il manifesto 2.10.16
La sfida di Orbán all’Ue. Ma sul no ai profughi pesa l’incognita quorum
Ungheria. Oggi il referendum contro le quote volute da Bruxelles Dietro il voto il malessere del paese per la crisi economica
di Carlo Lania
L’unica
incertezza non riguarderebbe l’esito del voto, visto che la vittoria
del No è data praticamente per scontata, piuttosto l’affluenza alle
urne. Lo scontro sui migranti tra Viktor Orbán e l’Unione europea si
giocherà tutto sul raggiungimento o meno del quorum, su quanti elettori
si recheranno oggi alle urne per dire la loro nel referendum voluto dal
premier ungherese contro le quote di profughi decise da Bruxelles e
stando alle quali 2.300 richiedenti asilo dovrebbero essere trasferiti
nel paese. Il quesito è di quelli che non lasciano molta scelta: «Volete
consentire all’Ue di decidere sulla ricollocazione obbligatoria in
Ungheria di cittadini non ungheresi senza il consenso del parlamento?» è
la domanda che 8,3 milioni di magiari troveranno sulla scheda. Secondo i
sondaggi l’83% di loro segnerà una croce sulla casella con scritto
«No», contro il 13% dei favorevoli e un 3% intenzionato ad annullare il
voto.
A preoccupare il governo ungherese è però proprio
l’affluenza, dato che a 24 ore dal voto solo il 42% degli intervistati
ha affermato di volersi recare alle urne. Pochi, dal momento che perché
la consultazione sia valida occorre che venga superata la soglia del
50%, apparentemente ancora lontana. Per questo dopo mesi di campagna
referendaria durante i quali contro i profughi è stato detto di tutto,
dai sospetti di terrorismo all’accusa di mettere in pericolo la cultura
cristiana del paese, fino all’ultimo Orbán non ha smesso di esasperare i
toni: «Abbiamo difeso le frontiere dell’Ungheria e così anche quelle
dell’Unione europea, fatto che in futuro sarà riconosciuto dai libri di
storia», ha detto il premier riferendosi alla decisione di alzare muri
ai confini con Serbia, Croazia e Slovenia e invitando i suoi
connazionali a «mandare un messaggio chiaro a Bruxelles».
In
realtà le barriere hanno fermato fino a un certo punto i migranti.
Nonostante reti metalliche e filo spinato, infatti, dall’inizio
dell’anno alla fine di agosto sono stati 26.759 i profughi provenienti
dalla Serbia fermati in Ungheria, un numero in costante crescita nel
corso dei mesi. Di questi, 8.413 sono stati intercettati dalla polizia
nella fascia di 8 chilometri dalle frontiere istituita recentemente dal
governo e all’interno della quale chi viene sorpreso è rispedito
immediatamente oltre confine. «Un provvedimento che ci preoccupa molto,
perché le persone che vengono fermate non hanno la possibilità di
richiedere l’asilo ma vengono respinte verso la Serbia senza una
procedura o una decisione formale» spiega Gábor Gyulai, direttore del
programma asilo del Comitato Helsinki Ungherese che si occupa del
rispetto dei diritti umani ed è l’unica organizzazione del paese che dà
assistenza legale gratuita ai migranti. Insieme ad altre 22 Ong il
Comitato ha lanciato la campagna «Questo è il nostro paese, invalida il
referendum» con cui spera di contrastare «le politiche inumane adottate
dal governo ungherese contro i rifugiati» grazie alle quali in sette
mesi solo 290 richiedenti asilo si sono visti riconoscere una forma di
protezione internazionale.
In realtà i migranti rappresentano solo
una parte della partita che Orbán sta giocando contro l’Unione europea.
Una vittoria dei «No», tanto più forte quanto più alta sarà la
partecipazione al voto, lo rafforzerebbe ulteriormente, consentendogli
di continuare con maggiore forza l’opera di contrasto delle politiche
europee, non solo quelle sui migranti, confermandolo inoltre come vero
leader del gruppo di Visegrad (oltre all’Ungheria, Polonia, repubblica
Ceca e Slovacchia). «Orban vede il voto sui rifugiati come un modo per
scuotere l’Unione europea», titolava qualche giorno fa il Financial
Time. E Péter Krekó, direttore del think tank Political Capital,
spiegava al giornale: «Ha già fatto capire di avere un’agenda europea
che va al di là della questione migratoria. Orbán punta a essere una
forza di trasformazione all’interno dell’Ue». Viceversa, il mancato
raggiungimento del quorum segnerebbe una sconfitta pesante per la
Fidesz, il partito del premier, a tutto vantaggio del movimento di
estrema destra Jobbik che punta a vincere le elezioni del 2018. «Per
questo motivo Orbán sta già dicendo che non è importante quante persone
andranno a votare», prosegue Gyulai.
Timori dietro i quali si
nasconde un malumore crescente tra gli ungheresi, molti dei quali sono
costretti a emigrare in cerca di condizioni di lavoro migliori di quelle
che trovano in patria.
Se è vero che l’economia tiene, grazie
anche ai ricchi contributi elargiti dall’Unione europea (5,6 miliardi di
euro nel 2015), è vero anche che i salari – in media l’equivalente di
350 euro al mese – sono troppo bassi perché gli ungheresi possano
pensare al futuro con serenità. E molti, soprattutto i giovani,
preferiscono cercare fortuna all’estero, proprio come i loro coetanei
mediorientali o asiatici che il governo respinge ogni giorno. Negli
ultimi cinque anni tra i 300 mila e i 500 mila magiari hanno scelto di
vivere in un altro paese, prevalentemente in Germania, Gran Bretagna e
Austria. Contraria a ogni forma di immigrazione, paradossalmente
l’Ungheria si ritrova così ad aver bisogno dei migranti per supplire
alla carenza di manodopera. Mancherebbero 22 mila informatici oltre a
infermieri, cuochi, camerieri e addetti alle pulizie. Al punto che il
ministro dell’Economia Mihály Varga a luglio aveva annunciato misure per
attrarre lavoratori stranieri nel paese, salvo poi fare marcia
indietro.
Dietro il voto di oggi c’è tutto questo ma, forse, anche
il futuro dell’Europa. Una vittoria di Orbán darebbe ulteriore fiato
anche ai nazionalismi presenti in molti stati alcuni dei quali, come
Germania e Francia, prossimi a importanti scadenze elettorali, e
rafforzerebbe l’idea che sia possibile ignorare le disposizioni
dell’Unione europea. Con l’Ungheria che rischia di giocarsi qualcosa in
più: «La paura degli immigrati creata ad arte dal governo avrà effetti
negativi nella società e sulle future generazioni», conclude Gyulai.
«Per decenni sarà impossibile avere una politica ragionevole
sull’immigrazione che aiuti lo sviluppo del paese».