Il Sole 18.10.16
Renzi
Il doppio significato della trasferta americana
di Mario Platero
Nella
 visita di Stato di Matteo Renzi a Washington c’è un doppio significato 
economico. Il primo è puramente macro: crescita, congiuntura, 
strozzature per le troppe regole, necessità di smuovere in tandem con 
Washington le rigidità di Bruxelles. Il secondo è finanziario. I grandi 
operatori di Wall Street, da Larry Fink di BlacRock a Jamie Dimon di 
JPMorgan Chase a centinaia di altri operatori che hanno investito o 
pensano di investire nel nostro Paese, studiano ogni aspetto di questa 
visita per capire se fra Obama e Renzi ci sia davvero una solida 
lunghezza d’onda. Interessano questioni come missioni Nato o interventi 
in Libia. La tenuta del dialogo transatlantico dopo le ondate di 
populismo nazionalista che abbiamo visto in Europa. Ma interessa molto 
come si porrà Obama sulla sfida di Matteo Renzi per il referendum.
Nel
 corso di numerosi incontri formali o informali che ho avuto con 
protagonisti della finanza americana, una delle domande ricorrenti 
riguarda proprio la tenuta forte del rapporto bilaterale Washington Roma
 nel momento in cui i populismi nazionalisti sembrano indebolire il 
progetto europeo e spingere a un voto “contro” qualunque proposta in 
arrivo da chi si trova al governo. Cosa ce ci porta al referendum del 4 
dicembre. Le complessità machiavelliche della nostra politica interna 
interessano pochissimo chi ci guarda da fuori. Se l’Italia voterà no al 
referendum darà un messaggio molto semplice a chi aveva dato e continua 
dare fiducia finanziaria al nostro Paese: l’interesse per le riforme e 
per creare le condizioni necessarie al rilancio dell’economia non è poi 
così radicato nel Paese come poteva sembrare dopo le molte riforme di 
questo governo.
Sappiamo come la pensa Obama: ritiene che si debba
 sempre guardare in avanti. Il suo motto «yes we can» non è solo 
semantico. Sappiamo però che l’”intrusione” di un leader straniero in un
 appuntamento elettorale può avere effetti controproducenti. Barack 
Obama ad esempio è addirittura andato a Londra per appoggiare il voto 
per restare in Europa. E anche se i ragionamenti pacati del Presidente 
americano per l’Europa e per il multilateralismo avevano avuto 
all'inizio un impatto positivo, Brexit ha poi vinto lo stesso. Anche da 
noi, dichiarazioni dell’Ambasciatore americano John Phillips a favore 
delle riforme sono state accolte dall’opposizione come interventi a 
gamba tesa in questioni di politica interna.
Ma Wall Street sa 
bene anche un’altra cosa: Barack Obama è per definizione uomo 
anti-establishment. È schivo per natura. Si è fatto dal niente studiando
 e lavorando sodo. Ha preso più volte le distanze proprio da Wall 
Street, che non ama molto pubblicamente le sue intrusioni anche sul 
fronte delle regole. Nel contempo il Presidente americano ha anche 
aiutato settori in difficoltà, come quello automobilistico “investendo” 
fondi governativi per il rilancio, fondi che sono stati ampiamente 
ripagati con tanto di interessi. Obama insomma è riuscito a mettere in 
piedi un “circolo virtuoso” per il ruolo dello stato nel rilancio 
dell’economia, interventista, aperto al deficit spending, 
all’investimento infrastrutturale, sull’addestramento e più in generale a
 una politica fiscale aggressiva.
L’opposto di quel che sta 
capitando in Europa. Da Washington molti think tank notano come le 
rigidità di Bruxelles per i nostri progetti non aiutano a cambiare un 
corso di politica economica su cui l’America di Obama ha chiesto più 
volte l’introduzione di misure più favorevoli alla crescita. «Temi 
eccezionali richiedono interventi eccezionali» ha detto una volta il 
Presidente americano. E le su spinte per un’Europa più aggressiva sul 
fronte fiscale, non solo a Bruxelles, ma anche a Berlino, non ci sono 
solo per altruismo, ma perché l’America ha bisogno di aiuto nello 
stimolare la crescita.
Abbiamo visto dagli ultimi dati che i tassi
 di crescita sono avviati ben al di sotto del 2% che era stato 
originariamente stimato per il 2017. Dunque il messaggio politico di 
Barack Obama, dovrebbe essere soprattutto per l’apertura, per la 
conferma di quel dialogo con Roma come interlocutore privilegiato nei 
decenni, in grado di aiutare a risolvere complessi problemi a livello 
europeo. E perché Bruxelles, pur nel rispetto dei vincoli di fondo, 
consenta l’introduzione di certe flessibilità adatte e necessarie per 
“tempi eccezionali”. Altrimento il sospetto potrebbero essere che le 
intrusioni nella politica interna italiana arrivino anche da Bruxelles.
 
