il manifesto 5.10.16
Filippine, un nuovo Hitler
La guerra del presidente Rodrigo Duterte contro «spacciatori» e «drogati» in un paio di mesi ha già ucciso circa 3.400 persone
di Marco Perduca
Da
quando Rodrigo Duterte è stato eletto presidente delle Filippine il 30
giugno scorso, in quel paese è in corso una campagna di esecuzioni
extragiudiziali in nome della «guerra alla droga». In un paio di mesi
sono stati uccise circa 3.400 persone, tra «spacciatori» e «drogati»,
mentre più di 700.000 filippini si sono consegnati «spontaneamente» alle
autorità per paura di cadere vittime della campagna di incitamento alla
violenza.
Nel mese di aprile scorso, parlando a una grande folla
nella sua città natale di Davao, Duterte aveva invitato i filippini a
uccidere direttamente gli spacciatori che resistevano all’arresto o
rifiutavano di essere portati nelle caserme esortando i presenti a «non
esitate a chiamare la polizia» oppure, se in possesso di una pistola di
«fare da soli». Purtroppo, da luglio, dalle parole si è passati ai
fatti. Il giorno dopo l’inaugurazione della sua presidenza, Duterte ha
detto a un gruppo di poliziotti: «Fate il vostro dovere contro gli
spacciatori e se nel farlo vengono uccise 1.000 persone io vi
proteggerò». Nello stesso giorno messaggi simili, ma contro i
tossicodipendenti, furono gridati davanti a una folla plaudente.
Non
tutti i filippini la pensano però come Duterte per fortuna. La
senatrice Leila de Lima, che in passato aveva condotto delle indagini
indipendenti sulle attività degli squadroni della morte a Davao, ha
organizzato delle audizioni parlamentari sulle uccisioni. Adesso teme
per la sua sicurezza perché Duterte ha lanciato una campagna
diffamatoria nei suoi confronti accusandola di traffico di droga,
un’accusa tra le più pericolose di questi tempi nelle Filippine.
A
metà agosto la polizia aveva indagando solo 22 casi di queste vittime
della «guerra alla droga» mentre il totale delle persone uccise era già
di 1.500. La Commissione per i diritti umani del parlamento filippino ha
aperto una sua indagine, ma i numeri son tali per cui i lavori son
ingolfati. Al contempo, numerose organizzazioni per i diritti umani sono
state ostacolate nelle loro attività di ricerca e la situazione della
sicurezza degli investigatori indipendenti è critica.
Tra i
progressi degni di nota delle Filippine c’è (c’era?) anche la
partecipazione alla Corte penale internazionale – che ha giurisdizione
su crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità, ma non sul
narcotraffico.
Le Filippine hanno firmato lo statuto nel 2000 e
ratificato il Trattato di Roma nel 2011. In caso in cui i crimini di
competenza della Corte siano sistematici e su vasta scala, e non vengano
o non possano essere presi in carico dal sistema nazionale, il
procuratore dell’Aia può esser attivato.
Nell’anno in cui le
Nazioni Unite, in una sessione speciale dell’Assemblea generale sulle
droghe, hanno sancito il passaggio alla promozione delle alternative al
carcere per chi usa le sostanze e hanno iniziato a porsi il dubbio che
la «guerra alla droga» crea violazioni di diritti umani, queste
uccisioni di massa devono cessare.
Occorre inoltre che la Corte
penale internazionale venga interessata formalmente al caso Filippine e
che possano iniziare delle indagini indipendenti secondo i più alti
standard della giustizia internazionale per individuare le
responsabilità politiche e fattuali di questi crimini contro l’umanità.
L’Italia,
che tanto ha fatto per l’istituzione della Corte, deve sostenere il
lavoro delle organizzazioni non-governative che stanno lavorando a un
dettagliato dossier su Duterte da inviare all’Aia.