Il Sole Domenica 2.10.16
Ferdinand de Saussure (1857–1913)
«Langue» e «parole» di nuovo in dialogo
A cent’anni dal «Cours de linguistique générale», l’approccio storico torna ad essere ricompreso nella scienza linguistica
di Lorenzo Tomasin
I
capolavori della scienza, come quelli letterari, si prestano spesso a
interpretazioni così divaricate da muovere in direzioni impreviste le
idee dei loro autori. Se ciò è vero in genere, è tanto più vero per la
pietra angolare della linguistica moderna, quel Cours de linguistique
générale che a partire dagli appunti delle lezioni ginevrine di
Ferdinand de Saussure, nel 1916 fu pubblicato postumo dai suoi allievi
Bally e Sechehaye.
È ben noto che dal Cours saussuriano si suole
far partire lo strutturalismo, e che lo strutturalismo si suole
contrapporre al cosiddetto paradigma storico della linguistica
ottocentesca. Quello della glottologia, per intendersi, e della storia
comparata delle lingue genealogicamente raggruppate (indoeuropee,
romanze…). Dalla risoluta distinzione saussuriana fra studio diacronico e
studio sincronico della lingua vista come sistema statico nella
comunità di parlanti ancorati al loro presente discende l’affrancamento
novecentesco dall’ipoteca o dal primato della linguistica storica.
Quest’ultima sarebbe stata per l’addietro incapace di distinguere lo
studio del divenire linguistico da quello, per Saussure prioritario,
della lingua come sistema sincronico, che va letto prescindendo dai suoi
stati anteriori, perduti e assenti alla coscienza del parlante.
Portando alla estreme conseguenze questo aspetto della riflessione di
Saussure, si è arrivati a discorrere addirittura di una detronizzazione
della storia nella scienza linguistica.
I limiti della
contrapposizione netta tra sincronia e diacronia sono stati tra i primi e
più facili bersagli della riflessione sul Cours, fino a quando – negli
anni ’50 – Eugenio Coseriu ha mostrato come la lingua sia da intendere
essa stessa come cambiamento continuo, dimodoché il concetto di stato di
lingua come entità isolabile dal moto incessante del cambio si rivela
un’astrazione chimerica. La lingua è nella storia, e la storia è attiva
nei parlanti non meno della grammatica, cioè dei rapporti che reggono il
sistema.
Ancora, il profondo storicismo dell’impianto del Cours è
stato reclamato con intelligenza da Tullio De Mauro (responsabile della
sua non facile edizione critica): il carattere radicalmente arbitrario e
insieme sociale di tutte le lingue fa tutt’uno con il loro carattere
radicalmente storico.
Inoltre, la frattura che separerebbe
Saussure dai glottologi ottocenteschi si è attenuata riconducendo l’uno e
gli altri alla filiera che Michele Loporcaro ha chiamato
dell’immanentismo linguistico. In questione è la fiducia, comune a
positivisti e strutturalisti tramite Saussure, giù giù fino alla
linguistica generativa, nella possibilità d’individuare meccanismi di
razionalità immanenti alla lingua – anzi della langue, in termini
appunto saussuriani – e perciò separati, o almeno autonomi, dalla
società e dalla cultura dei parlanti. «La linguistica ha come unico e
vero oggetto la lingua considerata in sé stessa e per sé stessa», è la
frase con cui gli allievi fecero terminare il Cours.
Col che
Saussure, in compagnia con lo strutturalismo, ma anche con la
linguistica storico-comparativa da cui egli peraltro proveniva per
curriculum di studi, si contrapporrebbe piuttosto a una visione della
lingua espressa nel Novecento dalla sociolinguistica.
Questa
lettura, affascinante e persuasiva, mette in evidenza la matrice
idealistica (anzi proprio platonica) della visione saussuriana
(langue/parole) non meno che dell’innatismo dei generativisti. Ma ancora
una volta è forse una lettura parziale. La natura sociale e perciò
storica della lingua è esplicitamente richiamata da Saussure stesso come
necessario bilanciamento alla nozione di arbitrarietà che regge i
rapporti tra significante e significato, cioè del segno linguistico. Nel
famoso esempio saussuriano, il concetto di «albero» e l’immagine
acustica (cioè la sequenza di suoni) del termine albero si legano in
modo del tutto arbitrario, assolvendo alla funzione che in altre lingue
svolgono i significanti Baum o tree. E ciò avviene solo per il consenso
sociale dei parlanti.
Ma il tacito consenso sociale altro non è in
effetti se non quella storia che il Cours avrebbe detronizzato,
dichiarando che la sincronia è per il parlante l’unica vera realtà.
L’altro famoso esempio saussuriano della parola sœur, che per nessuna
ragione logica o naturale è collegabile al concetto di ’sorella’ più di
quanto lo sia Schwester, è riformulabile in questi termini: la sola
ragione per cui sœur significa ’sorella’ è in effetti che in latino
soror (da cui sœur deriva direttamente, cioè per tradizione ininterrotta
da parlante a parlante) significava appunto ’sorella’. Il che tra
l’altro sottrae all’arbitrarietà la somiglianza non fortuita, tra sœur e
sorella, o tra Schwester e sister, che anche il parlante più ingenuo ha
ben chiara. Il problema non è semplicemente spostato più a monte, ma
ricondotto a quella inscindibilità tra verità sincronica e verità
diacronica – come le chiamava Saussure, sforzandosi di tenerle separate –
che rende la sua distinzione tanto fragile quanto, per paradosso,
ancora stimolante. Uno dei fronti su cui, cento anni dopo, si ripropone
l’attualità del Cours è forse oggi quello tra le ragioni ineliminabili
della storia e la tipica tentazione novecentesca di spiegare il presente
col presente, facendo a meno della storia.