il manifesto 4.10.16
La fabbrica del vincitore
Riforme. L’Italicum e la Costituzione Ogm
di Michele Prospero
Con
furbizia Renzi assicura che la legge elettorale si può anche cambiare:
basta non scalfire il ballottaggio, il segreto dell’Italicum. Il premier
assimila il ballottaggio all’elezione diretta dei sindaci, che però è
proprio un’altra cosa. Nelle città il secondo turno è orientato
all’espressione diretta della carica monocratica. Nel ballottaggio
previsto dall’Italicum, invece, si scontrano due partiti senza che in
palio ci sia una elezione diretta. E un ballottaggio di liste per il
premio di maggioranza è un unicum che non conosce analogie nella
politica comparata.
Svelando che si tratta dello stesso
dispositivo sperimentato nelle città, Renzi smentisce la sua stessa tesi
che il referendum costituzionale non tocca attribuzioni del premier e
non altera quindi la forma di governo.
Con manipolazioni tecniche,
l’Italicum introduce nell’ordinamento una variante dell’elezione
diretta del capo di governo. A costituzione pressoché invariata e con
poteri del premier non modificati, irrompe nell’ordinamento,
snaturandolo alla radice, l’investitura popolare immediata di un sindaco
d’Italia.
La disponibilità renziana a ritoccare il congegno
elettorale rientra in una manovra di piccolo cabotaggio. Sulla tecnica
elettorale, che scioglie l’enigma del governo sicuro, Renzi aveva
scandito: «Se la legge elettorale non passa mi dimetto e si va ad
elezioni anticipate». Quindi egli assegnava un plusvalore politico alla
materia elettorale. Nelle fasi più calde dello scontro, il premier
esortava i suoi ad avanzare «senza paura». E’ arduo che il governo possa
fare marcia indietro su momenti qualificanti, come invece raccomandano
Napolitano, Violante e altri.
Se la filosofia della riforma
renziana era quella di un ballottaggio di partito per incoronare il
vincitore prima del calar del sole, il dogma dei custodi d’un tempo è
ben più esigente: è necessario stabilire a chi va lo scettro a tempo
debito, cioè prima ancora dell’apertura delle urne. Napolitano e
Violante si accorgono che il sistema è divenuto tripolare e che quindi,
con il ballottaggio tra i due capi delle liste, è in questione la
effettiva rappresentatività del vincitore del premio.
I vecchi
guardiani della stabilità escludono l’esistenza di un combinato disposto
tra riforme costituzionali e premio di maggioranza. Perché allora
suggeriscono di rimettere le mani sulla tecnica elettorale? La legge
elettorale va messa sotto tutela e rivisitata non per i suoi espliciti
tratti illiberali (assenza di qualsiasi quorum per accedere al
ballottaggio, liste bloccate e candidature plurime) ma per ragioni di
mera opportunità: impedire che le schede capricciose gonfino le fortune
di forze sgradite assai. E quindi occorre eliminare le zone di
incertezza: il vincitore va conosciuto prima del voto.
Quello che
veniva esaltato come insperato frutto di una creativa costruzione
tecnica dell’ingegneria istituzionale italica (Renzi parlava di una
legge fantastica, che «tra 5 anni ci copierà mezza Europa»), oggi si
configura come una minaccia. Quando in aula venivano denunciate le
troppe zone oscure dell’Italicum, il presidente emerito reagiva con
sdegno: «Non entro in questo terribile garbuglio». Ora che i guardiani
di un tempo si sono accorti che i voti delle opposizioni eterogenee sono
cumulabili contro un Pd isolato nel ballottaggio, non esitano a
suggerire di smontare il giocattolo.
Il governo che, confidando
sul premio illegittimo del porcellum (la nuova legge è stata approvata
il 3 maggio del 2015 con soli 334 sì), ha scritto una nuova legge
elettorale con reiterati tratti di incostituzionalità, non ha titoli
ulteriori per ripristinare la legalità nell’ordinamento ferito. Un
sistema elettorale a maggioranza garantita al calar della sera non
esiste, e se la fabbrica del vincitore è ottenuta al costo di alchimie e
premi illogici, ciò comporta irrazionalità, incoerenze, forzature di
equilibri e dispositivi funzionali. Il suo prezzo è l’eliminazione del
parlamentarismo come regime dell’imprevedibilità dell’esito della
competizione e quindi della adattabilità degli istituti rappresentativi
ai rapporti di forza.
Le elezioni, in sistemi parlamentari, non
investono un governo e non consegnano lo scettro a un capo ma
definiscono un organo di rappresentanza. Continua invece ad imperversare
l’esperimento fallito della seconda repubblica che attribuisce alla
tecnica elettorale la funzione di una mutazione di fatto della forma di
governo che viene spinta ad esiti innaturali e cioè presidenzialistici e
però sulla carta resta formalmente immacolata. Un pasticcio che crea
pericolosi processi di decostituzionalizzazione della forma di governo.