Il Sole 12.10.16
Le due facce del Pd prima e dopo il voto
di Lina Palmerini
Il
referendum non è «l’Apocalisse» e il giorno dopo sarà come il giorno
prima, senza conseguenze sul Governo. Lo diceva Bersani parlando del
«no» ma il Pd ha dato ben altre prove in passato. Nel 2013 non ha retto
la sconfitta elettorale, nel 2014 ha cambiato un premier. Quale faccia
avrà il 5 dicembre?
Non è scontato quello che diceva ieri
Pierluigi Bersani conversando con i giornalisti a Montecitorio. Magari è
auspicabile ma niente di quello che è accaduto in passato nel Pd porta
alla soluzione descritta dall’ex segretario. Naturalmente lo scenario su
cui i cronisti lo incalzavano era quello della vittoria del no, vera
incognita sulle sorti politico/istituzionali. E il perno di questo
assetto, oggi, è ancora il Pd che in questi anni ha deciso e votato due
governi, eletto due presidenti della Repubblica ma solo dopo numerosi
travagli. Nel 2013 la sconfitta di Bersani portò a una spaccatura
profonda e a un cortocircuito per cui non si riuscì a formare un Governo
e nemmeno a eleggere un nuovo capo dello Stato. Il partito si frantumò
nelle votazioni segrete sul presidente della Repubblica, se ne uscì con
il bis di Napolitano ma poi il segretario fu costretto a dimettersi.
Subito dopo nacque il Governo Letta.
Dopo un anno, fu una
direzione del medesimo partito che sfiduciò Letta e spalancò le porte a
Matteo Renzi dopo la sua vittoria alle primarie. Oggi il referendum
propone un bivio simile. Difficile pensare come Bersani che il giorno
dopo sarà come il giorno prima. Innanzitutto perché in questi anni i
Democratici hanno sempre mostrato due facce, due versioni di sé. Prima e
dopo le elezioni del 2013, prima e dopo le primarie di quello stesso
anno. Anche legittimamente sono state cambiate le carte politiche sul
tavolo perché la vittoria o la sconfitta sono fatti dirimenti in
democrazia di cui un partito deve prendere atto. Difficile che il “no”
sia privo di effetti, forse non sarà l’Apocalisse ma proietterà
certamente una nuova faccia del Pd.
Se già oggi il partito arriva
diviso al referendum, tra la minoranza verso il no e il resto del
partito per il sì, è chiaro che la sconfitta del premier alle urne
aprirà una nuova resa dei conti. I renziani addebiteranno la sconfitta
anche alla minoranza, si rivedranno le correnti che finora hanno deciso
le sorti dei governi: i giovani turchi o l’area di Franceschini.
Insomma, il giorno dopo sarà un giorno come gli altri del passato in cui
si aprirà una resa dei conti. Su Renzi premier e su Renzi segretario.
Forse la minoranza non chiederà le dimissioni del Governo, come diceva
ieri Bersani, ma è possibile che le chiedano come segretario del Pd. E
una risposta già l’ha data ieri il leader nella trasmissione Politics:
«Il Congresso si farà nel dicembre dell’anno prossimo». Dunque resterà
segretario Pd. Una minaccia di guerra non di pace.
Sarà compito di
Sergio Mattarella diradare la nebbia sul giorno dopo ma sarà più
complicato con un Pd in lotta, come è quello che si vede già in queste
ore. Difficile immaginare un Governo Renzi bis in queste condizioni. Con
i 5 Stelle e il centro-destra che vorranno un nuovo Esecutivo e una
conclamata divisione nel Pd. E con una nuova legge elettorale da fare.