il manifesto 4.10.16
Costituzione modificata contro l’Ue
di C. L.
ROMA
Nonostante abbia perso la sua battaglia contro l’Unione europea,
paradossalmente ieri Viktor Orbán è stato l’unico a cantare vittoria. Un
entusiasmo forzato, certo, perché il premier ungherese sa bene che il
referendum contro le quote di richiedenti asilo, da lui stesso voluto,
non è andato come sperava, ma i toni bassi con cui in Europa e in
particolare a Bruxelles è stato accolto l’esito delle urne rende bene la
consapevolezza delle cancellerie del Vecchio Continente di come la
partita in corso con Budapest sia tutt’altro che archiviata. E infatti
Orbán non ha perso tempo per rilanciare la sua sfida annunciando una
modifica della Costituzione che consenta di vietare l’accoglienza di
profughi nel paese senza una preventiva approvazione da parte del
parlamento.
Nessuna marcia indietro, quindi. Una mossa che rende
ancora più timide le parole con cui il portavoce della Commissione
europea ha commentato l’esito del voto («ne prendiamo atto») e ricordato
che «i ricollocamenti già decisi sono obbligatori, e quindi vanno
rispettati». Difesa flebile delle decisioni assunte dalla Commissione ma
alle quali lo stesso presidente Jean Claude Juncker ha dimostrato di
aver rinunciato quando, nel discorso pronunciato a Strasburgo sullo
stato dell’Unione, ha riconosciuto che la solidarietà verso i profughi
non può essere imposta. Lo sa bene Matteo Renzi, che infatti ha evitato
facili entusiasmi sul voto ungherese. «Dal punto di vista politico è un
risultato positivo, ma temo che non cambierà nulla perché gli egoismi
europei non sono solo in Ungheria», ha detto il premier.
Seppure
mascherata da vittoria dietro l’affermazione che «il 98% dei votanti ci
ha dato ragione», come vanno ripetendo gli esponenti della Fedesz, il
partito di Orbán, la sconfitta di domenica rischia adesso di provocare
in Ungheria una nuova svolta autoritaria, dopo la riforma della
Costituzione del 2013. Anche perché il premier deve fare i conti con una
crisi economica che spinge gli ungheresi a emigrare se vogliono trovare
lavoro pagato decentemente e con gli attacchi che gli provengono da
destra, con il leader degli ultranazionalisti xenofobi di Jobbik, Gabor
Vona, che approfittando del pessimo risultato ottenuto ha già chiesto le
sue dimissioni.
Di fronte a tutto questo l’Europa tace,
apparentemente incapace di reagire alle provocazioni che arrivano da
Ungheria, Cechia, Slovacchia e Polonia, quel blocco Visegrad di cui a
torto o a ragione Orbán ancora si considera il leader. A dimostrazione
di come il referendum ungherese abbia davvero scosso poco la situazione,
ieri il presidente della repubblica Ceca Milos Zeman ha confermato il
No alle quote di richiedenti asilo e rilanciato una proposta fatta poche
settimane fa proprio da Orbán: quella di «deportare» i migranti
economici in Nord Africa o «su isole greche disabitate». «Questo – ha
spiegato Zeman – per la Grecia potrebbe diventare una sorta di pagamento
del debito». E così anche Atene è servita.