lunedì 3 ottobre 2016

Internazionale 30.9.2016
Cercando la sinistra
John Harris, The Guardian, Regno Unito

I partiti progressisti sono in crisi in molti paesi perché non sono riusciti a cogliere i cambiamenti che hanno sconvolto il mondo del lavoro. Per uscirne dovranno reinventare le politiche sociali a sostegno delle famiglie e dei lavoratori V ari spettri si aggirano per l’Europa: il terrorismo, la rinascita dell’estrema destra, l’instabilità della Turchia, il declino del progetto europeo. E sulla scena politica di tutto il continente i partiti della sinistra tradizionale sono in crisi. In Germania i sondaggi danno i socialdemocratici (Spd), che un tempo rappresentavano una stabile forza di governo, intorno al 20 per cento. In Francia la popolarità del presidente François Hollande, eletto con il Partito socialista, è al 15 per cento, mentre il Partito socialista operaio spagnolo (Psoe) ha perso quasi la metà dei voti in meno di dieci anni. In Grecia il principale partito socialdemocratico, il Pasok, è passato in meno di dieci anni dal vincere le elezioni al 5 per cento dei consensi. Il crollo è stato così rapido da dare vita a una nuova parola, “pasokiicazione”, che oggi si usa per indicare la crisi dei partiti di centrosinistra. Perino nei paesi scandinavi le forze un tempo invincibili della socialdemocrazia hanno risentito della crescente disafezione degli elettori, mentre i populisti di destra raccolgono consensi alimentando l’ansia per l’immigrazione e le sue conseguenze sul welfare. Si potrebbe pensare che la nascita di nuove formazioni di sinistra nei paesi più duramente colpiti dalla crisi dell’eurozona ofra dei motivi per essere ottimisti. In Spagna Podemos dà voce alla rabbia contro la classe politica al potere, deinita “la casta”, mentre in Grecia l’ascesa di Syriza ha portato la sinistra radicale al governo. L’energia e l’atteggiamento ribelle di questi due movimenti risuona anche in altre parti del mondo, come dimostra la sorprendente ondata di consensi per Bernie Sanders alle primarie del Partito democratico negli Stati Uniti. Ma a parte la soferta esperienza di governo di Syriza in Grecia, questi nuovi sviluppi sembrano ancora manifestazioni di protesta e dissenso invece che il segnale di una imminente conquista del potere da parte della sinistra. Il Partito laburista britannico ha quasi tutti i problemi della sinistra moderna. Va ancora bene nelle grandi città come Londra, Bristol, Leeds e Manchester, ma è in diicoltà nel sudest dell’Inghilterra e sta perdendo consensi anche nelle sue vecchie roccaforti industriali, mentre in Scozia sembra avviato all’estinzione. Il problema principale non riguarda i conlitti interni. Il Labour è divorato dalla stessa crisi che colpisce gli altri partiti di sinistra in Europa. I commentatori politici tendono a concentrarsi sui leader, e descrivono il mondo come se i partiti potessero essere tirati da una parte o dall’altra dalla volontà assoluta di singoli individui. Ma i problemi della sinistra britannica sono di sistema, radicati nelle strutture più profonde dell’economia e della società. Gli ideali della sinistra – l’uguaglianza, la solidarietà e uno stato sociale forte – dovrebbero essere intramontabili. Ma tutto ciò su cui i partiti progressisti in passato avevano costruito la loro forza è scomparso o sta rapidamente svanendo. La sinistra occidentale deve afrontare tre grandi sfide che riguardano direttamente il suo ruolo e le persone che rappresenta. Per prima cosa il lavoro tradizionale – così come l’idea di “lavoratore”, centrale nel discorso della sinistra – sta scomparendo. Sempre più persone si barcamenano in un’epoca in cui aumentano i contratti precari e i lavori autonomi, e presto potrebbero trovarsi in un mondo dominato dall’automazione. In secondo luogo, stiamo assistendo a una nuova ondata di proteste contro la globalizzazione, guidate da forze di destra che esaltano l’appartenenza e la difesa degli interessi nazionali, alimentando la diidenza nei confronti degli stranieri. Inine, la politica continua a frammentarsi, facendo apparire come un reperto archeologico l’idea che un unico partito o una sola ideologia possano rappresentare la maggioranza della popolazione. Il ventesimo secolo, in altri termini, è davvero inito. E ci sono molti dubbi sulla possibilità che nel ventunesimo la sinistra possa tornare stabilmente al potere. Politici inconsapevoli La mattina dell’8 maggio del 2005 Tony Blair si presentò davanti all’ingresso di Downing street, la residenza del primo ministro britannico. Il Labour aveva appena vinto le terze elezioni consecutive, un risultato senza precedenti nella storia politica britannica. Sembrava la dimostrazione della ritrovata capacità di governo dei laburisti, ed era un’altra occasione per sventolare bandiere, fare discorsi su una nuova alba e rispolverare il gioioso ottimismo che aveva portato Blair al potere nel 1997. Ma quel giorno il premier scelse una linea molto più realistica. I laburisti avevano vinto con il 35,2 per cento dei voti e il sostegno di appena il 22 per cento dell’elettorato. Il sistema maggioritario aveva fatto il suo strano gioco di prestigio e riportato la sinistra al potere, ma con il consenso più basso di qualunque governo dell’era democratica. Blair sembrava afranto. “Ho ascoltato e ho imparato, e credo di avere un’idea molto chiara di quello che le persone si aspettano dal nostro terzo mandato”, spiegò. “E voglio dire molto chiaramente che io, noi, il governo, ci concentreremo senza sosta sulle priorità che l’elettorato ha fissato per noi”. Afermò che “per molte persone” la vita era ancora una “lotta” e dedicò una parte del suo discorso all’ansia dell’opinione pubblica per l’immigrazione. Cinque mesi dopo, Blair pronunciò il suo dodicesimo discorso come leader del partito al congresso annuale del Labour, e ogni traccia di umiltà era svanita. Il nocciolo del messaggio riletteva uno dei punti essenziali del suo credo politico: la fede nella volubile magia del capitalismo moderno, e la necessità di raforzare la società per rispondere alle side ininite del libero mercato. “Il cambiamento è di nuovo in marcia”, annunciò con quel tono messianico che era cominciato a emergere nei suoi discorsi dopo l’11 settembre 2001. “Il ritmo di questo cambiamento potrà soprafarci oppure potrà rendere migliore la nostra vita e più forte il nostro paese”, proseguì. “Quello che non possiamo fare è ingere che non stia succedendo. Sento dire che dobbiamo fermarci e discutere della globalizzazione. Tanto varrebbe discutere se l’autunno deve seguire all’estate”. Nel passaggio successivo usò un tono da evangelizzatore: “Questo mondo in rapida trasformazione è indiferente alla tradizione. Implacabile verso la fragilità. Irrispettoso delle valutazioni passate. Non ha consuetudini e prassi. È pieno di opportunità, ma solo per chi è pronto ad adattarsi, non si lamenta, è aperto, disponibile e capace di cambiare”. Seguii il discorso su un enorme schermo vicino alla sala del congresso, e ricordo di aver pensato: “La maggior parte della gente non è così”. Le parole mi frullavano in testa: “Pronto ad adattarsi, non si lamenta, aperto, disponibile e capace di cambiare”. Se queste erano le qualità ri chieste a milioni di britannici, mi chiedevo, cosa sarebbe successo se non avessero superato la prova? Ascoltando Blair che esponeva la sua visione del futuro – in cui ciascuno di noi aveva il dovere di diventare il più istruito possibile prima di lavorare come un matto cercando freneticamente di non afondare – ero colpito da due cose. Innanzitutto la totale mancanza di qualunque elemento empatico, umano (Blair parlò di equilibrio tra vita e lavoro, ma seppe ofrire solo “assistenza all’infanzia tra le 8 del mattino e le 6 del pomeriggio per tutti coloro che ne hanno bisogno”). In secondo luogo, non capivo assolutamente quali fossero i valori rappresentati dal moderno partito laburista. Se il capitalismo era ormai sinonimo d’insicurezza e disuguaglianza, la risposta dei laburisti suonava sempre più come una richiesta darwiniana rivolta agli elettori: accettate il cambiamento e fate del vostro meglio per adeguarvi. Peggio ancora, queste gravose richieste erano avanzate da una nuova leadership laburista culturalmente lontana da quelli che venivano considerati i suoi elettori tradizionali, e fatalmente inconsapevole della loro sempre maggiore disafezione. Nelle elezioni del 2010, sotto la guida del maldestro Gordon Brown, i laburisti conquistarono un misero 29 per cento, il livello più basso dal 1983. Cinque anni dopo, sotto la guida di Ed Miliband, i consensi aumentarono solo di un punto. Il partito sperava di rimettere insieme la coalizione elettorale che in qualche modo aveva retto per tutta la seconda metà del novecento, ma il mondo che l’aveva generata non esisteva più. Le iscrizioni al sindacato erano al minimo storico, l’industria pesante era scomparsa, e la coscienza di classe era svanita. Quando queste fondamenta cominciarono a sbriciolarsi, sparirono anche le vecchie ricette tanto care al partito, come le nazionalizzazioni e la ridistribuzione. Blair e Brown le sostituirono con un fragile modello socialdemocratico che alimentava la disponibilità al rischio del settore inanziario e usava i proitti per aumentare la spesa per i servizi pubblici. Ma la crisi inanziaria mise ine anche a quel modello. Nel frattempo, mentre il processo di deindustrializzazione andava avanti, l’instabilità e la frammentazione incarnate dal settore inanziario e da quello dei servizi venivano portate alla logica conclusione dalle nuove aziende digitali, che hanno generato il cosiddetto “capitalismo delle piattaforme”: un modello in cui beni, servizi e lavoro possono essere rapidamente scambiati tra persone, aziende e multinazionali senza alcun bisogno di organizzazioni intermedie: pensate a Uber, eBay, Airbnb e TaskRabbit, che mette in comunicazione lavoratori freelance e chi cerca aiuto per pulizie, consegne o traslochi. Questo processo non solo ha emarginato i commercianti al dettaglio e i grossisti, ma ha messo in discussione il ruolo tradizionale dei sindacati e ha indebolito ulteriormente il potere dello stato, ormai prigioniero di un modello in cui le innovazioni si difondono rapidamente ed è impossibile tenere il passo. A ben vedere, l’epoca felice della sinistra si basava su un progetto chiaro e immediato. Quando i cancelli della fabbrica si spalancavano, ne uscivano migliaia di uomini – in efetti erano quasi tutti uomini – uniti da un’esperienza quotidiana immutabile e pronti a sostenere una forza politica che avrebbe usato i sindacati, lo stato e un mitico “partito di massa” per creare un mondo nuovo e molto più giusto. Ma l’economia atomizzante e imprevedibile di oggi fa a meno di queste strutture, e ha frammentato luoghi e persone al punto che sembra quasi impossibile formare coalizioni politiche credibili. Nel Regno Unito queste condizioni sociali e politiche caratterizzano zone relativamente benestanti come le città di pendolari nel Surrey o nell’Essex, i centri dell’economia della conoscenza intorno a Cambridge e la scintillante nuova città di Livingston, in Scozia. E, allo stesso tempo, caratterizzano anche le zone che la modernità sembra aver lasciato indietro. Lo sciopero del 1985 Nella primavera del 2013, un paio di giorni dopo la morte di Margaret Thatcher, il Guardian mi ha inviato a Merthyr Tydil, un’ex città industriale nel sud del Galles. C’ero già stato molte volte, e mi era sempre sembrato un posto dove poter toccare con mano il declino del Labour. Merthyr Tydil è deinita dall’assenza. L’assenza delle industrie del carbone e dell’acciaio e dell’enorme fabbrica Hoover, chiusa nel 2009, ma più in generale l’assenza di idee e di istituzioni che un tempo deinivano il Partito laburista. Tra il 1900 e il 1915 la città fu rappresentata alla camera dei comuni da Keir Hardie, uno dei fondatori del Partito laburista. Nel 1997 qui il Labour conquistò un incredibile 77 per cento dei voti. Ma nel 2010 quella cifra era crollata al 44 per cento, e la politica locale riletteva una sensazione di sgomento e di perdita che aveva cominciato a diffondersi dopo la sconitta dei minatori che avevano partecipato allo sciopero del 1985. Arrivando in città, ho notato la sede di un call center della compagnia telefonica EE, che paga uno stipendio di circa 16mila sterline all’anno (18mila euro) agli operatori del servizio clienti. Davanti a un grande supermercato Tesco ho parlato con due pensionati che interpretavano quello che era successo a Merthyr come una sorta di ofesa ai loro valori. In passato, mi ha detto uno di loro, “un uomo voleva fare l’operaio: non voleva stare qua dentro a riempire gli scafali”. Quando gli ho chiesto cosa rimaneva dello sciopero del 1985, mi ha dato una risposta piena di emozione e soferenza: “Trent’anni fa, eh… È ancora dentro di noi. Ne parliamo ancora ogni giorno: ci chiediamo cosa sarebbe potuto succedere se fosse andata in un altro modo”. Nel centro della città ho incontrato una ragazza di diciotto anni che non riusciva a trovare lavoro. “Ho fatto domande su domande, e sono state tutte respinte”, mi ha detto. Si chiedeva se ci fosse qualcosa di sbagliato nel suo curriculum: l’idea che le sue diicoltà potessero essere imputate a forze superiori non la siorava minimamente. Le ho chiesto se sapeva cosa fosse un sindacato. “No”, ha risposto. “Cos’è?”. Oggi un britannico su sette ha un lavoro autonomo. Secondo la rivista Forbes, negli Stati Uniti entro il 2020 il 50 per cento delle persone lavorerà almeno in parte come freelance. Nel 2015 l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha reso noto che i posti di lavoro “non standard” – cioè quelli a tempo determinato, part time o autonomi – rappresentavano il totale della crescita netta di posti di lavoro nel Regno Unito dal 1995. È l’ascesa della cosiddetta gig economy, in cui non esiste il posto isso e si lavora solo quando c’è richiesta. Economisti e sociologi parlano di precariato, una classe sociale sempre più numerosa per cui il lavoro non è la base dell’identità personale ma è una componente a singhiozzo della vita da cui spesso ha bisogno di essere protetta. Naturalmente l’avidità degli imprenditori è parte del problema. Ma l’elemento centrale è radicato nella tecnologia, e in quello che i marxisti chiamerebbero “modo di produzione”. In un mondo in cui le aziende possono controllare gli ordini ogni ora e assumere personale a tempo determinato schiacciando un pulsante, perché dovrebbero basare la loro organizzazione su accordi che durano anni? Merthyr è ancora considerata una roccaforte laburista. Ma come in tanti altri posti nel Regno Unito, prevale la sensazione che la politica sia ormai disperatamente fuori dal tempo: per le persone anziane l’appartenenza al Labour è legata a un passato sempre più lontano, mentre i giovani non sanno niente di quel passato e hanno scarsa coscienza dell’importanza della politica per le loro vite. A Merthyr il 58 per cento degli elettori ha votato per l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, e alle elezioni per il parlamento gallese del 2016 il partito euroscettico Ukip ha ottenuto il 20 per cento dei voti. In posti come questi, la crisi del Labour è evidente. Andate in qualunque zona tradizionalmente di sinistra e la gente vi dirà che un tempo il Labour era “il partito degli operai”. Quest’idea riduttiva del Labour, della sua gente e della sua missione fondamentale è ancora profondamente radicata, soprattutto all’interno del partito. Negli anni novanta il New Labour ha messo da parte gli “operai” per adottare una politica rivolta alle “famiglie che lavorano sodo”, un’espressione che in parte rilette la crescente antipatia nei confronti di chi riceve sussidi. Perino quando sosteneva la necessità di migliorare l’assistenza all’infanzia e i servizi prescolastici, il Labour tendeva a sottolineare soprattutto l’importanza di far tornare le mamme al lavoro retribuito il prima possibile. Il Partito laburista di oggi non si è sbarazzato di queste idee superate sulla natura del lavoro. Durante la campagna per scegliere il leader del partito, Owen Smith e Jeremy Corbyn hanno tratteggiato progetti utopistici per riportare quasi magicamente il mondo a un periodo non meglio precisato anteriore al 1980. Smith ha proposto di resuscitare il ministero del lavoro, eliminato dal governo laburista di Harold Wilson nel 1968. Corbyn, che alla ine ha vinto ed è stato confermato alla guida del partito, ha proposto un “piano in dieci punti per ricostruire e trasformare” il Regno Unito basato sulla “piena occupazione e un’economia che funzioni per tutti” e sulla promessa di restituire la “sicurezza del posto di lavoro”. Sono visioni ingenue o disoneste, ma rilettono le illusioni che attraversano il Labour e la sinistra. Un nodo da sciogliere Il conservatorismo moderno guarda in modo favorevole i cambiamenti in corso nel mondo del lavoro. Nel Regno Unito molti esponenti del Partito conservatore sostengono che è ora di trasformarsi nel “partito dei lavoratori”. Nella loro idea il lavoratore è considerato un totem individualista e non un simbolo di solidarietà. Per capirlo basta leggere “Britannia unchained”, un’analisi dell’economia e del futuro del paese scritta da cinque esponenti del Partito conservatore entrati in parlamento nel 2010. Il documento aferma che l’ideale del lavoratore moderno è rappresentato dagli autisti della Addison Lee, una compagnia di taxi di Londra. Queste persone “operano come freelance e possono portare a casa 600 sterline nette alla settimana. Ma devono sudarsele, lavorando ino a sessanta ore settimanali”. In questa visione – portata alla sua logica conseguenza da Uber – accettare l’insicurezza diventa un atto di eroismo, ed emerge una nuova divisione politica tra chi si spacca la schiena e chi “riceve sussidi pubblici”. In altre parole, i lavativi contro gli stacanovisti. Tony Blair aveva cercato di trascinare il New Labour in questa direzione, ma i suoi tentativi si erano ripetutamente scontrati con il fatto che all’interno del partito era ancora forte il sostegno allo stato sociale e all’idea ormai superata del posto isso. Ma con un mercato della manodopera come quello attuale, mitizzare il lavoro ine a se stesso non raforzerà mai il sostegno a una politica basata su questi valori. Al contrario, potrebbe spingere molti elettori a destra. Le persone che lavorano, dopotutto, non fanno più parte di una massa monolitica: oggi molti tendono a considerarsi agenti solitari in competizione con gli altri, proprio come succede tra le aziende piccole e quelle grandi. Durante la campagna elettorale per le elezioni del 2015 ho avuto la prova lampante di come tutto questo stia erodendo la vecchia idea che ha la sinistra del rapporto con i suoi elettori. A Plymouth, nel sudovest dell’Inghilterra, ho visto una donna rispondere così a un militante del Partito laburista: “Io sono una che sfacchina, tu non fai proprio niente per me”. A Redcar, la città dell’acciaio nel nordest dell’Inghilterra, un uomo mi ha spiegato in questo modo il fatto di non voler votare per i laburisti: “Perché io lavoro”. In un seggio di Nuneaton due donne mi hanno detto che Ed Miliband poteva vincere le elezioni perché “tutta la gente con i sussidi” vota per lui. Secondo queste persone, il Labour non è più “il partito del lavoro”. È un nodo diicile da sciogliere. Ma per la sinistra la soluzione passa prima di tutto dalla comprensione del cambiamento epocale che ha spinto la politica oltre il posto di lavoro e ha portato l’economia nella sfera della vita privata; una transizione denunciata per la prima volta dal femminismo, con l’afermazione “il privato è politico”. Inglobare questa considerazione nelle politiche di sinistra non signiica rinunciare a regolamentazioni e interventi che potrebbero migliorare la vita di chi lavora, né abbandonare l’idea che il governo possa incoraggiare un’occupazione più utile e gratiicante, soprattutto tramite gli investimenti e l’istruzione. Ma, al di là del vecchio vangelo della fatica e della dignità del lavoro, qualunque moderna politica di centrosinistra deve inevitabilmente afrontare altri aspetti della vita delle persone – in quanto cittadini, badanti, amici e genitori – che ha a lungo sottovalutato e a cui le esigenze implacabili del capitalismo moderno lasciano poco spazio. La sinistra dovrebbe preoccuparsi di estendere il conge do parentale, anche quando i igli sono più grandi; rilanciare l’istruzione per gli adulti; aiutare le persone a creare reti di supporto a livello di quartiere che potrebbero rispondere alla crisi della famiglia allargata; e, ovviamente, consentire alle persone di accorciare la settimana lavorativa: pensate a un weekend di tre giorni e comincerete ad avere un’idea di una possibile politica di sinistra. I profondi cambiamenti causati dall’invecchiamento della società sono comunque destinati a far crescere il numero di persone che non sono in età lavorativa e a spostare l’attenzione verso la cura degli anziani. Ma la trasformazione più radicale sarà causata dall’automazione e dai suoi efetti sull’occupazione. Se la Banca d’Inghilterra calcola che nel Regno Unito 15 milioni di posti di lavoro sono minacciati dalla tecnologia, e se è vero che entro il 2025 un terzo dei lavori nel commercio al dettaglio andrà perso, bisogna chiedersi se la retorica miope e spesso machista del lavoro e del lavoratore esprima davvero una visione sensata del futuro. Due anime in guerra La sinistra ha naturalmente abbracciato la battaglia del movimento Occupy. L’enorme spaccatura tra una minuscola élite internazionale e il resto della popolazione, riassunta nello slogan “noi siamo il 99 per cento”, è un fatto innegabile. Ma nella vita quotidiana questa divisione non si manifesta chiaramente. La crescente disuguaglianza incoraggiata dalla globalizzazione e dall’economia di libero mercato si manifesta invece sotto forma di un divario culturale che sta spaccando a metà l’elettorato tradizionale della sinistra. Un tempo la socialdemocrazia – o, se preferite, il socialismo democratico – si basava sul sostegno della borghesia progressista e dei settori della classe operaia rappresentati dai sindacati. Oggi c’è un elettorato benestante e culturalmente progredito che osserva con perplessità una parte della classe operaia rancorosa in passato schierata con il Partito laburista. Il primo gruppo ha una cultura internazionale, crede in quella che nel linguaggio moderno viene deinita diversità e vive in una situazione di sicurezza garantita dall’istruzione e da un relativo benessere. Le persone che rientrano in questo gruppo sono apparentemente in grado di afrontare l’incertezza del loro futuro lavorativo (pensate alla diferenza tra uno sviluppatore di software freelance e un magazziniere con un contratto a zero ore). Dall’altra par te ci sono persone che hanno un’opinione negativa della globalizzazione, della modernità e dell’immigrazione. Nel Regno Unito questo gruppo vive in regioni che hanno votato prevalentemente per i laburisti ma anche a favore della Brexit. Per queste persone la risposta alla globalizzazione consiste nel tornare ad abbracciare consuetudini e prassi che le economie moderne tendono a schiacciare, come l’esaltazione dell’origine e dell’appartenenza e l’afermazione di un’identità nazionale sostanzialmente difensiva. Bisogna sforzarsi di notare che esporre una bandiera può essere un gesto che va al di là del semplice sciovinismo. Spesso è un modo per afermare una dignità – anche una dignità collettiva – in un mondo insicuro e instabile che sembra negarcela totalmente. Quelli che un tempo lavoravano nelle miniere di carbone o nelle acciaierie oggi sono “operatori” a tempo determinato che aspettano di conoscere l’orario lavorativo della settimana successiva. Ma sul piano culturale l’identità nazionale ofre alle persone una qualche prospettiva di riconquistare il senso di chi sono e del perché rappresentano qualcosa di importante. Anche quando parliamo dei timori legati all’immigrazione, bisognerebbe cercare di avere un atteggiamento empatico e articolato: le persone possono essere disorientate dalle rapide trasformazioni demograiche e ansiose di afermare un senso di appartenenza senza che questi sentimenti si trasformino necessariamente in odio. Ovviamente l’aumento del razzismo in tutta Europa, che è sembrato evidente nel voto sulla Brexit, è preoccupante. Ma la sinistra non può liquidare i 3,8 milioni di persone che hanno votato per l’Ukip nel 2012 o il numero ancora maggiore di elettori della classe operaia che hanno votato per la Brexit come una massa di fanatici e di razzisti. Perino nelle loro manifestazioni più sgradevoli molti pregiudizi hanno un contesto più ampio ed è chiaro che sono presenti soprattutto nei luoghi che sono stati lasciati indietro dalla modernità o ne vivono gli aspetti più diicili: mercati del lavoro precari, scarsità di alloggi, servizi pubblici insuicienti. E questo nuovo stato d’animo si sta diffondendo anche a causa di fattori intrecciati al declino della sinistra: il tramonto dei sindacati e del lavoro tradizionale che ha lasciato un vuoto politico, oggi riempito da un’altra forma d’identità collettiva. Un esempio evidente è la nuova retorica sull’Inghilterra e sull’inglesità. Di persone che si deiniscono “inglesi” ne ho conosciute abbastanza per sapere che di solito non si tratta di semplice orgoglio nazionale. È una deinizione che tende anche a sfociare in una serie di sprezzanti riiuti culturali da parte di chi non appartiene alla borghesia, non vive a Londra ed è arrabbiato per come la borghesia e i londinesi vedono il resto del paese. Nel censimento del 2011, per la prima volta, è stata inserita una domanda sull’identità nazionale: in Inghilterra il 60 per cento degli intervistati si deiniva inglese e non britannico. L’esempio scozzese La sinistra, sia nel Regno Unito sia in Europa, si ostina a non voler capire perché molte persone si rifugiano nel nazionalismo. È un discorso che vale sia per i progressisti alla Blair sia per Corbyn e i suoi sostenitori: i primi sono così contenti della globalizzazione che considerano il patriottismo un ostacolo al progresso; i secondi restano fedeli a un roseo internazionalismo che considera questi fenomeni una forma di fanatismo. Nel 2014 ho passato tre giorni sulla costa del Kent, nel sudest dell’Inghilterra, a seguire gli attivisti dell’Ukip e a parlare con le persone che partecipavano alle loro iniziative politiche. Nella città di Broadstairs, un gruppo di energici militanti di sinistra – che in seguito avrebbero fondato la sezione locale di Momentum, un movimento che sostiene Corbyn – aveva organizzato un giorno di proteste contro Nigel Farage, il leader dell’Ukip, candidato nel seggio di South Thanet. Li ho visti discutere con un uomo seduto sul lungomare che era fermamente deciso a votare per Farage e scherniva i loro tentativi di dissuaderlo: “Sarà eletto, e non potrete farci un bel niente”. Poi aveva spiegato la causa principale della sua rabbia. Suo iglio aveva una disabilità del linguaggio che gli impediva di trovare lavoro nel settore del catering. “Nessuno vuole dargli un lavoro. Ma poi arriva uno straniero che non parla una parola d’inglese e il lavoro glielo danno”. Ne hanno discusso per un po’, poi l’uomo ha detto: “Mi sono rotto le scatole”, e ha raccontato del suo senso di insicurezza. “Sono un operaio. Ho pagato le tasse e tutto. E se qualcosa va storto a me o alla mia famiglia e mi buttano fuori di casa perché non posso pagare il mutuo, inirò in un monolocale”. Cosa voleva allora? “Un’Inghilterra migliore”, ha detto, e in quel momento mi sono reso conto che i motivi della sua insoddisfazione – l’insicurezza e l’ingiustizia – un tempo sarebbero stati tema di dibattito a sinistra. Ma le persone di sinistra con cui l’uomo stava parlando non avevano un legame culturale con lui e vivevano in una realtà completamente diversa. Le cose possono andare in un altro modo? Se la sinistra non vuole ridursi a un’ombra metropolitana di se stessa e abbandonare la speranza di tornare al potere, è assolutamente indispensabile. La politica britannica deve cambiare al più presto se non vuole andare verso quel genere di orribile populismo che sta mettendo radici in tutta Europa e che è arrivato a governare paesi come la Polonia e l’Ungheria. La Scozia può fornire un esempio istruttivo. Il Partito nazionale scozzese è riuscito a ottenere ottimi risultati nelle ultime elezioni perché ha rifiutato di schierarsi sull’altro lato di una barricata culturale, come sta facendo il Labour in Inghilterra, e ha invece saputo raccogliere milioni di persone intorno a un’idea di nazione moderna, “civica”, e rilanciare un modello di governo socialdemocratico in termini d’identità e appartenenza. A sud del conine, invece, il Partito laburista non riesce a parlare a vaste zone dell’Inghilterra e del Galles e lascia campo libero alle forze politiche che vogliono troncare definitivamente ogni legame con la sinistra. Intorno al 2006 una di queste forze era il British national party (Bmp). Dal 2012 in poi è stato l’Ukip, che ha lentamente cominciato a iniltrarsi nelle vecchie roccaforti laburiste. Ora si dice che Arron Banks, imprenditore e inanziatore dell’Ukip, stia lavorando alla creazione di un nuovo partito che possa capitalizzare il supporto per la Brexit nelle zone operaie e laburiste del paese e consegnarle a una nuova identità politica. La posta in gioco, quindi, è incredibilmente alta: se la sinistra non saprà parlare alla gente che un tempo riusciva a raggiungere, lo faranno forze molto più pericolose. Oggi la sinistra è molto brava a chiedere cambiamenti, ma fatica a capirli. I più radicali troppo spesso considerano le grandi trasformazioni tecnologiche come il risultato dell’opera di rapaci capitalisti e politici di destra, e chiedono che quei cambiamenti siano cancellati. I moderati, invece, ten dono a invocare una resa incondizionata, e non si accorgono che i cambiamenti tecnologici ed economici possono creare nuove opportunità. Il crescente allontanamento dalla tradizionale base elettorale della sinistra peggiora ulteriormente questi problemi, e una parte tende a cancellare l’altra. Come risultato, molte persone che vivono cambiamenti drammatici nelle loro vite quotidiane hanno la sensazione che metà della politica abbia ben poco da dire. In una realtà complessa come quella attuale, anche la destra ha inevitabilmente i suoi problemi. Da molto tempo il Partito conservatore britannico usa il linguaggioaggressivo e populista che era caratteristico di Margaret Thatcher. Come Blair nel 2005, i conservatori recentemente sono andati al potere con l’appoggio di meno di un quarto dell’elettorato. Allo stesso modo, in Germania i cristiano-democratici di Angela Merkel, che un tempo si scontravano con i socialdemocratici per ottenere la maggioranza alle elezioni, ora sono intorno al 30 per cento. Ma per la destra le side della modernità sono sempre meno diicili che per la sinistra. Dopotutto, la destra cerca di salvaguardare e promuovere un capitalismo moderno invece di cambiarlo radicalmente. Anche in mancanza di un’ampia base sociale, la destra è sostenuta dalle grandi imprese e dalla stampa conservatrice, che le assicurano enormi vantaggi politici. In un interregno La sinistra ha risposto alla sua crisi guardando dentro di sè all’ininito, ma qualche segnale di speranza c’è. Sia tra gli ex sostenitori di Blair sia tra gli esponenti della sinistra tradizionale si sta difondendo l’idea di mettere da parte i vecchi sogni maggioritari del Labour e scegliere la rappresentanza proporzionale per costruire nuove alleanze e coalizioni. Questo cambiamento probabilmente provocherebbe una spaccatura tra la sinistra e la parte più moderata del partito, mettendo il Regno Unito in linea con il resto d’Europa, dove la crisi della sinistra è sottolineata dallo scontro tra i socialdemocratici e le nuove forze radicali. Nel Regno Unito e in molti altri paesi sta crescendo il sostegno per l’idea di un reddito garantito universale, basata sull’analisi dei rapidi cambiamenti economici e delle loro conseguenze sul lavoro tradizionale. È ancora presto per un salto di questa portata. Ma proporre che lo stato si faccia carico – in tutto o in parte – delle spese di base dei cittadini signiicherebbe riconoscere che il lavoro da solo non può garantire quella sicurezza collettiva che la sinistra ha sempre considerato la propria missione principale, e che bisogna creare spazio per gli altri aspetti della vita delle persone. È diicile prevedere se la sinistra saprà venire a patti con la nuova politica dell’identità nazionale e dell’appartenenza e gestirne gli aspetti più pericolosi. Ma se non ci riuscirà, la spaccatura con il suo elettorato tradizionale continuerà ad allargarsi. Forse nel Regno Unito e nel resto del mondo la sinistra – sia radicale sia liberale – è bloccata in un interregno. Una situazione che ricorda quella degli anni trenta, quando le scosse di assestamento della crisi economica relegarono la sinistra ai margini dalla politica dell’odio e della divisione. Nel 1931 il grande intellettuale laburista R.H. Tawney scrisse un breve testo intitolato La scelta davanti al Partito laburista. Tawney analizzava lucidamente la situazione del partito in un modo che sembra valido ancora oggi. Il Labour, scrisse, “non ottiene quello che potrebbe ottenere perché non sa cosa vuole. Si tormenta quando non è al governo e cincischia quando è al potere, perché non è abbastanza sicuro per aspettare o colpire. Non avendo chiari convincimenti sul proprio signiicato e sul proprio scopo, è privo del dinamismo che solo i convincimenti riescono a dare. Se non agisce con decisione e non ispira altri ad agire in tal modo, il motivo principale è che esso stesso è indeciso”. Nessun partito può esistere per sempre. Le tradizioni politiche possono tramontare e poi assumere forme nuove, e alcune semplicemente si estinguono. Quello che si può dire con certezza è che, se vuole inalmente uscire dal ventesimo secolo, la sinistra dovrà tirare fuori idee e convinzioni capaci di rispondere alle side di una modernità davanti alla quale sta aprendo gli occhi solo ora. ugc L’AUTORE John Harris è un giornalista britannico. Per il Guardian si occupa di politica e cultura