il manifesto 20.10.16
Gli effetti invisibili del senso di colpa nella crisi più lunga
Effetti collaterali. La crisi economica ha avuto un profondo effetto disciplinante
Ha abbassato difese e aspettative permettendo di ridurre i diritti sociali senza grandi rivolte
di Tonino Perna
Quasi
dieci anni fa scoppiava la crisi dei mutui subprime negli Usa. Il re
era nudo, il ruolo nefasto della finanza ormai evidente, gli stipendi
dei manager diventati improvvisamente intollerabili e scandalosi. Nel
2007, l’anno della crisi e del crollo della Borsa di Wall Street, la
remunerazione dei bancari delle quattro principali banche statunitensi
era aumentata del 9% arrivando a 66 miliardi di dollari, mentre le
rispettive banche perdevano 50 miliardi di capitalizzazione in Borsa. I
dipendenti venivano pagati in media 350 mila dollari a testa per
bruciare ognuno 274mila dollari. Con centinaia di milioni di dollari per
ciascun banchiere al momento della liquidazione.
Stan O’ Neal,
Ceo della Merill Lynch licenziato nell’autunno del 2007 in seguito al
crollo in borsa della società, ricevette una liquidazione di 161 milioni
di dollari. Charles Prince capo della potente City Group costretto alle
dimissioni dopo aver portato la società vicina al fallimento, ricevette
una liquidazione di 140 milioni di dollari.
Molti di noi hanno
pensato che con il crollo delle Borse, con il licenziamento in massa
degli operatori finanziari (150mila solo a New York), con gli evidenti
effetti collaterali sull’economia reale, il sistema capitalistico
mondiale dovesse cambiare rotta. Invece dopo 10 anni osserviamo che la
capitalizzazione nelle principali Borse del mondo è tornata a livelli
superiori al 2007, il debito pubblico e privato (Stato, famiglie e
imprese) è arrivato al 265% del Pil mondiale (con un incremento del 35%)
ed in particolare cresce il debito statale, impropriamente chiamato
“sovrano”, di oltre 20 mila miliardi di dollari. Insomma, tutto è
tornato come prima e peggio di prima nel mondo della finanza.
Come
è ormai evidente questa crisi non è paragonabile a quelle precedenti:
ha provocato una accelerazione nella diseguale distribuzione di redditi,
patrimoni, potere; ha impoverito una buona parte della popolazione
mondiale, compresi i paesi occidentali industrializzati che hanno visto
per la prima volta una forte riduzione dei ceti medi.
Conosciamo
gli effetti nefasti sull’occupazione, sulla crescita del disagio
sociale, sul taglio dei servizi pubblici, sul crollo degli investimenti,
ma non abbiamo ancora preso atto dei segni profondi che questa crisi ha
lasciato, «segni invisibili» che le statistiche non registrano, ma che
possiamo cogliere nei mutamenti culturali, nelle visioni del mondo,
nell’agire quotidiano. Ha ragione Roberto Esposito quando afferma che
«la crisi economica degli ultimi anni è diventata biopolitica nel senso
che impatta fortemente con la vita delle persone».
Come docente
universitario ho vissuto sia nel contatto con i miei studenti, sia
attraverso delle ricerche sul campo, il dramma della inoccupazione
giovanile, dei Neet (Not employement, education, training) ed ho
percepito come prima cosa che i giovani laureati, ed anche
“masterizzati” o “dottorati”, abbassavano di anno in anno le loro
aspettative. Anche a livello nazionale, in alcune ricerche sulla
condizione giovanile, emerge come i giovani ( dai 18 ai 35 anni) tendano
ad accontentarsi quando riescono ad avere un lavoro, magari malpagato, e
che alcuni si sentono dei fortunati e privilegiati solo perché sono
riusciti a vincere un concorso pubblico, magari per una mansione
dequalificante e con uno stipendio, che in una grande città, ti consente
appena di sopravvivere. In questo senso si può dire che la crisi
economico-finanziaria ha avuto un carattere “disciplinante”
nell’accezione di Foucault, ha abbassato le aspettative e quindi ha
permesso di ridurre i diritti sociali senza che ci fossero delle grandi
rivolte popolari (eccetto che in Francia, dove questi diritti erano
storicamente più radicati). Chi viene sfruttato e maltrattato sul luogo
di lavoro si lamenta, ma poi aggiunge «meglio di niente: almeno io un
lavoro ce l’ho».
Ho visto una condizione simile, per la prima
volta in vita mia, nel Cile di Pinochet nel 1986, quando ero in quel
paese. Una sera un taxista che mi accompagnava a casa di compagni cileni
mi raccontò il fallimento della azienda dove lavorava: «Ero un
lavoratore superfluo ed ho dovuto trovarmi un altro lavoro e per fortuna
ho trovato un padrone che mi affitta il suo taxi». Mi è rimasto
impresso il suo senso di colpa , si era convinto che il licenziamento
fosse giusto, che lui fosse il colpevole, come nelle culture premoderne
lo erano ( e lo sono ancora in alcune aree del mondo) le persone
disabili che vivevano l’handicap come l’espiazione per un peccato
commesso.
I «segni invisibili» della crisi li possiamo cogliere
anche in una maggiore indifferenza verso i migranti e le guerre. E’
quella «indifferenza globalizzata» denunciata da papa Francesco. Cammina
nei discorsi sul treno, al bar, o al ristorante, tra persone estranee
quanto tra gli amici più cari. E’ il frutto di un profondo senso di
impotenza che questa crisi ha rafforzato. Dalla finanza è transitata
all’economia reale, segnando paradossalmente il trionfo del pensiero
unico: il mercato è l’unica salvezza; non è possibile modificare questo
modello di sviluppo capitalistico; i paesi del socialismo reale sono
crollati e i comunisti cinesi e vietnamiti si sono salvati dal crollo e
dalla perdita del potere convertendosi al turbo capitalismo.
Aldilà
di una possibile ripresa economica (piuttosto improbabile) i segni
della crisi resteranno per molto tempo, a segnare la forza del
neoliberismo trionfante. Non è tanto e solo la concorrenza che ha
scatenato tra lavoratori sempre più precarizzati, tra disoccupati ed
immigrati, è il processo di interiorizzazione e di colpevolizzazione.
L’idea che abbiamo vissuto per troppo tempo al di là delle nostre
possibilità, che abbiamo esagerato nel welfare, nella spesa pubblica,
nello Stato sprecone (vedi la necessità strombazzata di una spending
review). Pertanto il debito insostenibile dello Stato- che è cresciuto
iperbolicamente per salvare le grandi banche- è colpa nostra, la perdita
di competitività delle nostre imprese è colpa nostra, dei lacci e
lacciuoli che le leggi impongono (come lo Statuto dei lavoratori).
Chi
vuole costruire un’alternativa economica e politica, non può non fare i
conti con «i segni invisibili» della crisi penetrati nelle nuove
generazioni, insieme alla paura del futuro. Una visione del mondo che è
antitetica all’idea di progresso sociale, alla inevitabile evoluzione
sociale positiva dell’umanità, che ha accompagnato il pensiero
socialista, marxista, anarchico per due secoli.