Il Sole 31.10.16
Tasse, sviluppo, sanatorie
Le spinte alla crescita e l’equità in pericolo
di Salvatore Padula
Per
il fisco, l’autunno è sempre stagione di grandi speranze e talvolta di
grandi cambiamenti. Quest’anno non fa eccezione. Al punto che sembra
giusto interrogarsi su quale sia la strategia fiscale che esce dalla
manovra 2017, con misure “spalmate” tra un decreto legge, un disegno di
legge e annunci di ulteriori novità (le semplificazioni e il nuovo corso
degli studi di settore, solo per citarne alcune). Anzi, visto che si
tratta dei primi interventi dopo l’attuazione della delega tributaria -
le norme della legge di Stabilità 2016 erano quasi parte integrante
della delega stessa - può essere opportuno chiedersi se le novità in
arrivo rafforzino oppure indeboliscano l’obiettivo di quella “quasi
riforma”, che prometteva l’approdo a un sistema fiscale più equo, più
trasparente e più orientato alla crescita.
Partiamo da qui.
È?difficile non cogliere nel “pacchetto fiscale” della manovra 2017 la
volontà di creare un contesto più favorevole allo sviluppo. Si può dire
(e si deve dire): molto resta ancora da fare. Però è un fatto che nel
2017 l’aliquota dell’Ires scenderà al 24%, livello più basso di altri
paesi (bassissimo se pensiamo che nel 2000 l’Italia era al 37%). Come è
un fatto che questa riduzione andrà a sommarsi a un già acquisito taglio
dell’Irap per la componente relativa al costo del lavoro. E ancora: ci
sono la conferma dei super-ammortamenti, i nuovi iper-ammortamenti per
gli investimenti legati a Industria 4.0, che si intrecciano con le norme
sugli incentivi industriali e sull’accesso al credito, anche per le
Pmi. Qualcuno fa notare, in negativo, il taglio dell’Ace, ma bisogna
riconoscere che con i tassi ai livelli attuali i benefici erano
oggettivamente troppo generosi.
Continua pagina 3 Salvatore Padula
Continua
da pagina 1 A un livello diverso, più per la tipologia dei destinatari
che non per la portata delle novità, ci sono sia il debutto dell’Iri sia
la tassazione con il criterio di cassa.
Insomma, sono interventi
che – insieme ad alcune norme per attrarre investitori stranieri (dove
però brillano di più le iniziative della delega, ad esempio con i ruling
per chi investe in Italia, multinazionali incluse) – danno il senso di
un sistema impegnato nel favorire la crescita. Certo, non è cosa facile.
Il nostro fisco è rimasto praticamente quello disegnato dalla riforma
del 1971 (con le modifiche del ’97 e del 2004). Una filosofia che risale
a 45 anni fa. Non significa che tutto si sia fermato e, ad esempio,
l’arrivo del patent box è lì a confermare che si intravede, come ha
scritto Maurizio Leo, un’evoluzione normativa consapevole che le regole
fiscali devono interpretare i fenomeni economici e non determinarli.
Tuttavia,
si può e si deve fare di più. Sul fronte della ricerca e
dell’innovazione, per citare un caso: perché ostinarsi a “premiare” solo
le spese incrementali, negando così ogni vantaggio a chi - e sono molti
- di investimenti in ricerca e innovazione ne fa già in abbondanza?
Restano
l’equità e la trasparenza. Partiamo da quest’ultima, intesa anche come
spinta alla semplificazione, tema caro tanto al mondo delle imprese
quanto ai professionisti. Quel che per ora si vede nella manovra è un
sistema altalenante che elimina alcuni adempimenti, molto odiati, ma che
puntualmente ne introduce di nuovi, potenzialmente altrettanto odiosi.
Si prenda il decreto legge: via le comunicazioni dell’elenco clienti e
fornitori, sostituite con due nuovi adempimenti telematici trimestrali,
la comunicazione analitica dei dati delle fatture e la comunicazione dei
dati delle liquidazioni Iva. Il classico gioco delle tre carte, dicono i
maligni, con annessa “lotteria degli scontrini” annunciata nella legge
di bilancio. Dove a vincere (ovvero: prendersi gratis tutti i vantaggi) è
sempre e solo l’amministrazione. Un giudizio forse eccessivo. Ma non
sfugge la mancanza di sensibilità politica. Per quale motivo le “altre”
semplificazioni, dalla sospensione feriale dei termini all’abrogazione
della presunzione legale sui prelievi e versamenti bancari dei
professionisti – chieste a gran voce dagli operatori e sulle quali c’era
l’accordo di tutti, a partire dal vice ministro Luigi Casero che le sta
giustamente e fortemente sostenendo – non sono state inserite nel
decreto legge? Perché il riordino degli studi di settore è sparito dai
radar? Sono norme che arriveranno, d’accordo, come ha ribadito lo stesso
ministero dell’Economia. Ma resta uno scivolone che si poteva evitare,
visto che su altri aspetti – dalla riapertura delle assegnazioni
agevolate al prolungamento delle rivalutazioni (forse misure più
estemporanee ma altrettanto importanti) – non si sono avute difficoltà
nell’assecondare le aspettative degli operatori.
Infine, il
capitolo dell’equità che richiama molti aspetti ma che qui riguarda
principalmente le sanatorie, voluntary e cartelle, oltre che più in
generale l’assetto del nuovo sistema di riscossione, tutti temi del
decreto legge.
La voluntary disclosure: era stato detto, lo
scorso anno, che si sarebbe offerta un’ultima possibilità di
“pentimento” a chi aveva illegalmente portato capitali all’estero e,
dicendolo con meno enfasi, a chi custodiva in Italia, capitali
sconosciuti al fisco - quindi contanti, gioielli, opere d’arte, forse
oro.
La riapertura della voluntary nasce soprattutto per cercare
una soluzione a quest’ultimo problema, visto che la “sanatoria
domestica” che si è chiusa nei mesi scorsi non ha convinto praticamente
nessuno a uscire allo scoperto. La soluzione, per chi nascondeva soldi
in Italia, era inizialmente quella di offrire una via d’uscita con
pagamento a forfait (i famosi 15% e 35%). Poi è andata come sappiamo,
c’è stato un ripensamento e la regolarizzazione di queste posizioni si
scontrerà probabilmente con le stesse difficoltà che l’avevano frenata
l’anno scorso.
Vedremo cosa accadrà. Tuttavia bisogna essere
chiari: la voluntary serve per il gettito che può garantire. Prendiamone
atto. Quello che non convince è invece il gioco dei “penultimatum”: se
una possibilità di sanatoria è presentata come l’”ultima”, e siccome
tutti concordano sul fatto che le sanatorie sono ingiuste per
definizione perché creano disparità con chi non ne ha bisogno per
rispettare le regole, allora deve essere davvero l’ultima possibilità.
Qui non c’è in gioco solo una manciata di miliardi per l’Erario ma la
credibilità stessa del sistema fiscale. E se non siamo in grado di
evitare continue riaperture dei termini, è meglio scegliere – come altri
Paesi hanno fatto – una voluntary a regime. Il messaggio sarebbe meno
dannoso.
Ancora alla “credibilità” del sistema tocca appellarsi
per l’altra sanatoria, quella delle cartelle di Equitalia. La sanatoria
non è sbagliata in sé, almeno dal punto di vista del governo. Per almeno
due motivi: se ci sono 50 miliardi di crediti “lavorabili” dai quali si
può ottenere qualcosa, turiamoci il naso, come si diceva una volta, e
non facciamoceli sfuggire (senza illusioni: se ne prenderà a malapena
qualche punto percentuale). Inoltre, ci può stare che per le cartelle
più antiche, quelle di importo medio-basso, quelle arrivate agli eredi
ecc. ecc. si possa pensare a un’operazione “pulizia”. Però, come accade
in ogni sanatoria, dobbiamo essere consapevoli del fatto che stiamo
creando sperequazioni e iniquità. Chi ha pagato nei termini e chi
invece, per mille ragioni, potrà ora ottenere uno sconto anche
significativo (si pensi al caso di una cartella per RW!).
Ma ciò
che davvero preoccupa è l’abbinamento, la concomitanza tra sanatoria
delle cartelle e addio a Equitalia. Un sincronismo che trasferisce la
sgradevole sensazione di “buttare il bambino con l’acqua sporca”. Ora,
che il sistema di riscossione non sia perfetto, che abbia il vizietto
della “cartella pazza”, che sia troppo aggressivo con i deboli e forse
troppo permissivo con i più forti – peraltro sempre sulla base delle
norme di legge – sono fatti. Ma non si finga di non capire: quando nel
2006 arrivò Equitalia, i concessionari bancari che svolgevano l’attività
esattoriale incassavano mediamente 2,9 miliardi di euro all’anno.
Adesso si sfiorano i 9 miliardi, con un’efficacia che supera di poco
l’11% dell’accertato (prima si viaggiava intorno al 3%). Senza poi
dimenticare che le vecchie esattorie private incassavano direttamente
dallo Stato sotto la strana voce “non riscosso per riscosso”.
Ora
avremo la sanatoria (tra l’altro, come andranno in questi mesi “di
transizione” gli incassi di Equitalia?) e poi arriverà un nuovo
esattore. Che cosa ci aspettiamo da lui? Che tutti paghino
spontaneamente i ruoli? Oppure, come è probabile, per incassare il nuovo
esattore dovrà fare più o meno quello che sta facendo Equitalia? Il
pericolo è la delegittimazione di un’attività che è parte integrante del
sistema di tassazione. Se, dopo l’accertamento, non si riesce a
incassare, è meglio sapere che lo Stato ci sta perdendo due volte. Sta
perdendo decine di miliardi di tasse dovute (e accertate, anche
l’accertamento costa) che nessuno pagherà mai. E sta perdendo la faccia,
per l’ennesima volta, nei confronti degli onesti.