mercoledì 12 ottobre 2016

Corriere 12.10.16
L’eccesso di decisionismo di Renzi sul referendum
di Paolo Franchi

Dice bene Aldo Cazzullo (Corriere, 5 ottobre): in questi tempi calamitosi è molto imprudente sotto ogni cielo, per governi e capi di governo, sottoporsi al giudizio popolare mediante referendum. Tra tutti gli esempi che Cazzullo fa, per compararli al caso italiano, il più calzante è ovviamente quello di Cameron, che, sul no alla Brexit, ha puntato tutto in una volta sola e in una volta sola ha perso tutto. Matteo Renzi, come è noto, aveva fatto la medesima scelta sul referendum costituzionale o, per essere più precisi, sul combinato disposto tra il referendum e l’Italicum: in caso di sconfitta, non solo lascio la guida del governo, ma abbandono la politica. Da qualche tempo, si sa, ha corretto (anche se a giorni alterni) il tiro, un po’ per le autorevoli sollecitazioni del presidente della Repubblica in carica e del presidente emerito, un po’ perché deve essersi reso conto di aver imboccato una strada assai perigliosa. Nessun combinato disposto, per cominciare: alla legge elettorale si può rimettere mano, e fa nulla se il governo, caso più unico che raro, per approvarla ha posto in più circostanze la fiducia.
Quanto alla riforma costituzionale, niente di personale, ci mancherebbe. Di più: aver messo sul piatto con tanta forza le proprie sorti di premier e di leader di partito è stato un errore che ha fornito armi propagandistiche ai sostenitori del No. I quali però, lungi dal prendere cavallerescamente atto della sua pubblica (semi) ammenda, continuano imperterriti a rinfacciarglielo e a personalizzare una contesa che invece, come insegna il galateo politico e istituzionale, dovrebbe avere per oggetto il merito dei cambiamenti introdotti.
Lasciamo pure da parte il fatto che in politica la cavalleria non è di casa, e, se sbagli, anche se è vero che errare è umano, nessuno, neanche chi, come la minoranza del Pd, ha sbagliato più di te, ti perdonerà l’errore. Ed evitiamo anche di soffermarci, visto che la percentuale degli indecisi è ancora altissima, su quanto rendono noto i sondaggi di Nando Pagnoncelli, ripresi da Cazzullo, secondo i quali gli elettori in maggioranza approvano i singoli capitoli della riforma, ma chiamati a pronunciarsi sul suo insieme propendono per il No. Forse è proprio la categoria dell’«errore», salita all’onore delle cronache e delle analisi politiche dopo l’intervento di Giorgio Napolitano alla scuola di politica del Pd, a funzionare poco.
Nei congressi democristiani, quando eravamo più giovani, si diceva, anche se la realtà sembrava quanto meno più complessa, che la Dc era «sempre tesa» verso qualche nobile obiettivo; in quelli comunisti che, «nonostante errori, limiti, ritardi e contraddizioni», la linea del partito si era rivelata saggia e giusta. Ma erano, appunto, altri tempi, tempi in cui formule come quella democristiana del «progresso senza avventure» o quella togliattiana del «rinnovamento nella continuità» avevano un senso, eccome, agli occhi non solo dei militanti, ma di milioni di elettori.
Da allora tutto è cambiato, anche se non necessariamente in meglio. A nessuno passerebbe per la testa di sostenere che il futuro ha un cuore antico, anche le decisioni più importanti — comprese quelle che riguardano non solo i viventi, ma pure le generazioni a venire, come è, o dovrebbe essere, per le Costituzioni — hanno un orizzonte temporale molto limitato, che grosso modo coincide con quello politico di chi le prende, e spesso confonde il presente con l’eternità. E la tentazione di mettere politicamente in gioco la testa per vedere consacrata la propria leadership in rapporto diretto, anzi, in comunione con il popolo sovrano rischia di farsi irresistibile, almeno per chi si considera, e vuole essere considerato, un uomo politico di tipo nuovo, del tutto diverso dai suoi predecessori e dalla gran parte dei suoi colleghi.
Bettino Craxi, alla vigilia del referendum sul decreto di San Valentino sulla scala mobile, promosso dai comunisti contro di lui, disse che, in caso di vittoria dei No, si sarebbe dimesso da presidente del Consiglio un minuto dopo aver appreso il risultato: e questa affermazione, all’epoca, parve a molti troppo forte. Il Renzi di qualche mese fa ha detto la stessa cosa, ma con una differenza sostanziale: il referendum il presidente del Consiglio lo ha fortissimamente voluto e, per così dire, improntato di sé, non certo subito, come fu per il pur «decisionista» Bettino. Nel senso che lo ha caricato della sua concezione della politica, del potere, dello stile di comando, del rapporto tra governanti e governati. In una parola, di se stesso. Prendere o lasciare. Se vinco, vinco tutto. Se perdo, perdo tutto.
Un errore? Può darsi. Ma, nel caso, un errore di sostanza, una volta si sarebbe detto di visione del mondo e di strategia, non certo di tattica elettorale, e dunque assai difficile da correggere in corso d’opera. Forse è per questo, nonostante la memoria si sia fatta molto corta, che la grande maggioranza degli italiani che sostengono Renzi, esattamente come la grande maggioranza di quelli che lo avversano, faticano tanto ad archiviarlo, e continuano a pensare al referendum come a un giudizio di Dio. Anche se vengono esortati quotidianamente, e giustamente, a votare da cittadini responsabili, e non da tifosi.