Il Sole 21.10.16
Svolta nel Sud-Est asiatico
Duterte In visita a Pechino: «Non metterò più piede negli Stati Uniti»
Manila strappa con gli Usa e abbraccia la Cina
di Gianluca Di Donfrancesco
«Basta
con le ingerenze degli Stati Uniti. Non metterò mai più piede negli
Stati Uniti, lì sanno solo insultarci». Il presidente filippino Rodrigo
Duterte sceglie Pechino per sancire nel modo più eclatante lo strappo
con Washington, che, dopo tante dichiarazioni, ora assume la sostanza
concreta del riavvicinamento alla Cina e di 13,5 miliardi di dollari di
accordi siglati durante la sua visita ufficiale.
Corte Aia: Pechino non ha diritti su isole contese del Mar cinese
Le
dichiarazioni che ribadiscono la presa di distanza dallo storico
alleato sono state pronunciate mercoledì sera, durante un incontro con
la comunità filippina a Pechino, sotto gli occhi del vice-premier cinese
Zhang Gaoli: «È ora di dire addio agli Stati Uniti», ha detto Duterte,
che si è portato in delegazione oltre 200 imprenditori. Ancor più
roboante la conclusione: «Forse andrò anche in Russia a dire a Putin che
siamo in tre contro il mondo, Cina, Filippine e Russia». Lo stesso
giorno, mille manifestanti si sono riuniti davanti all’ambasciata
statunitense a Manila, per chiedere la chiusura della base militare Usa
di Mindanao.
Gli accordi economici, che spaziano dal commercio
alle infrastrutture, dal turismo alla lotta al narcotraffico, sono stati
siglati ieri, dopo un vertice con il presidente Xi Jinping.
Il miracolo filippino al test della presidenza Duterte
La
svolta, coltivata sin dal giorno dell’insediamento a giugno, è un duro
colpo per la strategia di contenimento di Pechino messa in atto dagli
Stati Uniti. Il capo di Stato filippino, in cambio degli investimenti
cinesi, non ha esitato a invertire rotta nella disputa territoriale sul
Mar della Cina meridionale, facendo fare a Manila un’autentica piroetta.
Era stato proprio il suo predecessore, Benigno Aquino, nel 2013 a
sfidare le pretese di Pechino davanti alla Corte arbitrale dell’Aja. La
quale, solo qualche mese fa, aveva dato ragione proprio alle Filippine,
rigettando le pretese della Cina. Dopo quella sentenza, le relazioni tra
i due Stati avevano raggiunto il grado zero: Pechino aveva raccomandato
perfino ai suoi turisti di stare alla larga dal Paese, già snobbato
dalle sue imprese.
Un dossier, quello delle acque territoriali su
rotte attraversate ogni anno da 5mila miliardi di dollari di scambi
commerciali, che ha effetto su tutti i Paesi della regione. E che ha
visto gli Stati Uniti sfidare apertamente la Cina con la propria flotta
militare. Un raggiante Xi ha incassato il dividendo diplomatico della
visita di Duterte definendola «storica». Il presidente filippino, del
resto, è stato accolto con onori concessi a pochi capi di Stato: parata
militare e ricevimento nella Grande sala del popolo.
Il giustiziere Duterte insanguina le Filippine
All’inizio
di settembre, Duterte aveva causato un incidente diplomatico con
Washington, insultando il presidente Barack Obama («Sei un figlio di
puttana») alla vigilia del vertice dei Paesi del Sud-Est asiatico in
Laos, salvo poi tentare una goffa retromarcia. La colpa di Obama,
condivisa dai leader europei e dall’Onu, è quella di aver criticato gli
eccessi della guerra contro il narcotraffico lanciata da Duterte: una
crociata che in quattro mesi ha fatto oltre 3.700 morti, spesso piccoli
spacciatori o semplici tossicodipendenti, uccisi dalle forze di polizia e
da milizie paramilitari.
Washington guarda con preoccupazione a
quello che sta succedendo a Manila e non può essere rassicurata dalla
correzione di rotta tentata dai suoi ministri alle Finanze e alla
Programmazione economica, che poche ore dopo le dichiarazioni di Duterte
hanno ribadito la volontà di «mantenere le relazioni con l’Occidente».
Gli Stati Uniti hanno cinque basi navali nelle Filippine, con le quali
da 30 anni svolgono esercitazioni navali congiunte. Quest’anno, hanno
stanziato 180 milioni di dollari in aiuti militari a Manila. Perdere
l’appoggio del suo più fedele alleato nel Sud-Est asiatico potrebbe
avere ripercussioni pesantissime e compromettere la strategia «Pivot to
Asia», coltivata da Obama.
Per ora, i funzionari americani
minimizzano: le operazioni militari congiunte continuano e i
“consulenti” Usa sostengono la campagna dell’esercito filippino contro i
guerriglieri islamisti di Abu Sayyaf (che hanno giurato fedeltà
all’Isis). Dalle parole, però, Duterte è ormai passato ai fatti.