Il Sole Domenica 2.10.16
Ludovico Ariosto (1474–1533)
Torna il vero «Furioso»
In libreria la prima edizione del 1516, curata da Matarrese e Praloran: una versione considerata «troppo forte»
di Lina Bolzoni
Abbiamo
imparato da tempo che non sempre l’edizione definitiva di un’opera è
migliore dei tentativi che l’hanno preceduta. Ormai diffidenti verso le
“magnifiche sorti e progressive”, abbiamo adottato una visione
pluralistica: le diverse stesure di un’opera sono appunto interessanti
nella loro diversità, espressioni di un percorso magari accidentato, di
momenti molteplici nella vita dell’autore, nella storia che sta vivendo.
Il che non vuol dire, naturalmente, che di volta in volta una versione
non ci possa piacere più o meno di un’altra, che non possiamo apprezzare
l’impegno di revisione formale, e magari l’effettivo miglioramento che
si è verificato.
L’Orlando furioso è, anche in questa ottica, un
campo straordinario e inesauribile. Ed è buona cosa che, in occasione
del V centenario dalla prima edizione del poema, un forte interesse si
sia riacceso, anche a livello internazionale, intorno al testo e alla
sua molteplice fortuna. Naturalmente i frutti più significativi nascono
da un lungo lavoro: l’occasione del centenario serve a fare da coagulo, e
a richiamare l’attenzione. È il caso dei due volumi, appena usciti da
Einaudi, che offrono l’edizione del 1516 dell’Orlando Furioso, con una
premessa e un ricco commento, curati da Tina Matarrese e da Marco
Praloran. È appunto il frutto di un lungo lavoro. Marco Praloran, che al
Furioso ha dedicato studi di straordinaria finezza, è purtroppo
scomparso prematuramente nel 2011; i due volumi ci offrono ora i
risultati del commento cui Marco aveva lavorato, fino al XIX canto,
portato a compimento, insieme con l’edizione del testo, da Tina
Matarrese.
Il primo Furioso è stato a lungo un testo rimosso dal
nostro orizzonte: troppo forte, e diffusa in tutta Europa, è stata la
fortuna della edizione definitiva (o almeno resa tale dalla morte del
poeta), quella del 1532, in cui i canti erano diventati 46 da 40 che
erano, la lingua era stata rivista secondo il canone ’nazionale’ e
classicista consacrato dalle Prose del Bembo, e numerose aggiunte e
revisioni erano state introdotte in modo da far dialogare il poema con i
cambiamenti intervenuti nella politica estense e europea, nonché nel
panorama culturale: un dialogo impegnativo e non sempre privo di
difficili compromessi. Eppure quella prima versione era il frutto più
maturo di una vocazione alla poesia che Ariosto individua come il
proprio destino, tanto da difenderla contro chi ha cercato di
soffocarla, di negarla, a cominciare dal padre e dal cardinal Ippolito.
Le due figure vengono infatti associate, nelle satire, all’insegna della
violenza tirannica, tanto da evocare un inquietante mito di castrazione
nei confronti del padre, che dopo di lui aveva generato una numerosa
progenie e con la sua morte aveva costretto il poeta a occuparsene:
Che s’al mio genitor, tosto che a Reggio
Daria mi partorì, facevo il giuoco,
che fè Saturno al suo ne l’alto seggio,
sì che di me sol fosse questo poco
ne lo qual dieci tra frati e serocchie
è bisognato che tutti abbian luoco,
la pazzia non avrei de le ranocchie
fatta già mai, d’ir procacciando a cui
scoprirmi il capo e piegar le ginocchia.
(Satira III,13-21)
A
differenza delle ranocchie della favola, che incautamente chiedono a
Giove un nuovo signore, Ariosto però non si è fatto divorare, ha salvato
il suo poema, gli ha dato la luce nel 1516, accompagnando con personale
cura la stampa e la diffusione, non solo presso i signori della corte,
ma anche presso il pubblico più ampio che la nuova realtà della stampa
aveva contribuito a creare. Proprio a quella prima edizione dimenticata
Cesare Segre aveva dedicato un giudizio entusiasta: vi possiamo
cogliere, egli scriveva, «nel suo momento di freschezza vitale
l’invenzione ariostesca», «una libertà, una gioia di esprimersi, una
felicità che il totale impegno formale forse sacrificò in parte».
Siamo
oggi in una situazione in certo senso privilegiata: vari studi hanno
analizzato i cambiamenti intervenuti nelle diverse redazioni del testo;
una edizione critica del Furioso del 1516 ha visto la luce a cura di
Marco Dorigatti nel 2006 (ne abbiamo parlato su queste pagine il 4 marzo
2007) e una splendida analisi linguistica è stata pubblicata da
Maurizio Vitale (Lingua padana e koinè cortigiana nella prima edizione
dell’«Orlando Furioso», Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 2012). Ora
i due volumi einaudiani offrono un prezioso, nuovo strumento di lavoro,
soprattutto grazie al commento ricco e puntuale. Vi troviamo pienamente
acquisiti i nuovi risultati emersi dal lavoro critico di questi ultimi
anni sulla memoria poetica di Ariosto, a cominciare dai suoi rapporti
con Petrarca e con Dante; particolarmente valorizzata è la presenza di
Boiardo, il precursore estense e ferrarese del Furioso, l’inizio
nascosto di un poema che, come aveva scritto Calvino, non ha un inizio
né una fine. Continua è pure l’attenzione alle caratteristiche di una
lingua che conserva qualche gustoso tratto dialettale (mi piace qui
ricordare almeno “canton” per “angoli” e “stracco” per “stanco”). «La
prima redazione – scrive Tina Matarrese nella Introduzione - ci mostra
una situazione ancora fluida, in cui l’uso cortigiano fa avvertire la
sua presenza in un certo ibridismo tra latinismi, regionalismo e
fiorentinismi. Ma la direzione va verso un superamento della instabilità
e variabilità del volgare grazie anche al passaggio del testo in
tipografia con le sue esigenze uniformanti». Le note danno via via conto
delle scelte linguistiche e spesso le confrontano con quelle delle
versioni successive del poema, del 1521 e del 1532. Abbiamo così la
possibilità di vedere da vicino, nella sua unità e specificità, il testo
del 1516 e insieme di proiettarlo, come in un caleidoscopio, nelle sue
forme future. L’Indice delle parole e dei fenomeni linguistici annotati
offre una puntuale mappa; di grande utilità è anche il commento che,
alla fine di ogni canto, ne delinea i caratteri, ne dà una lettura
critica.
Proprio perché questa opera vuole aiutare un pubblico
vasto a riscoprire un libro a lungo dimenticato, ci sarebbe piaciuto che
si fosse anche dato spazio appunto al libro, a come questo potente
mezzo di comunicazione, allora relativamente recente, presentava il
poema dell’Ariosto agli occhi dei suoi lettori. Penso alla lettera,
firmata da Jacopo Sadoleto, in cui papa Leone X concedeva il privilegio
di stampa per il poema. E soprattutto penso alla xilografia che a piena
pagina accompagnava il testo, con l’immagine delle api e il motto Pro
bono malum, a indicare l’ingratitudine di chi caccia col fuoco le api
per impadronirsi del loro miele: una specie di amaro commento alla
situazione in cui il poema era nato, un’immagine con cui Ariosto aveva
voluto accompagnare l’uscita alla luce della sua opera.
Quella che
abbiamo a disposizione è comunque un’opera meritoria, di grande impegno
sia per gli autori che per l’editore. E anche per il lettore, che deve
via via tagliare le pagine dei due volumi: un invito a prendersi tempo,
per pensare e immaginare, che piacerebbe a chi, come Lamberto Maffei, ha
elogiato la lentezza.
Ludovico Ariosto, Orlando Furioso secondo l’editio princeps del 1516 , a cura
di Tina Matarrese e Marco Praloran, Einaudi, Torino, 2 voll., pagg.1423, € 120