Il Sole 4.10.16
Unione, muri e divorzi
Europa prigioniera tra Orban e May
di Adriana Cerretelli
C’è
coincidenza di tempi e di oltranzismo identitario tra l’Europa dell’Est
e la Gran Bretagna che si prepara a lasciare l’Unione. Di mezzo, le
pressioni migratorie e la persistente assenza di strategie e politiche
comuni per affrontarle. La sintonia, che si allarga a Nord, ai Paesi
scandinavi sempre più arroccati dentro i loro “paradisi”, erode coesione
e tenuta dell’Europa. Alla lunga a serio rischio di scomposizione.
Il
sollievo per la sconfitta politica di Viktor Orban in Ungheria potrebbe
per questo rivelarsi fugace e soprattutto mal riposto. Non solo perché
il premier pare deciso a emendare la Costituzione per rendere valido il
risultato di un referendum che non ha raggiunto il quorum minimo (50%)
di votanti richiesto. Non solo perché qualsiasi richiamo di Bruxelles
non lo fermerebbe ma esaspererebbe, espandendolo, il sentimento di
sovranità violata dalle quote obbligatorie Ue sui rifugiati nei 3
milioni di ungheresi su 8 che le hanno bocciate. Ma anche e soprattutto
perché il verbo sovranista di Orban, come del resto i suoi muri, oggi
trovano nell’Unione maggior seguito di quanto si voglia ammettere. Non
c’è solo la Polonia di Jaroslaw Kaczynski baldanzosamente al suo fianco.
Il
presidente ceco, Milos Zeman, ha appena invocato per gli immigrati
economici sbarcati in Europa nel 2015 la «deportazione negli spazi vuoti
del Nordafrica o nelle isole greche disabitate perché la cultura
islamica è incompatibile con la società europea e per di più
rischierebbe di radicalizzare i nuovi venuti». Danimarca, Svezia e
Finlandia parlano meno ma non sono molto più teneri. Nei fatti. Il
significato del voto ungherese va dunque ben oltre lo schiaffo politico a
Orban o la conferma della solidarietà immaginaria che oggi esprime
l’Unione: tocca i nervi scoperti della irrisolta “questione nazionale”
che accomuna, paralizza e destabilizza l’Europa da Est a Ovest, da Nord a
Sud.
La controrivoluzione nazional-identitaria che l’Est propone
ai partner, insieme alla cosiddetta «solidarietà flessibile» sulle
quote, riecheggia fin troppo il separatismo di Brexit nato per ragioni
simili: stessa idiosincrasia verso gli immigrati, europei in questo
caso, stessa ansia di rimpatrio della sovranità ceduta a Bruxelles.
Né si discosta molto dal messaggio dei vari populismi di destra e sinistra che scuotono le democrazie europee.
Non
è un caso che Orban abbia deciso ai primi di luglio, 12 giorni dopo il
successo di Brexit, di ricorrere alla democrazia diretta per contestare
la politica europea, indicendo il referendum anti-quote e pro-sovranità
nazional-parlamentare.
È invece fortuita ma sonora la coincidenza
tra il responso ungherese e l’annuncio di Theresa May, la stessa
domenica, della formalizzazione del divorzio dall’Ue entro fine marzo,
con due punti fermi: Londra riprenderà il pieno controllo
dell’immigrazione e non riconoscerà più la giurisdizione della Corte di
Giustizia Ue. La Gran Bretagna, ha promesso il premier, «diventerà un
paese pienamente indipendente e sovrano». E per questo è disposta a
pagare il prezzo dei contraccolpi economici che già si manifestano sui
mercati.
L’intercambiabilità delle frasi e delle posizioni europee
di Orban e May, dove l’immigrazione declinata in tutte le sue forme
diventa il detonatore utile al recupero di sovranità nazionale ai danni
di quella euro-condivisa, la dice lunga sui tarli che masticano il
progetto europeo e la capacità collettiva di elaborare una politica
migratoria efficace e accettabile a tutti. Arrendersi equivarrebbe però a
condannare l’Europa a trasformarsi a poco a poco in un grande
contenitore vuoto.
Comunque la si guardi, la partita è però
avvelenata. Lo dice anche l’accordo fatto con la Turchia autoritaria di
Tayyip Erdogan per fermare i flussi: Realpolitik senza scrupoli in
cambio della svendita di valori europei fondamentali come libertà e
democrazia. Cioè altro sfregio ai Trattati, al cemento identitario di
una cultura che ne ha disperato bisogno per confrontarsi e dialogare con
culture diverse, fortemente ma diversamente identitarie.
Ora
Erdogan pretende la liberalizzazione dei visti entro ottobre anche se
non ha rispettato tutte le condizioni previste. L’uomo forte di Ankara
ricatta senza pudori le debolezze europee come la vulnerabilità di
Angela Merkel, che sui rifugiati si gioca la rielezione in Germania. O
della Francia alle prese con l’irresistibile ascesa di Marine Le Pen.
L’equazione
migratoria è diventata totalizzante nel suo impatto diretto e indiretto
quanto quella altrettanto irrisolta dell’euro. Davvero tra muri,
divorzi in fieri e flussi continui è lungimirante e producente usare
benevolenza a Erdogan e l’opposto a Orban & Co per di più sul
terreno oggi friabilissimo dei valori europei stracciati? Se vuole
davvero un futuro, l’Unione oggi deve ricucire fiducia e coesione in
casa. Soprattutto evitare le guerre di religione intra-europee.