il manifesto 5.10.16
Un buon antidoto alle derive impolitiche
«Che fare di Carl Schmitt?» del filosofo francese Jean-François Kervégan per Laterza
di Geminello Preterossi
Carl
Schmitt era una sorta di «reazionario giacobino»: un critico radicale
della modernità, ma dall’interno, tendendone all’estremo i concetti. I
legittimismi codini gli erano estranei: quando una credenza politica è
caduta, esaurita, è inutile e persino ridicolo pretendere di tenerla in
piedi forzosamente. Questa impostazione gli ha permesso di cogliere
tanto le logiche e i rischi della politica «assoluta» quanto il nesso –
che ci riguarda potentemente, nel mondo globale senza nomos – tra
spoliticizzazione, deterritorializzazione e tecnocrazia. Per questo
Schmitt resta un pensatore decisivo, anche e per certi versi soprattutto
per la sinistra (perlomeno per una sinistra che non scambi la critica
sociale con la retorica moraleggiante).
COME METTE IN LUCE
efficacemente Jean-François Kervégan in Che fare di Carl Schmitt? (pp.
254, euro 24, tradotto da F. Mancuso per Laterza), al di là degli
assunti ideologici, delle scelte opportuniste e censurabili, delle
opzioni concrete di politica del diritto, assumendo teoricamente il
rischio del «politico», da «teologo della scienza giuridica», Schmitt ha
colto la costitutiva politicità del diritto e presentito le conseguenze
del suo sradicamento. Il conflitto è fonte di energia politica, e allo
stesso tempo, soprattutto se estremo, il «problema» che la decisione
deve contenere. Se si dimentica questa «ipoteca», magari pensando di
liberarsi dal potere, ci si consegna a forme di dominio e di ostilità
«totalizzanti», che tali rimangono anche quando si presentano con un
volto fintamente mite – quello dell’empowerment e della governance –,
mirando a produrre docili soggettivazioni neoliberali: non a caso queste
«maschere» che tanti hanno sedotto stanno cadendo, per quanto fatichi a
manifestarsi una forza antagonista strutturata, portatrice di un
paradigma alternativo (semmai, le fratture sociali indotte dalla
globalizzazione sfociano in una contrapposizione giocata sul piano
antioligarchico e identitario).
IL PARADIGMA NEOLIBERALE
pretenderebbe di conseguire la compiuta e definitiva neutralizzazione
tanto del conflitto, quanto della necessità della decisione costituente.
Naturalmente, si tratta di un’illusione. Peggio, di un inganno
ideologico, che veicolando una teologia antipolitica mira ad essere
performativo, a produrre il proprio mondo come se fosse «naturale»
(siamo in presenza, con il neoliberalismo, di una vera e propria
metafisica inconscia della rinaturalizzazione). Ma qualcosa non torna:
in questo pseudo-ordine globale presuntamente spontaneistico e
pacificato guarda caso proliferano muri, stati di emergenza (più o meno
quotidiani) e guerre-non guerre feroci. Bisogna ammettere che Schmitt
aveva ragione, quando prevedeva un’intensificazione inusitata della
violenza, e del caos, una volta che fosse abbandonata qualsiasi
prospettiva di legittimità «katéchontica», cioè in grado di frenare
ostilità e potenze «indirette», di cui fanno parte tanto i poteri
economici sregolati quanto i fondamentalismi religiosi. E quando ci
invitava a ripensare a un nuovo nomos radicato e multipolare.
Il
problema è che il globalismo postmoderno è speculare all’irenismo
«progressista» della cosmopoli (al di là delle buone intenzioni
normativiste di quest’ultimo). Entrambi sono catturati dalla logica
neoliberale. Per evitare la spoliticizzazione che ne deriva e rispondere
alla sfida del residuo ineliminabile della violenza occorre riconoscere
l’impossibilità di fuoriuscire integralmente dalla logica
(teologico-politica) della rappresentazione. Anche un rilancio
democratico dal basso, partecipativo, per essere efficace, deve tenerne
conto.
Certo, prendersela con la crisi del «rappresentato»,
sottovalutando gli effetti della crisi del «rappresentante», rischia di
costituire un alibi, ed è perdente ai fini di una politica «diversa».
Siamo nell’immanenza sociale: questo è un punto da riconoscere e
assumere. Ma siamo sicuri che essa non si sia costituita, e necessiti
tutt’ora, tanto più in una prospettiva trasformatrice che assuma
coerentemente i bisogni «popolari» di chi oggi patisce deflazione
salariale, disoccupazione e demolizione dei diritti sociali, di una
qualche forma di trascendenza collettiva, di rappresentazione
politico-simbolica?
IL «POTERE COSTITUENTE» non permane mai allo
stato puro e continuo, ma si dà sempre nella forma della
rappresentazione, trascendendo dall’interno l’immanenza.
Non so se
sia di nuovo il tempo del potere costituente, che peraltro è sempre un
evento imprevedibile (e rischioso). Ma certo la generazione di
un’eccedenza di energia politica, in grado di contrastare
quell’uniformazione coatta al neoliberismo in nome della quale non si
esita a liquidare il costituzionalismo democratico e sociale, è la sfida
intensamente politica che dobbiamo aver il coraggio di raccogliere. A
tal fine, le categorie di Schmitt – contro Schmitt – ci servono ancora.