il manifesto 21.10.16
La sinistra e l’inedita questione sociale dei nostri tempi
di Paolo Favilli
E’
naturale che la questione referendaria sia al centro dell’attenzione.
Gli esiti influiranno, e non poco, sui modi in cui ci sarà (o meno)
«vita a sinistra». Tuttavia una cesura elettorale, per quanto
importante, non è né un inizio, né una fine. C’è una storia prima di
questa nostra sinistra, ci sarà anche dopo. Quale, in parte, dipende da
noi e, in parte, il prima e il dopo si riflettono anche sui modi in cui
affrontiamo il referendum.
Non molto tempo fa si è svolta su
questo giornale un’interessante discussione sulla «morte della politica»
a partire dalle questioni che Alberto Burgio ha argomentato in un
articolo (il manifesto, 4 agosto), e poi sviluppato in altri interventi.
La discussione ha dimostrato che le capacità analitiche della sinistra
non sono morte ma anche le difficoltà di muoversi a partire da un centro
argomentativo «radicale». E la sinistra politica «radicale», per lo
meno in una sua gran parte, sembra addirittura non riuscire a pensare le
«radici» dei problemi economico-sociali che abbiamo di fronte.
Stefano
Fassina ha scritto recentemente che Sinistra Italiana è avviata
«inerzialmente verso un congresso rituale, senza ragioni fondative
adeguate» (il manifesto, 3 settembre). Ebbene, senza ragioni in grado di
mettere a fuoco una dimensione analitica diversa rispetto a quella dei
partiti establishment, qualsiasi organizzazione politica di sinistra,
anche micro, non può che riproporre la consueta ritualità delle manovre
di posizionamento dei gruppi dirigenti, la stucchevole misurazione del
grado di distanza rispetto al partito cardine dell’establishment: il Pd.
Puri e semplici «balletti» come recitava un efficace articolo di
Daniela Preziosi.
Balletti che riguardano solo i destini personali
di una piccola parte di ceto politico. Indice importante, come sempre,
l’uso della terminologia dei ballerini. Uno di questi parla della
necessità di non dividere le «anime progressiste». Due termini del tutto
indeterminati che messi insieme accentuano il nulla conoscitivo
dell’espressione, il suo carattere di «neolingua». A parte il segnale
politico, naturalmente: la mossa del balletto, un passo verso future
coalizioni «progressiste».
Gli ultimi vent’anni hanno visto
coalizioni «progressiste» al governo del paese per circa il 50% del
periodo. Gli ultimi vent’anni hanno visto uno spostamento imponente
della ricchezza prodotta e di quella accumulata dalla sfera dei salari a
quella dei profitti e della rendita. Hanno visto altresì una
compressione drastica della sfera dei «diritti», cioè una regressione
del processo democratico. Non è che tale tendenza abbia avuto un
andamento a zig-zag, con mutamenti di verso durante i governi
«progressisti».
Tra «progressisti» e «non progressisti» sulle
questioni di fondo riguardanti il rapporto economia-società non ci sono
mai state divergenze interpretative. Medesimo, alla radice, il modo di
leggere le dinamiche in corso: i fenomeni macroeconomici sono
equiparabili ai fenomeni naturali e dunque non ci sono alternative al
loro libero svolgimento. Al massimo i governi politici possono
esercitarsi sulle diverse tonalità del capitalismo compassionevole.
Di
fronte a questa realtà quali sono le «ragioni fondative adeguate» per
la nostra sinistra? Abbiamo davanti una gigantesca, e per certi versi
inedita, «questione sociale». Affrontare la centralità della «questione
sociale» è la nostra ragione fondativa per eccellenza, è il senso stesso
del ruolo della nostra storia nella lunga, ed ancora in corso, età
contemporanea.
La «questione sociale» dei nostri tempi è inedita,
come ho detto, ma nello stesso tempo ha tratti antichi, addirittura
ottocenteschi. Polarizzazione e centralizzazione della ricchezza e
contemporanea creazione di povertà sono i fenomeni originari, anch’essi
in qualche modo fondativi, del modo di produzione capitalistico
contemporaneo. Sono i fenomeni che hanno causato le domande fondamentali
e un’imponente teoria critica. Solo su queste basi è stato possibile
per i subalterni essere protagonisti di quella grande storia
dell’emancipazione di cui vogliamo essere eredi.
Oggi la
«questione» sociale» si manifesta anche con tratti che in quella storia
non sono mai stati presenti. La nostra comprensione di questo nuovo è
possibile solo se ragioniamo in termini di fasi di accumulazione di
capitale, in particolare se ragioniamo sui caratteri dell’odierna fase
di «accumulazione flessibile». Qui stanno le radici analitiche di cui
abbiamo bisogno. La loro traduzione in politica è cosa certamente
complessa, ma i «balletti» non sono un’alternativa.
Anche il
nostro No alla manomissione della Costituzione, in fondo, deve avere le
sue radici nei modi pervasivi in cui nel nostro tempo si declina la
«questione sociale».