo sessuale che divora Weiner lo costringe a dimettersi da membro del Congresso, dopo che le foto di sue parti anatomiche, pene compreso, scambiate con sei donne su Twitter, arrivano ai giornali.
Carriera politica finita e matrimonio che traballa. Ma Huma lo perdona e Hillary l’appoggia. Due anni dopo, secondo scandalo: Weiner ci ricasca mentre cerca di ricostruire la sua carriera correndo per la carica di sindaco di New York. Stavolta usa uno pseudonimo, Carlos Danger, ma serve a poco: di nuovo sbugiardato dalla stampa.
Stavolta ha chiuso con la politica, e anche il matrimonio sembra finito. Ma c’è di mezzo un bimbo nato da poco. Huma ci pensa a lungo. Poi decide ancora una volta di restare al suo fianco. Hillary accetta di nuovo la sua decisione nonostante la situazione chiaramente rischiosa e i danni di immagine che comporta.
Solidarietà tra donne umiliate dalle trasgressioni dei rispettivi mariti, sostengono i «buonisti». Tendenza da capobranco dei Clinton che cercano di difendere sempre e comunque i membri del loro clan, replicano altri, più disincantati. E poi ci sono i maliziosi, secondo i quali, con l’esperienza quadriennale al Dipartimento di Stato ormai alle spalle, Huma sapeva troppo: non poteva più essere lasciata al suo destino.
Le ultime pagine della storia sono dei mesi scorsi. Huma ormai non è più vista come una mite assistente. È vicepresidente della campagna elettorale, il potere che ha acquistato stando sempre al fianco di Hillary l’ha resa invisa a molti e la sua immagine è stata compromessa dallo scandalo dei pagamenti multipli: retribuita simultaneamente dal Dipartimento di Stato, dalla Fondazione Clinton e da Teneo, una società di consulenza di Douglas Band, ex consigliere di Bill alla Casa Bianca e vecchio amico di famiglia.
Ad agosto, due mesi fa, Weiner cade ancora: stavolta le foto scambiate online finiscono sul New York Post . Anthony riprende il suo inguine. È steso a letto e al suo fianco c’è il figlio di quattro anni. È troppo: Huma annuncia il divorzio. Ancora un mese: a fine settembre il Daily Mail racconta che Weiner è stato sorpreso di nuovo a scambiare foto con una ragazzina del North Carolina.
La storia scompare quasi subito dai giornali: Huma l’ha abbandonato, Anthony è un uomo alla deriva. Ma, in realtà, è questo il caso che provoca la deflagrazione: la ragazzina in questione è una minorenne, ha 15 anni.
C’è di mezzo, quindi, un reato: l’FBI si mette a indagare. Weiner deve consegnare i suoi computer dai quali saltano fuori migliaia di email «sospette».
Giovedì sera gli investigatori si presentano dal loro capo e così sul palco di questa tragicommedia sale il terzo protagonista: James Comey, il repubblicano apprezzato dai democratici che Barack Obama ha messo a capo della polizia federale. Trattato da traditore dal suo partito quando chiuse l’inchiesta «Emailgate» senza incriminare la Clinton, diventa l’eroe di Trump ora che ha deciso di riaprirla a una manciata di giorni dal voto.

La Stampa 30.10.16
Su Hillary l’ombra di reati nelle mail nascoste all’Fbi
La candidata non rivelò l’esistenza dei testi. Rischia l’accusa di spergiuro
L’indagine si allarga. I democratici: “Comey spieghi, così viola la legge”
di Paolo Mastrolilli

Le mail al centro della nuova inchiesta su Hillary Clinton erano contenute in apparecchi che i suoi avvocati non avevano neppure denunciato nell’indagine precedente chiusa a luglio. Quindi possono portare all’individuazione di altri reati finora non considerati, come l’ostruzione della giustizia e la falsa testimonianza. Lo rivelano a «La Stampa» fonti direttamente informate sull’inchiesta, aggiungendo che il direttore Comey non avrebbe mandato la lettera al Congresso senza aver visto le mail.
Le migliaia di documenti si trovavano su un iPad, un cellulare e un computer Dell condiviso da Huma Abedin, storico braccio destro di Hillary, e dal suo ex marito Anthony Weiner, ora indagato perché aveva inviato messaggi di natura sessuale ad una ragazza quindicenne della North Carolina. Analizzando gli apparecchi sequestrati il 3 ottobre per questa inchiesta, gli agenti dell’Fbi hanno trovato le nuove mail. Durante l’indagine sul server privato di Clinton chiusa a luglio, i suoi avvocati non avevano denunciato l’esistenza di questi strumenti. I motivi, secondo le nostre fonti, possono essere solo due: o non sapevano che esistevano, o volevano nasconderli. In entrambi i casi, la loro scoperta porta ora l’inchiesta in direzioni impreviste e imprevedibili.
Il secondo problema grave per Hillary è che lo scopo dell’indagine adesso si allarga. La precedente era concentrata sulle violazioni nella gestione delle informazioni classificate del governo, che non dovevano transitare su un server privato. Alla fine Comey ha stabilito che Clinton e i suoi collaboratori si erano comportati in maniera «estremamente irresponsabile», ma non avevano commesso reati. Ora l’obiettivo cambia. Gli agenti dell’Fbi stanno controllando le mail per verificare se sul computer privato di Abedin e Weiner sono finiti documenti segreti, ma non si fermeranno qui. Huma è la collaboratrice più stretta di Hillary, e quindi è possibile che nella posta sequestrata ci siano anche comunicazioni personali e dirette. Questi scambi potrebbero contenere informazioni riguardo al modo in cui la campagna di Clinton intendeva gestire lo scandalo mail, magari ostruendo il corso della giustizia. Per fare un esempio, indicazioni sui circa 30.000 messaggi distrutti e mai consegnati all’Fbi. Cosa contenevano? Come e perché sono stati eliminati?
I nuovi documenti potrebbero anche provare che l’ignoranza professata da Hillary durante gli interrogatori del Bureau sul contenuto di alcune mail, la loro classificazione segreta, e la loro distruzione, era falsa. Se questo apparisse evidente nelle comunicazioni fra lei e Huma, si potrebbe configurare il nuovo reato di spergiuro, cioè lo stesso per cui Bill Clinton aveva subito l’impeachment della Camera durante lo scandalo Lewinsky.
In entrambi i casi l’inchiesta prenderebbe una direzione completamente nuova, che potrebbe portare al nulla, ma anche all’incriminazione del presidente, se dopo la sua elezione l’8 novembre l’Fbi arrivasse alla conclusione che Hillary ha violato la legge. Un incubo per gli Usa, che si ritroverebbero nel pieno di una crisi costituzionale, col capo della Casa Bianca portato a processo da un’agenzia alle sue dipendenze. Le fonti aggiungono che Comey non avrebbe mai mandato la sua lettera al Congresso se non avesse già visto almeno in parte le mail e verificato che contengono informazioni di potenziale natura criminale.
La campagna di Clinton ieri ha risposto con una conference call a cui hanno partecipato il presidente John Podesta e il manager Robby Mook. John ha accusato «Comey, un repubblicano, di aver preso un’iniziativa senza precedenti, che viola le pratiche dell’Fbi sulle inchieste in corso, ed è contro le raccomandazioni del ministro della Giustizia. Ora ha il dovere di spiegare agli americani il motivo». Lo stesso Comey ha ammesso in un messaggio ai dipendenti di aver compiuto il passo inusuale di commentare un’inchiesta in corso perché è legata alle presidenziali, e così si è esposto al sospetto di un complotto politico. Podesta lo sfida perché è sicuro che «le nuove mail non contengono nulla che provi reati. Molte sarebbero solo duplicati di messaggi che l’Fbi aveva già visto», e Abedin li aveva inviati sul suo computer personale per stamparli: «Huma non ha fatto nulla di male e non si dimetterà». Hillary quindi ha deciso di reagire andando all’attacco, ma un sondaggio pubblicato ieri dal Washington Post, fatto prima dell’annuncio di Comey, la dà solo 2 punti avanti a Trump. La corsa alla Casa Bianca è riaperta.

La Stampa 30.10.16
La campagna delle sorprese frena Hillary
di Maurizio Molinari

Le rivelazioni sull’Fbi sulle email di Hillary Clinton confermano che l’attuale sfida per la Casa Bianca passerà agli annali come la campagna delle sorprese.
Tradizione vuole che sia la «sorpresa d’ottobre» a poter essere decisiva sull’esito del duello per lo Studio Ovale, ma in questa occasione è andata diversamente perché le sorprese hanno accompagnato la sfida sin dalle primarie in Iowa. L’incapacità dell’establishment repubblicano di unirsi attorno ad un candidato, il successo dell’outsider Donald Trump nel polverizzare i concorrenti conservatori, l’affermarsi di un popolo della rivolta che sfugge ai sondaggi, il successo del settantenne Bernie Sanders nel rappresentare la voglia di novità dei giovani progressisti e il giallo sulla salute di Hillary Clinton hanno accompagnato elettori ed analisti sulle montagne russe di una campagna elettorale che in agosto aveva la candidata democratica in solido vantaggio ed in settembre registrava il recupero del rivale repubblicano, fino ad pareggio statistico.
I tre dibattiti televisivi hanno giovato a Hillary, più presidenziale e preparata di Trump, ma ora la nuova indagine degli agenti federali sulle email dell’ex Segretario di Stato - sospettata di aver violato le norme sul top secret - fa percepire agli americani che la sfida torna ad essere aperta. Per comprendere il perché di tale sentimento collettivo bisogna partire dal paradosso registrato nella seconda metà di ottobre. Trump è uscito dai dibattiti non solo sconfitto, ma travolto da scandali, rivelazioni ed errori da cui non si è saputo difendere, con un team elettorale bersagliato dalle defezioni, dalla carenza di donazioni - incluse quelle della sua stessa Fondazione - e quindi dalla diminuzione degli spot tv negli Stati in bilico, ovvero l’arma strategica per corteggiare gli indecisi. Nonostante tali e tanti indicatori negativi - a fronte di una campagna di Hillary ricolma di dollari, corteggiata dall’establishment bipartisan e pressoché senza avversari sui media - Trump ha continuato ad avere in tutti i sondaggi una quota minima di popolarità del 40 per cento di favori. Ciò significa che per una parte importante dell’elettorato - in gran parte bianco - tutti i parametri tradizionali delle elezioni americani non valgono. Da qui il timore del team di Hillary, guidato da un mastino di Washington come John Podesta, che la decisione dell’Fbi possa riaprire una sfida già considerata vinta, al punto che - come Paolo Mastrolilli ci ha raccontato ieri - la candidata ha illustrato ai più stretti collaboratori i piani di battaglia per dilagare negli Stati tradizionalmente conservatori, come l’Arizona. A giovare a Trump è in particolare il fatto che durante i dibattiti tv l’unico e vero affondo efficace contro Hillary è stato proprio sulle 33 mila email sottratte al Dipartimento di Stato. È solo su questo terreno che l’ex Segretario di Stato è stata obbligata ad ammettere: «Ho sbagliato». Così come proprio riferendosi alle email, Trump si è spinto a fino a dirle, con tono sprezzante: «Dovresti finire in prigione». Per il candidato del popolo della rivolta la carta delle email di Hillary è stato l’unico vero fronte d’attacco dove è riuscito a imporsi. L’unica carta che ha giocato con insistenza. Ed è questo punto debole dei democratici che ora è diventato la sorpresa del momento. Riaprendo una sfida per la Casa Bianca che in molti davano già per conclusa. Ma all’Election Night mancano ancora 10 giorni e le sorprese potrebbero non essere finite. Come ripeteva l’indimenticabile campione italoamericano dei «New York Giants», Vince Lombardi: «It Ain’t Over Till It’s Over», non è finita fino a quando è finita.

Corriere 30.10.16
Il team Clinton chiuso a riccio: per noi un disastro
Rivelando l’indagine sulle email, l’Fbi ha ignorato il ministro della Giustizia che ammoniva di non interferire
di M. Ga.

NEW YORK L’«Emailgate» di Hillary Clinton riesplode con la decisione dell’Fbi di riaprire le indagini dopo la scoperta di altre migliaia di email nei computer di Anthony Weiner: messaggi che l’ex deputato indagato per reati sessuali con minorenni ha scambiato con per anni con la moglie (ormai ex) Huma Abedin, la più stretta collaboratrice di Hillary Clinton. La candidata democratica, costretta a fronteggiare una crisi forse devastante per la sua campagna a dieci giorni dal voto, ha chiesto all’Fbi di rendere subito pubblico tutto quello che ha trovato, per non lasciare gli elettori nell’incertezza. Ma quasi certamente gli investigatori non formalizzeranno anche solo parte dell’inchiesta in così pochi giorni. Il caso, quindi, diventa battaglia politica all’arma bianca con i democratici che accusano il loro capo, James Comey, di aver fatto un favore politico ai sui amici repubblicani.
Ieri si è appreso che la decisione di Comey (nominato da Obama nel 2013 e in carica per dieci anni) di informare il Congresso della riapertura dell’inchiesta è stata contestata dal ministro della Giustizia, Loretta Lynch, e dalla sua vice, Sally Yates. La Lynch non ha contestato la decisione di riaprire le indagini davanti all’emergere di nuovi elementi raccolti durante l’inchiesta Weiner, ma aveva chiesto a Comey di non informare il Congresso sulla base di una prassi consolidata: non si forniscono informazioni su indagini politicamente sensibili. Comey, però, è andato per la sua strada sostenendo che questo è un caso particolare, visto che lui è stato chiamato a riferire più volte davanti al Parlamento. Non poteva, quindi, tacere davanti a uno sviluppo che capovolge le decisioni — chiusura dell’inchiesta senza incriminazioni per la Clinton — che aveva comunicato al Congresso poche settimane fa.
Ora Comey, il traditore diventato eroe per i repubblicani, è sotto il fuoco delle accuse dei democratici. Che temono serie ripercussioni elettorali. «È come se ci avesse investito un tir», ha commentato Donna Brazile, leader del Democratic National Committee. Gli ultimi sondaggi già segnalavano un recupero di Trump: dato a due punti dalla Clinton (47 a 45) in una rilevazione completata giovedì, poche ore prima dell’annuncio della riapertura delle indagini, da Washington Post e Abc . Altri sondaggi danno ancora un vantaggio più ampio alla Clinton.
Cosa accadrà ora? Il principale problema, per Hillary, è l’ulteriore colpo alla sua credibilità anche tra democratici e indipendenti. Un sondaggio mirato della Fox indica che, se il 99 per cento dei sostenitori di Trump considera la Clinton disonesta, anche il 32 per cento dei democratici che la voteranno non giudica l’ex «first lady» degna di fiducia. Mentre tra gli indipendenti, solo il 14 per cento si fida di lei.

La Stampa 30.10.16
“Mandate la Clinton in galera”
Trump trova la spinta giusta e azzera il distacco nei sondaggi
È a meno 2 dalla rivale. L’effetto “mailgate” ancora deve farsi sentire
di Gianni Riotta

Che week end di Halloween 2016! Donald Trump, candidato repubblicano, salta nei sondaggi al 45%, due soli punti dietro la democratica Hillary Clinton. E i numeri non calcolano ancora la reazione di un elettorato stanco, frustrato, malmostoso al caos scatenato da James Comey, repubblicano capo dell’Fbi nominato da Obama, con la irrituale lettera al Congresso su nuovi, possibili, accertamenti a proposito di e-mail della Clinton.
Trick or Treat, scherzetto o dolcetto, l’America si maschera anche in politica, due tribù l’una contro l’altra armate. In New Hampshire, dove Hillary è avanti di un punto, e in Iowa, Trump avanti di un punto, il magnate di New York accoglie il dolcetto Fbi incitando le folle a «sbattere in galera Hillary», l’accento rotondo di Queens, suo quartiere natale, rilanciato rauco dai microfoni. La colonna sonora è adesso i Rolling Stones, «You can’t always get what you want», i versi dei vecchi rockettari colgono l’humor nero trumpista. Siamo andati giù alla dimostrazione, a prenderci la vostra buona dose di insulti, cantando «Noi vogliamo urlare la nostra frustrazione, altrimenti facciamo esplodere pure le valvole da 50-amp!».
Trump rioccupa il terreno prediletto, il trash, il sospetto, al confine tra Vero, Falso, Verosimile, dove i militanti si caricano di energie anti Hillary, «bitch», la cagna delle t-shirt più vendute. Come osservano nel saggio appena pubblicato da Franco Angeli, «Misinformation, Guida all’età dell’informazione e della credulità» gli studiosi Quattrociocchi e Vicini, gli elettori colgono online solo i fatti che aderiscono alle loro opinioni, magma fazioso in cui Trump sguazza a suo agio. L’Fbi non ha rimesso Hillary sotto inchiesta – almeno per ora -, e Comey ha disubbidito alle indicazioni dirette del ministro della Giustizia Lynch, temendo probabilmente di essere accusato dal suo partito di parzialità filo democratici. Trump ha però buon gioco a infierire sugli errori, stupefacenti, della rivale: permettere alla fida consigliera Huma Abedin, moglie separata del disgraziato ex deputato Wiener, sorpreso a ripetizione con sms porno pare anche a minorenni, di condividere con l’assatanato coniuge il telefonino. E da questo scaricare, e stampare, mail dell’allora segretaria di Stato perché Hillary, ahinoi analfabeta digitale, non legge se non su carta e non distingue un server web privato da uno pubblico.
La volata della campagna più pazza a memoria d’uomo, e stavolta sembra non entrarci Putin con gli gnomi hacker pronti a rubacchiare mail democratiche e girarle a Wikileaks, rioffre a Trump l’occasione per vincere sul filo di lana, o almeno perder bene. Lo stato maggiore del partito repubblicano, umiliato nelle primarie in primavera, costretto al silenzio dalla populista Convenzione di Cleveland in estate, aveva trovato nella débâcle delle molestie sessuali di Trump in autunno occasione per rialzare la testa, con i due ex candidati, McCain 2008 e Romney 2012 a guidare lo sdegno contro «il barbaro» Trump. Ora è in gioco anche il Senato, dove il partito ha la maggioranza 54 a 46, ma teme il pareggio 50-50 (maggioranza andrebbe ai democratici, con il vicepresidente Kaine a rompere l’impasse). Dire no a Trump e perdere la Camera Alta rischia di facilitare a Hillary la nomina di giudici costituzionali progressisti.
Con Obama che si sgola a far comizi, Florida, North Carolina e Ohio stati in altalena tra i partiti, i leader repubblicani devono trangugiare l’amara realtà. Vinca o perda a novembre, Donald Trump è il loro Clown Killer, il mostro fantastico che i bambini temono divertiti questo Ognissanti. La sua presenza nella destra è e resterà forte, se davvero lanciasse un canale di talk show, ogni candidato dovrà genuflettersi, se partecipasse a future campagne sarà ostico ignorarne i seguaci scatenati.
A 192 ore dal voto il pasticciaccio Comey-Fbi conferma la debolezza di Hillary come candidata (nei sondaggi parecchi repubblicani la battono facilmente), corroborata solo dall’impopolarità di Trump. Se l’aria infelice che pesa sulla democratica e il richiamo della foresta del machismo di Trump strappassero all’astensionismo gli arrabbiati elettori maschi bianchi che lo adorano, per la Clinton sarà una lunga notte, l’8 di novembre. Per questo dal presidente, alla popolarissima First Lady Michelle, alla esausta Hillary, al bonario vicepresidente Biden il grido comune è «Votate!», per questo Trump rialza a palla il volume dei Rolling Stones «Facciamo esplodere tutte le valvole!».

La Stampa 30.10.16
Ohio, tra le tute blu tentate da Donald “Pronti a fare il salto”
“Questo scandalo lo farà vincere”
di Francesco Semprini

Gli studenti della Youngstown State University mettono a punto i carri in vista di Halloween, si respira un’aria frizzante in questa città dell’Ohio, e non solo per l’arrivo della notte delle streghe. La notizia delle nuove indagini sulle mail di Hillary qui è rimbalzata alla velocità della luce, riaccendendo le speranze di vederla chiusa fuori dai cancelli della Casa Bianca. Se ne discute con animosità in un McDonald davanti al campus, dove è in corso la festa degli studenti. «Basta che si azzuffino - dice George, afro-americano sui 60 anni - Di noi non interessa a nessuno». «Sicuramente non alla Clinton - replica Ted, 50enne bianco - È una strega». Ted è uno «steeler», tuta blu dell’acciaio di una delle rare imprese sopravvissute alla crisi della «Rust Belt», l’industria pesante messa in ginocchio dalla delocalizzazione. Rust, ruggine, come quella che ha divorato Youngstown, un declino iniziato negli anni ’80 e accelerato dagli accordi di libero scambio Nafta e Wto. Gli oltre 160 mila abitanti degli anni ‘60 sono oggi 64 mila. Un impulso alla rinascita è dato dall’ateneo, «l’incubatore della ripresa», come l’ha definito Obama, e grazie al quale si sta sviluppando un distretto di start-up. Ma il timore è che con i nuovi accordi Ttp e Ttip, la città, lo Stato, la nazione, venano gambizzati di nuovo. «Con Hillary faranno la stessa fine anche loro», dice Ted indicando il tappeto di felpe rosse degli universitari. Rosse come il cappello che lo «steeler» indossa, con la scritta «Fare l’America grande di nuovo». Ma a Youngstown si parte da un gradino più basso: «Save America, Vote Trump», recitano i cartelloni tra le vie della città. Perché ancor prima di rifare grande il Paese occorre salvarlo dalla strega, dice Donald Skowron, poliziotto in pensione e militante repubblicano. È lui ad aver creato il motto «Cross Over», fai il salto, che campeggia sui muri di Youngstown o su alcuni furgoncini. La città non elegge un candidato del Gop da quando Nixon vinse le elezioni del 1972, ma ora il cambiamento è «un dovere». Il primo «Cross Over» è stato di Ronald Skowron, fratello di Donald, ex vice sceriffo ed ex democratico, oggi sostenitore di Trump per il quale fa campagna nella contea di Mahoning, secolare feudo blu forgiato dalle «Union» dopo la Grande Depressione. Oggi però le tute blu hanno fatto il salto anti-sistema, spinti dal rancore per Washington e dal «tradimento di quell’establishment democratico che fa politiche per l’1% e strizza l’occhio a clandestini e disoccupati per scelta». E con loro questa volta ci sono anche i sindacati, come il «Golden Lodge Local» di Canton, oltre cento chilometri a sud-ovest. Bocche cucite ufficialmente, ma a microfoni spenti ammettono il loro «piccolo segreto». «In realtà i blue collar sono spaccati - dicono - Se le priorità sono economia e lavoro allora voti Trump». E tra le tute blu l’economia, quella micro e non dei grandi sistemi, conta eccome. Conta in tutta la cintura della ruggine, nella Washington County, una delle dieci contee della Pennsylvania «indecise» per vocazione, ma che si stanno colorando inesorabilmente di rosso. L’allarme giunge a gran voce da Ron Sicchitano, ex minatore e presidente del Partito democratico locale: «Le invettive contro il carbone di Obama e Clinton ci stanno devastando». Così qui Trump ha gioco facile, come a Youngstown, dove si invoca un nuovo «Black Monday», il lunedì nero del settembre di 39 anni fa, quando gli operai invasero la città per manifestare contro la chiusura di «Youngtown Sheet and Tube». Mentre c’è chi rivive nel tycoon di New York l’epopea di Jim Traficant, «cowboy democratico» e unico candidato dell’Asinello eletto al Congresso nell’anno in cui Reagan sbancò in 49 Stati. Esuberante e controverso politico dalla chioma bizzarra che prometteva legge e ordine a «Crimetown» (nomignolo di Youngstown), e chiedeva restrizioni all’immigrazione con lo slogan «America First». La sua maschera e quella di Trump sono tra quelle dei carri dell’Halloween di Youngstown: «Un rito - dicono - per celebrare lo scandalo mail ed esorcizzare la “strega”».

Il Sole 30.6.16
Non era meglio aspettare?
Anche l’Fbi finisce nella tempesta
di Mario Platero

È il momento dei veleni. Ma anche di una crisi istituzionale senza precedenti in America. Per intervento dell’Fbi riemerge lo scandalo emailgate di Hillary Clinton.
E il “Reality Show” di queste incredibili elezioni americane arriva alla miscela esplosiva finale: e-mail, conflitti di interesse, sesso, menzogne, abusi di potere, depravazioni, sospetti, si intrecciano seguendo un unico filo conduttore, l’incertezza. Incertezza sulle ragioni dell’intervento dell’Fbi a dieci giorni dall’appuntamento alle urne, incertezza sull’esistenza di e-mail che possano davvero inchiodare Hillary Clinton, incertezza sull’esito elettorale. Incertezza dei mercati. Incertezza dello stesso capo dell’Fbi, James Comey: «Per ora non sappiamo granché», ha di fatto scritto al Congresso. Ma la bomba è esplosa lo stesso, facendo schricchiolare l’impianto democratico americano. Non era meglio aspettare?
«Nel dubbio astieniti» dice il vecchio proverbio. Eppure Comey nel dubbio è andato avanti. Ecco perché la crisi degli ultimi due giorni oltre che elettorale diventa istituzionale. La separazione dei poteri, cardine di questa democrazia, tutela l’autonomia dell’Fbi in cambio di un paio di contropartite, equilibrio e certezze. Esattamente il contrario di quel che è successo, Comey non ha solo introdotto improvvisi drammatici elementi di incertezza a dieci giorni dalle elezioni per la Casa Bianca 2016, ma lo ha fatto con una forte impulsività.
Per questo sia democratici che repubblicani chiedono i fatti e attaccano l’Fbi. E fanno bene, perché un’uscita di questo genere - la diffusione del sospetto e della calunnia senza possibilità di assoluzione o di conferme delle accuse “prima” delle elezioni - non è solo miscela esplosiva, ma abuso di potere. Trump sa che solo la pubblicizzazione di una e-mail devastante per Hillary potrebbe davvero aprirgli le porte della Casa Bianca. Hillary sa che senza la prova che le e-mail non contengono nulla di nuovo rischia di vedere franare la sua solida maggioranza per vincere la Casa Bianca. E se vincerà sarà anatra zoppa prima ancora di cominciare. L’unica certezza per ora è che nell’era di Internet dieci giorni sono un’eternità.
Resta un mistero: se Comey non sapeva, come ha confessato al Congresso, perché non ha atteso l’esito dell’inchiesta, la verifica delle e-mail prima di gettare barili di benzina in uno scenario politico incandescente? C’è chi dice, come Carl Bernstein, il giornalista che ha denunciato lo scandalo Watergate, che lo ha fatto perché le prove erano schiaccianti. Ma può aver anche ceduto alle pressioni di agenti disillusi dopo l’archiviazione del caso contro Hillary in luglio. Sappiamo che Comey è stato attaccato all’interno. Sappiamo che è repubblicano. Ma sappiamo anche che è al di sopra di ogni sospetto di parzialità, per questo Obama lo ha scelto. E allora? Per Comey forse ha prevalso la difesa dell’integrità e dell’autonomia del suo Bureau, la necessità di tirare dritto proprio per tutelare la separazione dei poteri ex post. Ma l’autonomia istituzionale chiede responsabilità al servizio del Paese. Che la sacrosanta separazione dei poteri abbia invece portato a irresponsabilità e al disservizio per gli americani, la dice lunga sulla crisi delle democrazie occidentali.

il manifesto 30.10.16
L’ipotesi di un «inside job»: chi ha interesse in questo scandalo
Stati uniti. Al momento si sa ancora molto poco visto che l’indagine su Weiner è in corso, ma le teorie di complotto interno rendono bene l’idea di come questa sia la peggiore campagna elettorale di sempre
di Marina Catucci

NEW YORK La notizia dell’apertura da parte dell’Fbi di un nuovo caso riguardante le mail di Hillary Clinton si è abbattuta sui media e su una campagna elettorale che riserva una sorpresa al giorno. Che una notizia di queste proporzioni arrivi 10 giorni prima delle elezioni fa sollevare mille illazioni riguardo chi ci sia davvero dietro questo scoop.
Facendo un passo indietro, nei mesi passati c’è stato un fuoco di fila di rivelazioni riguardanti i democratici, tutte arrivate tramite hackeraggi alle mail del partito e dei suoi funzionari; rivelazioni il più delle volte divulgate dall’arci nemico di Hillary Clinton, Julian Assange. Una delle voci più autorevoli ad essersi alzata a proposito di tutte queste rivelazioni riguardanti le mail dei democratici, è stata quella di Bill Binney, analista americano che, dopo 36 passati a lavorare per la National Security Agency di cui è stato direttore tecnico, coordinando il lavoro di 6.000 uomini, resosi conto del programma di controllo di massa che aveva contribuito ad implementare ai danni dei cittadini americani, ha deciso di renderlo pubblico diventando un whistleblower. Binney, qualche anno prima di Edward Snowden, ha tentato di opporsi ai programmi di sorveglianza di massa di George W. Bush e ne ha parlato pubblicamente in occasioni come la conferenza hacker newyorkese Hope, in un intervento immortalato da Laura Poitras e che apre il suo film Citizen four.
Una delle peculiarità di Binney è quella di essere uno dei più grandi crittografi che la Nsa abbia mai avuto; in occasione delle rivelazioni sui democratici rese pubbliche da WikiLeaks, Binney è stato interpellato più volte e in diverse occasioni ha parlato della fuga delle email dei democratici attraverso un’analisi del tutto diversa da quella presentata dal governo americano; di base Binney ha respinto le certezze che danno per sicure le prove e le tracce informatiche che portano a parlare di un’incursione di hacker russi nel furto di mail. Secondo Binney, invece, le tecniche usate, anche nei leaks riguardanti le mail di Podesta, il capo della campagna di Hillary, porterebbero direttamente alla Nsa, un inside job, come si dice, un lavoro interno operato da un braccio della stessa Nsa.
Secondo Binney la NSA ha sistemi che possono rintracciare i pacchetti di informazioni mentre lasciano la casella di posta della Dnc, e seguire i loro percorsi fino alla «posta in arrivo» di WikiLeaks. Queste affermazioni sono state ripescate anche in questa occasione per sostenere l’ipotesi che anche in questo caso si sia di fronte ad un altro inside job, con un braccio dell’Fbi che non ha mai smesso di indagare sulle mail di Clinton, così come altre voci ipotizzano che il capo dell’Fbi, stia in realtà lavorando per Putin per discreditare Clinton, cosí come lo si è ipotizzato per WikiLeaks. Al momento si sa ancora molto poco visto che l’indagine su Weiner è in corso, ma le teorie di complotto interno rendono bene l’idea di come questa sia la peggiore campagna elettorale di sempre.

Il Sole Domenica 30.10.16
Stati Uniti
Una Costituzione fondata sulla frontiera
di Massimo Teodori

L’eco delle origini degli Stati Uniti come nazione dei pionieri che nel Settecento e Ottocento colonizzarono il continente nordamericano si fa sentire ancora nelle pulsioni populiste che percorrono l’elezione presidenziale di quest’anno. Alla fine del secolo XIX un giovane storico americano, Frederick J. Turner, pubblicò il saggio The significante of the Frontier in American History che pose l’epopea della frontiera al centro della storia americana. La tesi, destinata a dominare il dibattito intellettuale fino agli anni 30 del Novecento, sosteneva che le istituzioni e le culture delle tradizioni europee, trasferite nell’ambiente vergine del continente americano, si erano del tutto trasformate e avevano prodotto forme originali di vita individuale e collettiva. La personalità degli americani era stata plasmata secondo un carattere pratico, energico e individualista, naturalmente tendente all’egualitarismo, alla democrazia e all’autogoverno senza il peso delle antiche gerarchie del Vecchio continente.
Partendo dai presupposti elaborati da Turner, Andrea Buratti sostiene nel saggio La frontiera americana. Una interpretazione costituzionale che la frontiera ha influito anche sul modo in cui le regole costituzionali hanno pesato sullo sviluppo degli Stati Uniti, originariamente costituiti da tredici colonie che si estendevano tra l’oceano Atlantico e i monti Allegheny con quattro milioni di abitanti, in un secolo trasformatisi in una nazione continentale con 80 milioni di cittadini in gran parte di origine pionieristica. Durante l’avanzamento della frontiera verso Ovest il principale problema istituzionale riguardava il regime sotto cui i nuovi territori dovevano entrare a far parte degli Stati Uniti d’America governati dalla Costituzione federale del 1789. La questione era a chi spettava governare gli immensi territori che, con l’acquisto di ampie regioni, la guerra ai confinanti e la repressione dei nativi, mano a mano passavano sotto la bandiera a stelle a strisce. Doveva prevalere il potere di Washington o bisognava instaurare una qualche regola democratica? Doveva predominare l’esercito federale o le milizie territoriali?
L’Ordinanza del Nord-Ovest, emessa nel 1787, ancor prima che i Founding Fathers siglassero definitivamente la Costituzione federale, è il documento che stabiliva la forma istituzionale a cui dovevano assoggettarsi i nuovi territori che passavano sotto la giurisdizione statunitense, dapprima con le regioni fino ai grandi laghi (con la formazione degli Stati dell’Ohio, Indiana, Illinois, Michigan e Wisconsin) e poi con tutti gli altri nuovi Stati aggregatisi a Washington fino al 1913. Accanto alla Costituzione federale, liberale e federalista, l’Ordinanza del Nord-Ovest ebbe il merito di dare una legge quadro democratica alla peculiare popolazione di frontiera che con l’immigrazione andava crescendo a ritmi intensi e si diffondeva negli immensi territori estesi dal bacino del Mississippi alle sconfinate praterie dell’Ovest. Con il documento di rango costituzionale venivano così tutelati i diritti fondamentali degli individui, l’autogoverno dei nuovi insediamenti, e il diritto alla formazione dei nuovi Stati che raggiungevano una determinata soglia di abitanti. Di più, la carta del Nord-Ovest proibiva a Nord lo schiavismo, cosa che finì col provocare nel 1861 la Guerra di secessione.

Corriere 30.10.16
Spagna, un destino da Don Chisciotte per Sánchez

Pedro Sánchez, giovane promessa del socialismo spagnolo rottamato dalla vecchia guardia del partito, si è prima dimesso da segretario generale del Psoe e, ieri, anche da deputato. In un mese è passato da aspirante premier a «senza lavoro». L’ha fatto per non tradire le sue promesse elettorali («Mai con Rajoy»), ma anche per non venir meno alla disciplina del partito (che ha imposto ai deputati l’astensione). Il bel Sánchez sorrideva ieri mentre firmava le dimissioni e annunciava la sua nuova candidatura a segretario. Lo aspetta una traversata nel deserto. Potrebbe arrivare dall’altra parte come il rifondatore del riformismo europeo o scomparire sulla via. Per ora è semplicemente affascinante che l’abbia fatto. In Italia le dimissioni si minacciano, si annunciano, si sbandierano, ma non si danno. Pedro le ha firmate col sorriso. Il gesto eroico, idealistico, estremo è nel dna della Spagna. Don Chisciotte, hidalgo senza macchia e senza paura, sarebbe fiero di lui. Così come il matador che aspetta a pie’ fermo la carica di un toro da mezza tonnellata. Gli spagnoli sentono l’attrazione per il tragico, hanno l’istinto a dividersi tra amici e nemici. Quest’aspetto dello spirito nazionale si ritrova nella tremenda guerra civile come nelle cupe chiese barocche, nei dipinti scuri di Velázquez, negli incubi di Goya dove l’azzurro di Leonardo o Tiziano non bagna il pennello. Felipe González, l’ex premier divenuto killer politico del giovane Sánchez, lo sa bene. Un anno fa, dopo il crollo del bipartitismo, disse che Madrid si era scoperta con un Parlamento ingovernabile come quello di Roma. «Il problema è che non siamo italiani». Pensava forse a quello che gli rimproverò Giulio Andreotti: «Voi spagnoli siete proprio come noi, solo vi manca la finezza».

Il Sole 30.10.16
Spagna
Le basi fragili di un governo voluto a tutti i costi
di Luca Veronese

Sono due le cause che hanno portato alla formazione di un nuovo governo del conservatore Mariano Rajoy. Entrambe potrebbero rivelarsi deboli ancorché comprensibili, cause perse, in contraddizione tra loro. E in definitiva potrebbero non aiutare la Spagna, la sua politica e la sua economia.
Pur di dare un governo al Paese dopo dieci mesi di paralisi, si è arrivati a un compromesso rischioso. A muovere i partiti - ed è questa la prima causa per il governo Rajoy - sono stati «il senso di responsabilità», «lo spirito patriottico», «la necessità di non distruggere la credibilità conquistata negli ultimi anni», «la volontà di non compromettere la ripresa economica»: parole che hanno accomunato la destra dei Popolari, i loro avversari di sempre, i Socialisti, e i centristi di Ciudadanos, oltre a qualche formazione regionale minore. A tenere assieme il governo fin dalla nascita è tuttavia anche la paura di nuove elezioni: i Socialisti che con l’astensione hanno dato il via libera a Rajoy non hanno alternative, non possono infatti permettersi di affrontare un nuovo voto in cui, secondo i sondaggi, perderebbero ancora consensi diventando una forza marginale, dietro a Podemos nella sinistra. Questa seconda causa che ha garantito la continuità di governo dei conservatori è certo meno nobile ma sarà probabilmente dominante nei prossimi mesi.
Non c’è un agenda condivisa, non c’è - nemmeno nelle dichiarazioni - un governo per le riforme, non c’è un accordo sull’emergenza, sulle cose da fare comunque e subito. «Nessuno può dire quanto durerà questo governo: un mese, un anno, di certo nessuno pensa all’intera legislatura. E se invece di finirla lì, si dovesse tirare avanti vivacchiando, sarebbe anche peggio», dice un vecchio funzionario dei palazzi di governo, vicino ai Popolari.
Eppure la Spagna ha davanti a sé molte e difficili scelte politiche che modificheranno le relazioni con l’Unione europea (c’è un budget da sistemare); lo sviluppo dell’industria (la bolla immobiliare ha insegnato qualcosa?); la vita delle famiglie (ci sono ancora 4,6 milioni di disoccupati); la convivenza tra regioni dentro lo Stato (la Catalogna arriverà in pochi mesi allo scontro finale con Madrid).
La bugia - populista e superficiale - del Paese che sta meglio senza governo, dell’economia che cresce anche senza una guida alla Moncloa, verrà smascherata nei prossimi anni: il vuoto di investimenti, il rallentamento delle amministrazioni, il ritardo dei progetti a lungo termine, le difficoltà che le regioni e dei comuni hanno affrontato si faranno sentire.
Anche quest’anno il Pil della Spagna aumenterà più del 3% ma la crescita sta moderando il ritmo. «Nel 2017 i consumi privati rallenteranno per il venire meno di alcuni fattori temporanei che li avevano sostenuti: il prezzo del petrolio è risalito, l’euro ha smesso di deprezzarsi e il governo spagnolo, dopo la riduzione delle tasse, sarà costretto a introdurre misure fiscali restrittive per centrare gli obiettivi di bilancio stabiliti con l’Unione. Anche gli investimenti rallenteranno in modo significativo per colpa del clima di incertezza. Mentre le difficoltà internazionali non aiuteranno la domanda esterna», spiega Apolline Menut di Barclays.
Da Bruxelles hanno già chiarito che per riportare sotto controllo il deficit servono misure per circa 5,5 miliardi di euro nella prossima Finanziaria. La Commissione europea e la Bce - in una lettera ufficiale al governo di Madrid - si sono inoltre fatte sentire chiedendo che «non venga interrotto il percorso delle riforme avviato», ma anche «maggiore equilibrio nell’economia» e un ulteriore sforzo per «sostenere produttività e occupazione».
Il «senso di responsabilità» ha poco da spartire con la paura di scomparire. Rajoy - dato per finito più volte - non può accettare di fallire: gli scandali di corruzione hanno indebolito i Popolari che per ora resistono solo per mancanza di alternative. I Socialisti - spaccati in due proprio sulla fiducia a Rajoy - hanno annunciato «opposizione dura su ogni provvedimento del governo». Ciudadanos fa da comparsa. Podemos con Pablo Iglesias insiste nell’attaccare il patto di governo ma è fuori dai giochi.
Tutta la Spagna è ancora in una fase di passaggio. Se il bipartitismo dell’alternanza tra Popolari e Socialisti è crollato, il rinnovamento è per ora solo una bozza. Ma alcune emergenze - economiche e sociali - vanno affrontate subito: le riforme (del lavoro, del sistema bancario, del sistema scolastico) sono incomplete; il patto tra Stato e Regioni è da riscrivere; le rivendicazioni della Catalogna devono trovare una risposta. Mentre, per le cause che hanno portato alla sua nascita, questo governo di Rajoy sembra tra i meno adatti a governare davvero la Spagna.

il manifesto 30.10.16
Il ritorno di Rajoy e la frittata socialista
Spagna. Sulla scelta dell’astensione socialista hanno influito le posizioni del leader storico Felipe González, della confederazione degli industriali, della grande stampa, come El País e El Mundo, oltre al blocco dei socialisti andalusi - la federazione più numerosa e potente - capeggiati da Susana Díaz, candidata in pectore alla segreteria del Psoe nel congresso che si terrà nel 2017 e strenua sostenitrice della «governabilità nell’interesse nazionale della Spagna»
di Aldo Garzia

La Spagna ha da ieri sera un nuovo governo. Mariano Rajoy, come previsto, guida un esecutivo formato da Partito popolare (Pp) e Ciudadanos con l’astensione decisiva dei socialisti (Psoe). È un esecutivo di centrodestra bis con lo stesso premier uscente della scorsa legislatura. Dieci mesi senza governo, due elezioni in dodici mesi con più o meno un pari e patta tra Pp più Ciudadanos da una parte e sinistra dall’altra (Unidos Podemos, Psoe), hanno piegato la resistenza socialista che aveva come alternative o l’alleanza con Podemos e liste nazionaliste o nuove elezioni (le terze in un anno). I socialisti, nel negoziato sulla loro sofferta astensione, non sono riusciti a ottenere che fosse un altro esponente del Pp, meno compromesso a destra di Rajoy, a guidare il governo.
Il thriller della crisi politica spagnola non è ancora concluso. Pedro Sánchez, dimessosi da segretario perché contro l’astensione, ieri la lasciato pure il suo scranno da deputato «per non votare contro se stesso», annunciando che darà battaglia per «rifondare il partito a sinistra». Tutti i riflettori erano del resto puntati sul Psoe che ha reso possibile questo esito. Nel corso del voto sono stati 15 – come previsto – i parlamentari socialisti che non hanno rispettato la decisione presa a maggioranza dal Comitato federale del Psoe. Javier Fernández, reggente del partito e governatore delle Asturie, aveva detto di augurarsi di non dover prendere provvedimenti disciplinari nei confronti dei probabili dissidenti.
La minaccia – neanche tanto velata – era quella della radiazione dal gruppo parlamentare con l’automatico passaggio al gruppo misto. Ora vedremo se ci saranno o meno provvedimenti disciplinari. Tra i non astenuti ci sono i 7 deputati del Psc, importantissima federazione della Catalunya, convinti che l’astensione indebolisca la posizione socialista che a Barcellona vuole evitare rotture con il resto della Spagna all’insegna della secessione pur sostenendo una riformulazione del patto tra Stato centrale e autonomie regionali. La prima frattura nel Psoe si era verificata la settimana scorsa nella storica sede di via Ferraz a Madrid, quando nel parlamentino del partito in 139 avevano votato a favore dell’opzione dell’astensione a Rajoy e in 96 si erano pronunciati contro.
Tra i contrari, oltre ai catalani, dirigenti di rilievo come Patxi López, leader dei socialisti dei Paesi baschi e governatore di quella regione, il deputato europeo dal forte prestigio Josep Borrell, José Luís Ábalos, segretario di Valencia, e molti dirigenti locali: dalle Baleari all’Extremadura, dalla Galizia a Madrid.
Sulla scelta dell’astensione socialista hanno influito le posizioni del leader storico Felipe González, della confederazione degli industriali, della grande stampa, come El País e El Mundo, oltre al blocco dei socialisti andalusi – la federazione più numerosa e potente – capeggiati da Susana Díaz, candidata in pectore alla segreteria del Psoe nel congresso che si terrà nel 2017 e strenua sostenitrice della «governabilità nell’interesse nazionale della Spagna». Il refrain della governabilità a ogni costo è diventato così assordante da piegare tutte le buone ragioni di una difficile unità a sinistra. La maggioranza del Psoe ha ritenuto Podemos un alleato non affidabile, Podemos ha pensato in definitiva lo stesso del Psoe.
A impedire un avvicinamento unitario hanno provveduto pure i dissensi politici accompagnati dall’aperta competizione tra queste due forze, dal momento che la posta in palio è chi diventerà il principale partito della sinistra, con sondaggi attualmente favorevoli a Podemos, avvantaggiatosi dalla collocazione astensionista e di appoggio al governo di centrodestra assunta dai socialisti. Rajoy ha nel frattempo addolcito i toni del suo liberismo tradizionale nel discorso programmatico alle Cortes, dicendo di voler governare per una intera legislatura in alleanza con Ciudadanos e in dialogo con i socialisti per attuare riforme costituzionali (un più netto federalismo) ed economiche. Il Psoe lo ha avvertito che l’astensione è solo un gesto di responsabilità per evitare nuove elezioni. La frittata però è fatta, con conseguenze imprevedibili sul futuro del Psoe e della legislatura che si apre.

Corriere 30.10.16
Dublino: ci opporremo in ogni modo a una «Brexit dura» per l’Irlanda
Il ministro degli Esteri: una rottura radicale è incompatibile con gli accordi di pace
di Federico Fubini

Sciogliere uno a uno i legami che dovrebbero permettere alla Gran Bretagna di districarsi dall’Unione Europea non è mai sembrato facile, fin dal mattino dopo il referendum di giugno. C’è però un nodo in particolare con cui i Brexiters, i fautori della rottura, non devono aver fatto i conti: l’Accordo del Venerdì santo, la svolta del processo di pace in Irlanda del Nord del 1998. Charles Flanagan, ministro degli Esteri della Repubblica d’Irlanda, ricorda che lui stesso è istituzionalmente «co-garante» di quegli accordi e di ciò che essi comportano: l’«invisibilità» del confine di terra fra Eire e Gran Bretagna e la garanzia che «il popolo dell’isola d’Irlanda» non venga di nuovo diviso.
Una «hard Brexit», una rottura radicale con la Ue che Londra ormai persegue apertamente, appare incompatibile con l’accordo del Venerdì santo. Basta sentire l’emozione nella voce di Flanagan, per misurare le conseguenze che questo divorzio può portare nel processo di pace di Belfast e sulla stessa unità territoriale del Regno Unito.
Ministro, nel governo di Londra si lavora ormai a uno scenario di «hard Brexit». Visto da Dublino, che impressione fa?
«Sono molto preoccupato da qualunque tentativo di ricreare un confine fra l’Irlanda e il Regno Unito, da Dork a Derry lungo 499 chilometri, che non sia più invisibile come oggi. Preservare un’area di viaggio e movimento libera è di enorme importanza, per le popolazioni dai due lati che ogni giorno si muovono per lavoro, per commercio nelle due direzioni, per visitare la famiglia da un lato e dall’altro. Dall’Accordo del Venerdì santo quel confine è stato invisibile. Deve rimanere tale».
Teme che l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, voluta per controllare le migrazioni anche alle frontiere, sposti gli equilibri sull’isola?
«Nel negoziato che ci aspetta quest’aspetto sarà importante. Va riconosciuto il carattere unico del confine fra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord. Mi incoraggiano i commenti di ministri britannici come David Davis e Boris Johnson, quando affermano che non si augurano un ritorno alla frontiera del passato. Certamente noi cercheremo di mantenere la situazione attuale».
Che implicazioni ha il fatto che questo aspetto è parte degli Accordi del Venerdì santo e del processo di pace?
«Mi permetta di dirlo in modo chiaro. In qualità di ministro degli Esteri di Dublino, io sono co-garante di quegli accordi, che sono stati ratificati nel 1998 sia da un referendum in Irlanda del Nord che da un secondo referendum in Eire».
Sta cercando di dire che la sovranità di Londra nel determinare il nuovo status del confine irlandese con la Brexit non è priva di restrizioni?
«L’Irlanda del Nord è parte del Regno Unito, ma Londra deve riconoscere nel corso del negoziato di uscita il fatto che una maggioranza della popolazione in Irlanda del Nord ha votato per rimanere nell’Unione Europea. Il caso del confine di terra fra i nostri due Paesi, lo ripeto, è unico. E quella separazione deve restare invisibile. Non si può dividere il popolo irlandese. È una questione difficile per la Ue e per Londra, ma la nostra preoccupazione per mantenere la libertà di movimento sull’isola va rispettata pienamente. Non torneremo a un confine duro, o fortificato come prima».
Pensa che se succederà possa esserci una pressione dall’Irlanda del Nord per fare secessione dalla Gran Bretagna?
«Direi questo: in base ai termini dell’accordo, potrebbe esserci una sfida costituzionale all’interno del Regno Unito e sarà una questione di primaria importanza per i prossimi dieci anni. La Scozia ha votato per la permanenza in Gran Bretagna meno di due anni fa. In Irlanda del Nord la questione non si è posta a causa degli accordi di Belfast e l’apertura completa dei confini via terra con la nostra Repubblica. Quanto a noi, lo sottolineo, siamo i co-garanti sul piano legale della situazione in Irlanda del Nord. E certo, come membro unitario dell’Unione Europea, il negoziato sull’uscita spetta interamente al Regno Unito e al suo governo. Ma le conseguenze negative per l’Irlanda del Nord andranno ridotte al minimo possibile».
Come le sembra che sia stia muovendo il premier di Londra, Theresa May?
«Accolgo con favore il fatto che si sia impegnata nell’ascoltare le posizioni espresse in Irlanda del Nord e coinvolgerla il più possibile nei pre-negoziati in vista della Brexit. Dovremo vedere quali saranno le sue priorità. Fra i nostri due Paesi ci sono scambi commerciali da 1,2 miliardi di euro ogni settimana. Una hard Brexit non aiuterebbe nessuno».

Corriere La Lettura 30.10.16
La terza espansione russa
Il comportamento aggressivo di Putin si ricollega alla politica di potenza inaugurata ai tempi di Pietro il Grande e giunta al culmine sotto Stalin
Nonostante il ritardo del Paese in campo economico, il leader del Cremlino mostra
i muscoli in Medio Oriente e sul teatro europeo. Ecco quali sono i pericoli di una strategia
che fa leva sulla frustrazione di un popolo abituato a coltivare l’orgoglio nazionalista dopo
la grande vittoria sui tedeschi nella Seconda guerra mondiale
di Antonio Monteverdi

In una recente corrispondenza da Istanbul per «Le Monde», Marie Jégo ha attirato l’attenzione sulla singolare iniziativa presa dalla stampa turca filogovernativa, la quale ha pubblicato le carte geografiche dell’Impero ottomano prima della sconfitta nella Grande guerra. I giornali hanno ricordato all’opinione pubblica interna che Mosul e Kirkuk, nonché l’intera Siria, un tempo appartenevano all’impero turco. Un influente commentatore politico, vicino al presidente Erdogan, ha scritto che il Nord dell’Iraq e la Siria debbono considerarsi il cortile di casa della Turchia, così come Putin considera lo spazio della defunta Urss la naturale sfera d’influenza della Russia. In effetti, vi sono analogie tra i sogni imperiali del sultano di Ankara e i progetti dello zar di Mosca, se non altro per il linguaggio antioccidentale che li accomuna.
A lungo Barack Obama e le cancellerie europee hanno sottovalutato i proclami e gli atti imperiali di Vladimir Putin, scorgendovi una rude espressione dell’orgoglio nazionale russo. Neppure l’invasione e lo smembramento dell’Ucraina, uno Stato sovrano grande come la Francia, hanno aperto gli occhi ai governanti e all’opinione pubblica dell’Occidente. Soltanto adesso Obama e alcuni governi europei, non quello italiano, sembrano aver capito chi è davvero e cosa vuole il signore del Cremlino. Ma ciò è avvenuto soltanto dopo infiniti segnali inquietanti, dalle provocatorie esibizioni degli aerei militari di Mosca alla montante isteria guerrafondaia in Russia, dalla rozza intromissione nella competizione elettorale americana ai crimini di guerra contro la popolazione civile di Aleppo.
Dopo aver intonato spesso un cupo lamento sulla fine dell’Urss, negli ultimi anni Putin è andato annunciando con voce tonante la necessità per la Russia di riarmarsi e di tornare da protagonista sulla scena internazionale. Aprendo il 5 ottobre i lavori del suo docile Parlamento, egli ha ribadito il diritto storico della Russia ad «essere forte». Tale messaggio ricorda quanto avvenuto parecchie volte nella storia dell’impero eurasiatico, assurto con Pietro il Grande al rango di potenza europea e mondiale. Alberto Ronchey coniò la calzante formula di «superpotenza sottosviluppata» per designare i tratti peculiari dell’Urss poststaliniana, pronta a rivaleggiare con gli Usa nella corsa al riarmo, ma incapace di garantire un livello di vita decoroso ai suoi abitanti. L’economia statalizzata destinava le migliori risorse e le più progredite tecnologie al settore militare, garantendo il benessere della casta privilegiata e trascurando i bisogni della popolazione comune.
L’odierno capitalismo mafioso e parassitario, che ha sostituito la pianificazione burocratica, ha logorato il vecchio tessuto produttivo, generando stridenti diseguaglianze e diffuse sacche di povertà. Gli alti prezzi del petrolio e del gas hanno rimpinguato, per alcuni anni, le casse dello Stato. Putin ne ha approfittato per potenziare la capacità bellica del Paese, senza curarsi di ammodernare l’economia e di tutelare i ceti meno abbienti. Così, oggi la Russia dispone nuovamente di armi sofisticate e altre ne prepara, come il nuovo missile intercontinentale Satan 2; ma carenti restano la tecnologia civile e la medicina. Ci sarebbero tutti i presupposti per una violenta esplosione della collera popolare, come tante volte è accaduto nella storia russa. Invece — ecco il miracolo operato da Putin — la gente si stringe intorno al suo zar, sfogando contro l’Occidente frustrazione e rabbia. Come mai? La risposta si trova nelle parole del giornalista tedesco Christian Neef: «Il patriottismo offre anche ai più umiliati russi della provincia, privi di diritti, un sentimento di superiorità sulle persone che vivono in Paesi di gran lunga più democratici e opulenti. Essi si rallegrano quando Putin fa di nuovo volare sull’Atlantico bombardieri a lungo raggio, e parla giorno dopo giorno di “armi miracolose”; e quando l’Occidente ha di nuovo paura della Russia» («Der Spiegel», 28 marzo 2015).
Perché un Paese gigantesco, che dopo la fine dell’Urss non è stato invaso né minacciato da nessuno, non sa utilizzare saggiamente le proprie immense risorse? Se diamo uno sguardo alla storia, vediamo che il primo grande sforzo produttivo si ebbe all’inizio del Settecento per iniziativa di Pietro il Grande, impegnato nel grande duello con la Svezia per il dominio sul Baltico. Oltre a introdurre costumi occidentali, lo zar creò in breve tempo un apparato industriale, decuplicando il numero delle fabbriche e manifatture. Create dallo Stato, esse si reggevano sulle commesse statali, lavoravano per la guerra e adopravano manodopera servile. Si trattava d’una industrializzazione drogata e diretta dall’alto, volta a finalità belliche e basata su una tremenda pressione fiscale, che esaurì il Paese suscitando malcontento e rivolte. Inoltre, Pietro consolidò ed estese la servitù della gleba, che in Occidente s’era estinta o stava morendo. Su tali basi egli creò l’impero, assumendo nel 1721 il titolo di imperatore. La Russia divenne una grande potenza espansionistica, dotata d’un temibile esercito e partecipe dei grandi giochi diplomatico-militari. Ma la società russa, al di là della occidentalizzazione di facciata, restava arcaica e arretrata era l’economia.
I successori di Pietro ampliarono ulteriormente i confini dell’impero, senza avviare un reale rinnovamento. Soltanto negli ultimi decenni dell’Ottocento sorse una più solida base industriale e l’influsso europeo si fece maggiormente sentire. Il terremoto del 1917 portò poi alla disgregazione dell’artificioso e anacronistico impero russo. Ma la «prigione dei popoli» fu in parte ricostruita dai bolscevichi, i quali ne rinnovarono le basi ideologiche, sostituendo alla religione ortodossa e al culto dello zar il messaggio falsamente universale del comunismo, in cui si celava il nocciolo duro dell’imperialismo zarista.
Aggredendo l’Urss nel 1941, Hitler paradossalmente salvò l’impopolare regime comunista, e contribuì enormemente alla mirabolante espansione dell’impero di Stalin. La Seconda guerra mondiale ebbe un’altra importante conseguenza: la nascita dello spirito patriottico in un Paese i cui ceti popolari prima erano rimasti sordi alla sirena patriottarda e avevano sempre avversato i signori di turno, nobili o comunisti che fossero. Invece, dopo la «Grande guerra patriottica», il culto sciovinistico di Stalin cominciò ad attecchire tra i russi, fieri della marcia trionfale dell’Armata rossa in Europa. Fu allora che si forgiò un’identità nazionale, o meglio nazionalista.
La coscienza sciovinistica dei russi andò affievolendosi, fin quasi a scomparire, in seguito alle attese deluse di un benessere economico che non giungeva mai. Cominciò a diffondersi tra gli abitanti delle grandi città l’ammirazione del livello di vita occidentale, tanto superiore al loro. La fine dell’Urss portò all’insorgere di frustrazioni e fobie, generate dal peggioramento delle condizioni di vita e dal sentimento d’umiliazione per la perdita, dai russi giudicata iniqua, di territori etnicamente e culturalmente non russi. Il retaggio della propaganda comunista fece sì che molti cominciassero a rovesciare sugli stranieri la colpa dei loro mali e della loro incapacità, radicata in secolari vicende storiche, di dar vita a una società e a uno Stato moderni e civili. Putin ha saputo cavalcare per le sue ambizioni imperiali gli umori antioccidentali dei suoi compatrioti. I russi, da sempre alla disperata ricerca d’una identità nazionale, l’hanno oggi trovata nel furore sciovinistico. Ad alimentare una siffatta identità contribuisce grandemente la Chiesa ortodossa di Mosca, alleata del potere politico.
La Russia di Putin è ancora, al pari dell’Urss, una potenza sottosviluppata. Ma vi sono importanti differenze. L’arsenale convenzionale non ha raggiunto il livello dell’epoca sovietica, e il poderoso complesso militare-industriale è solo un ricordo del passato. Ma Putin è popolare, come non lo è stato nessun capo sovietico dopo Stalin, e possiede un terrificante arsenale nucleare. Mentre la direzione collegiale nell’Urss poststaliniana rappresentava, in fondo, una garanzia contro follie individuali, Putin è solo al comando; e paiono sinistre le sue reiterate minacce di premere il grilletto atomico. L’angosciosa speranza è che gli Stati Uniti e la Nato sappiano assolvere l’arduo compito di fermare il capo del Cremlino senza mettere a repentaglio la sopravvivenza del genere umano.

Corriere La Lettura 30.10.16
Odiare Lenin quanto gli zar
Ma tanta paura dell’orso cattivo è anche il frutto di un pregiudizio
di Paolo Valentino

Uno spettro nuovo e antico si aggira per l’Europa. Chiuso il «secolo breve» con l’implosione della galassia comunista, minaccia chiara e concretissima ma anche utile cemento dell’incerta identità europea, l’«orso russo» torna a turbare i governi e le opinioni pubbliche dell’Occidente. Eppure parliamo di un Paese, la Russia, che ha un prodotto lordo inferiore a quello dell’Italia, ormai l’ombra della superpotenza sovietica che per mezzo secolo contese agli Stati Uniti il predominio del mondo. Nessun analista serio oggi è disposto a considerare atti pur gravi e da condannare con forza, come l’annessione della Crimea, la guerra ibrida in Ucraina o le sbavature siriane, come il preludio a un’aggressione su vasta scala verso Ovest, tantomeno la prova di un’ambizione egemonica globale di Vladimir Putin.
Perché allora tanto allarme ed enfasi sul pericolo russo? Perché toni così ostili e a tratti isterici verso il Cremlino e il suo leader, sicuramente non un democratico a 24 carati, come disse una volta di lui il cancelliere tedesco Gerhard Schröder, ma raccontato dai governi e dai media occidentali al meglio come un autocrate megalomane e mattoide, al peggio come un dittatore assetato di sangue? Com’è possibile che, crollata l’Urss, dissolto senza spargimento di sangue il suo impero, restituita la libertà ai Paesi dell’Europa centrale occupati e l’indipendenza a 15 ex repubbliche sovietiche, la Russia sia tornata spauracchio e concreta incarnazione del nemico, torvo e cattivo?
Il giornalista svizzero Guy Mettan ha una risposta semplice e ardita: l’odio ancestrale per la Russia, la sua cultura, la sua gente, la sua identità, i suoi costumi. È certo un libro a tesi e di parte il suo Russofobia , edito da Sandro Teti nella collana Historos diretta da Luciano Canfora. Ma è un libro rigoroso nella dimostrazione di un teorema che, se a tratti può essere rovesciato, offre squarci illuminanti su un rapporto complesso e tormentato. Come spiega Franco Cardini nella sua bella introduzione, la russofobia occidentale «nacque dalla diffidenza verso Bisanzio» cui Carlo Magno contese il ruolo di erede dell’Impero romano, «per poi accanirsi contro l’imperialismo degli zar» e infine approdare nell’Ottocento «alla demonizzazione della tirannide zarista», vista come barbarie e poi «tradotta senza soluzione di continuità nell’odio per quella bolscevica». Mettan definisce le origini storiche, religiose, ideologiche e geopolitiche dell’odio verso la Russia, distinguendo cinque forme di russofobia: quella del papato e poi quelle francese, tedesca, inglese e americana. Nella sua visione, si tratta di «un’unica guerra millenaria, più o meno calda, che l’Occidente ha condotto contro la Russia, la quale peraltro ha largamente ricambiato».
L’autore rifiuta tuttavia l’etichetta di un saggio antioccidentale: «Evidenziare le cause dell’odio per la Russia non significa rinnegare i valori di democrazia, libertà e diritti umani che l’Occidente promuove fin dalla rivoluzione francese, né ammirare in estasi la Russia di Putin». Men che meno significa sollevare Mosca dalle sue mancanze e responsabilità. Più semplicemente Mettan vuole convincere il lettore che «non è necessario odiare la Russia per parlare con essa».
Il libro è anche un atto di accusa contro il pregiudizio dei media occidentali quando si occupano della Russia. Ricostruendo le coperture di eventi come il sequestro di Beslan, la guerra in Ossezia, i giochi olimpici di Soci e da ultimo la crisi ucraina, Mettan cerca di dimostrare come i media europei e americani «abbiano rinunciato a esporre i fatti, a porre domande, a esplicitare i punti di vista che non quadravano con la versione ufficiale». Non sempre le prove a carico sono convincenti, ma non c’è dubbio che nel caso dell’Ucraina, per esempio, la narrazione dominante sia stata quella semplicistica dell’aggressione russa, senza alcuna considerazione per il passato comune, gli inquinamenti filonazisti del nazionalismo ucraino, la paura legittima delle minoranze russofone di fronte al governo di Jevromaidan (nato dalle manifestazioni di Kiev). Ma l’autore è attento a non scivolare nella trappola della cospirazione: «La russofobia è uno stato d’animo, non un complotto».
Una delle conclusioni più interessanti di Mettan è che il racconto della Russia cattiva che sogna di divorare l’innocente Europa, sia «fondativo per una identità occidentale mai raggiunta». Detto altrimenti, l’Europa in crisi e divisa avrebbe bisogno di tenere vivo il mito dell’alterità russa, vicina ma incivile e barbara, una sorta di doppio negativo, per rinsaldare il fondamento vacillante della sua unità. Se così è, non sembra che il tentativo stia producendo grandi risultati. E forse faremmo bene a ripensare l’intero rapporto con Mosca, invece di riprodurre, mille anni dopo, il Grande Scisma.

Corriere 30.10.16
Funziona con Pechino la diplomazia del gelato
di Guido Santevecchi

Ci fu la diplomazia del ping pong, utilizzata per i primi contatti tra Cina e Usa ai tempi di Henry Kissinger. Ora è il momento della diplomazia del gelato: Vladimir Putin ne ha portato uno scatolone dalla Russia e lo ha regalato a Xi Jinping durante il G20 a settembre. Sta avendo un boom a Pechino: +267% di import in un anno. Un piccolo segno di quella nuova amicizia tra le due potenze che nel 1969 si affrontarono per mesi a cannonate lungo il confine. Kissinger fu l’architetto di una «diplomazia triangolare» nella quale Washington sfruttava l’inimicizia tra i due giganti comunisti. Il gioco si è rovesciato e sono Putin e Xi a guidare la partita, hanno stabilito un rapporto personale solido: 19 incontri faccia a faccia dal 2012. Hanno firmato un contratto strategico per 400 miliardi di dollari di gas russo che arriverà in Cina nei prossimi 30 anni. E poi manovre navali congiunte, dal Mar cinese meridionale al Mediterraneo.

Corriere 30.10.16
Islanda, balzo dei Pirati ma la maggioranza non è sicura
Primi exit poll, il movimento antisistema conquisterebbe con gli alleati 32 seggi su 63
di Luigi Offeddu

l’abbordaggio dei «pirati» al Parlamento islandese sarebbe riuscito solo a metà. Il partito antisistema di Birgitta Jónsdóttir (foto) quadruplica i seggi, ma è incerto se l’alleanza con i partiti del centrosinistra potrà scalzare la maggioranza uscente di centrodestra.
Nebbia politica e neve meteorologica, l’abbordaggio dei «pirati» al Parlamento islandese sarebbe riuscito solo a metà. La rivoluzione della democrazia diretta via Web, almeno finora, sarebbe rimandata. A tarda notte, gli exit poll iniziali diffusi dalla Tv pubblica islandese dicono infatti che ha vinto la voglia di stabilità, e la paura dell’ignoto, cioè di un partito che non ha mai governato nei suoi quattro anni di vita: i conservatori del Partito dell’indipendenza restano primi, il partito della «capitana Birgitta» restano alle loro spalle. Da oggi si ricomincia a trattare, ma i corsari dovranno faticare molto per mettere in pericolo la coalizione attuale fra conservatori e «progressisti». Avrebbero dunque perso l’occasione d’oro: e cioé l’ondata di protesta prodotta dalla «mani pulite» islandese, pochi mesi fa, con le dimissioni di un primo ministro colto con le mani nel sacco dell’evasione fiscale.
Hanno votato per la «capitana Birgitta», sicuramente, gli elettori più giovani. Hanno votato per il centrodestra, altrettanto sicuramente, coloro che preferiscono mantenere un’Islanda al di fuori della Ue (ma questo, anche i Pirati lo escludevano) e non gradiscono accogliere come loro concittadino onorario un Edward Snowden, gola profonda dei servizi segreti americani (era appunto una delle promesse centrali della «capitana Birgitta»). A questo punto ci si chiede se la «capitana» cambierà linea, almeno di poco. Certo, non le verrà facile riprendere le file di quell’accordo di massima già raggiunto l’altra sera con i progressisti di «Sinistra Verde» e con quelli di «Futuro Luminoso», per una maggioranza alternativa nel caso di un lungo vuoto di potere: gli exit poll assegnano 32 seggi su 63 alla coalizione. E c’è molta attenzione anche per «Risveglio», un movimento che si presentava per la prima volta alle elezioni e che chiede la ripartenza delle trattative per l’adesione dell’Islanda alla Ue: finora l’aveva chiesto in perfetta solitudine, ma gli ultimi sondaggi hanno certificato che il 68% degli islandesi condivide la stessa scelta anti-isolazionista, lontano dalle tentazioni populiste anti-Ue.
L’Althingi è il Parlamento più antico d’Europa, si riunì per la prima volta nell’anno 930: e anche questi simbolismi sono importanti ora, nel momento in cui Londra se ne va, L’Aja resta ma a malincuore (il governo olandese deve trovare entro due giorni una risposta al no anti-Ucraina pronunciato mesi fa in un referendum convocato dai populisti di Geert Wilders), e Marine Le Pen si prepara a scendere in campo dalle parti di Parigi, o Viktor Urban promette nuovi muri sui confini della sua Ungheria. In questo quadro, l’Islanda era ed è certo un protagonista di sfondo. Ma non meno importante di altri, appunto. Anche per la sua collocazione militare e strategica: da decenni, è infatti il perno della rotta aero-navale della Nato dal Centro-Europa verso gli Usa, oltre la Groenlandia.

Corriere 30.10.16
Chi è la donna che guida la rivolta contro i partiti
Da mamma disoccupata a leader anti politica. La lunga ascesa di Birgitta
di Luigi Offeddu

Altro che folletto anarchico, mattacchione e anche divertente, come a volte l’hanno dipinta i media. Su di lei, Birgitta Jónsdóttir, 49 anni, la leader ufficiosa del «Partito Pirata» che dopo le elezioni politiche di ieri potrebbe entrare per la prima volta in una coalizione di governo in Islanda, la vita ha picchiato duro: padre adottivo e marito suicidi, nel giro di pochi anni, una giovinezza vissuta in alcuni periodi da madre single disoccupata con tre figli piccoli, e un giorno il salto dall’Islanda all’altro capo della terra, Australia, in una landa altrettanto sperduta dal nome (Mullumbimby) che starebbe bene in un racconto di Harry Potter.
Per un anno soltanto, lei restò laggiù, «ma qualcuno mi disse che un anno di vita per me sono sette anni per chiunque altro. Sentii che quello — come ha spiegato lei stessa poco tempo fa, in un’intervista alla rete televisiva Abc — sarebbe stato un modo sano di vedere se stessi, andare alla fine assoluta del mondo e fare un po’ di lavoro interiore, e capire meglio come un giorno avrei potuto agire e funzionare in Islanda».
Ci sono naturalmente varie Birgitte. C’è quella che già a 14 anni, e poi a 30 e praticamente fino a ieri, si dice poetessa e basta, e si fa domande sulle sue radici nordiche: «Ho sognato che tornava a cantare il mio sangue di pellerossa..».
C’è la Birgitta ragazzina che cresce in un villaggio di pescatori, nove mesi di oscurità nel corso di un anno, i vulcani e i ghiacciai intorno a dettare le regole della vita e della società insieme con le tradizioni degli anziani. Lei non mostra reverenza per tutto questo, ma nello stesso tempo trova forza nel confronto quotidiano con coloro che le stanno intorno: «In qualche modo, nella mia alienazione da ragazza, riuscii a tramutare in forza queste difficoltà».
C’è poi la Birgitta studentessa «anarchica», quella confusa fra i tanti altri giovani che frequentano i pub «alternativi» e le biblioteche della borghesissima Rejkyavick quando ancora l’Islanda è — apparentemente — un piccolo paradiso finanziario e sociale: nessuno sa ancora che cosa ci sia davvero oltre le pareti di quel paradiso, come molto lontano da lì nessuno sa davvero che cosa nascondano le pareti della Lehmann Brothers a New York; ma in qualche modo i giovani «anarchici» di Rejkyavick l’hanno già intuito.
C’è infine, dal 2008-2009 in poi, la Birgitta che come tanti altri suoi coetanei vive la rabbia del grande scandalo: il crac delle banche islandesi, i risparmi della gente in fumo, i banchieri colti con le mani nella marmellata; altro che la purezza ideale delle società vichinghe, il loro rigore nell’amministrare le poche risorse concesse dalla natura, sghignazzano i fogli satirici degli studenti. E ancora una volta, la leader «pirata» di oggi è fra loro.
È questa Birgitta, mamma disoccupata e con tre figli, che chiede di lavorare come volontaria nell’organizzazione di WikiLeaks: «Voglio migliorare la società», dice ai suoi amici. «La verità è rivoluzionaria», aveva scritto un giorno nelle sue poesie echeggiando il vecchio Lenin, ma ora ha scoperto che anche il vecchio Lenin imbalsamato, trasferito sul web senza regole né frontiere, può ancora ribaltare il mondo.
È la svolta nella sua vita. Birgitta conosce Julian Assange, lavora con lui al video scottante di «Collateral Murder», «Assassinio collaterale» sugli omicidi di civili compiuti dai soldati americani in Iraq. Nel 2009, fonda il «Movimento dei Cittadini», da cui nascono poi il «Movimento» e il «Partito Pirata»: libertà di informazione totale, democrazia diretta del web, gli stessi concetti portati oggi dai «Pirati» nella campagna per le elezioni politiche.
La ragazzina ribelle di un tempo è diventata un personaggio importante, e tosto. Ma è la stessa che un giorno scriveva dall’Australia, nel suo blog personale: «Abbiamo bisogno di vedere e di sentire... perché nuove idee crescano e perché la rivoluzione possa aver luogo».