il manifesto 25.10.16
Israele-Palestina, la verità del documento dell’Unesco
di Moni Ovadia
Le
parole sono importanti! sentenziava Nanni Moretti in una scena da culto
di una sua memorabile pellicola, dando ratifica all’affermazione con un
sonoro ceffone vibrato ad una giornalista colpevole di esprimersi con
un eloquio mediocre ed improprio.
Dal tempo di quell’accorato
grido di dolore del geniale cineasta molta acqua è passata sotto i
ponti. Abusare perversamente le parole è diventata pratica comune che
non provoca reazioni di sofferenza; in questi giorni, il nostro capo del
governo si è prodotto in una tecnica di perversione del senso,
sostituendo la parola italiana condono con l’anglicismo di sonorità meno
sconcia voluntary disclosure.
L’ordine del discorso e la scelta
delle parole possono diventare particolarmente insidiosi quando si parla
di Israele, governo israeliano, israeliani, ebrei e via dicendo. A me è
capitato di sentirmi apostrofare con il termine “antipatizzante” di
Israele per avere definito “colonie” le colonie israeliane della
Cisgiordania invece di descriverle con il più neutro “insediamenti”. Gli
ultras proisraeliani a prescindere, ma anche coloro che non sono
estremisti del campo – potremmo definirli i moderati di ogni
schieramento – manifestano un’immediata idiosincrasia nei confronti di
un crudo linguaggio di verità, qualora utilizzato nei riguardi di
Israele.
Per queste sensibilissime persone, parole accettabili
all’indirizzo di qualsiasi altro paese occupante e colonialista del
mondo, diventano inascoltabili se utilizzate per criticare gli atti dei
governi israeliani.
Questa ipersensibilità ha provocato l’ennesima
crociata pro Israele sulla stampa mainstream e nelle piazze, per
denunciare l’antisemitismo dell’Unesco a proposito della sua risoluzione
sulla Palestina occupata.
Nella traduzione integrale della
risoluzione al comma 3 leggiamo: “Affermando l’importanza che
Gerusalemme e le sue mura rappresentano per le tre religioni monoteiste,
affermando anche che in nessun modo la presente risoluzione, che
intende salvaguardare il patrimonio culturale della Palestina e di
Gerusalemme Est, riguarderà le risoluzioni prese in considerazione dal
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e le risoluzioni relative
allo status legale di Palestina e Gerusalemme…”
In apertura, la
risoluzione riconosce che Gerusalemme e le sue mura sono sacre ai tre
monoteismi e ai loro fedeli: ebrei, cristiani musulmani. Non c’era
dunque alcuna ragione di gridare all’antisemitismo, di accusare la
risoluzione di voler negare il legame degli ebrei con quei luoghi. In
realtà a me pare di intuire che la reazione degli ultras pro Israele,
senza se e senza ma, dipenda piuttosto dal fatto che nei commi
successivi la risoluzione si riferisca ripetutamente ad Israele con la
definizione di “potenza occupante” e ne denunci la pratica violenta dei
fatti compiuti sul territorio.
Ora, Israele è, piaccia o non
piaccia, una potenza occupante e lo è da cinquant’anni e questo secondo
le risoluzioni dell’Onu, non secondo i pro palestinesi. Ma attenti a
dirlo! Diventereste illico et immediate antisionisti, ovvero
antisraeliani, ovvero antisemiti. Guai all’Unesco che osa affermare che
Israele è potenza occupante.
Invece, i politici israeliani di
governo possono gridare ai quattro venti che Gerusalemme è la sacra ed
indivisa capitale dello Stato di Israele nell’assoluto silenzio delle
anime belle, e i leader dei partiti religiosi possono sostenere
impunemente che tutta la terra di quella che fu la Palestina mandataria
appartiene agli ebrei perché fa parte della terra “donata” da Dio.
Gli
zeloti che fanno parte dell’elettorato della destra utrareazionaria
sostenitrice di Netanyahu, possono farneticare di distruggere le moschee
per edificare al loro posto il “Terzo Tempio” e compiere atti
aggressivi nei confronti dei palestinesi, nessuno scandalo. È scandalo
invece se il documento dell’Unesco non riconosce alle autorità
israeliane e ai fanatici di Israele il diritto ad esercitare il proprio
arbitrio.
Forse disturba la mancata identificazione di ebrei e
governo israeliano in carica. Le anime belle della democrazia a popoli
alterni sanno che le due cose sono diverse, ma dà loro un incontenibile
fastidio. Eppure il problema di una precisa distinzione fra israeliani
ed ebrei è ormai incandescente.
Un recente articolo apparso sul
quotidiano israeliano Ha’aretz a firma di Chemi Shalev titolava: “Trump
mostra agli estremisti di destra come amare Israele ed odiare gli ebrei”
(alcuni estremisti di destra americani disprezzano gli ebrei
progressisti con lo stesso veleno con il quale la destra israeliana odia
gli ebrei di sinistra).
Eccolo il capolavoro che hanno edificato i
nazionalisti e i fanatici religiosi israeliani con la fattiva
collaborazione degli ultras pro sionisti e il benevolo sussiego di certi
moderati che sono amici di Israele a prescindere.
Grazie a loro,
gli eredi degli antisemiti di ogni tipo possono tornare ad odiare gli
ebrei cominciando dai maledettissimi rossi e poi… Poi si vedrà.
Massa
d’urto religiosa di questa nuova ideologia sono i cosiddetti
cristiano/sionisti. Sono milioni, appartengono a chiese evangeliche
millenariste e avventiste, sono sostenitori del sionismo integralista,
rivendicano il diritto degli ebrei a possedere tutta la Terra Promessa e
auspicano il ritorno di tutti gli ebrei in Eretz Israel perché secondo
le loro profezie ciò provocherà la seconda parusia di Gesù e
l’Armageddon. E gli ebrei? Quelli che riconosceranno il Cristo saranno
salvi. E gli altri? Si fotteranno bruciando nelle fiamme dell’inferno!
(L’interpretazione è mia).