il manifesto 1.10.16
La Palestina e i destini incrociati
Dopo i funerali. Con Peres i destini incrociati del mondo, intanto la Palestina può attendere
di Tommaso Di Francesco
«Il
popolo ebraico non è destinato a occupare, a governare un altro popolo…
abbiamo un’altra storia e tradizione come popoli, noi siamo nati contro
lo schiavismo»: la frase di Barack Obama che pronunciava l’orazione
funebre per l’ex presidente israliano Shimon Peres è precipitata come un
macigno su una cerimonia ufficiale dove tutto era prestabilito. Certo
qualcosa di dissonante da parte sua era atteso. È l’uomo che
all’Università del Cairo nel 2009 concludendo l’appello ai giovani del
mondo arabo confessava: «Sento in in cuor mio la disperazione del popolo
palestinese, ancora senza terra e senza patria».
A sette anni di
distanza il popolo palestinese resta non solo senza terra e senza
patria, senza status e futuro, ma in una dimensione politica surreale e
peggiorata rispetto al 2009. Resta un popolo di profughi dal 1948, anno
della Nakba la cacciata dalle terre palestinesi, ha infatti anticipato
nella storia la condizione attuale di milioni e milioni di esseri umani
in fuga da guerre e miseria. Vive in campi profughi nella sua stessa
terra, o da rifugiato malvisto in tutto il Medio Oriente. E ha subito da
allora almeno altre due guerre sanguinose. Sei milioni di palestinesi
vivono sotto occupazione militare dal conflitto del 1967, nonostante due
Risoluzioni Onu impongano ad Israele di ritirarsi. E, mentre la
Striscia di Gaza è chiusa in una prigione a cielo aperto, Israele non si
ritira.
Dalla Cisgiordania, anzi estende le sue colonie a
dismisura, ogni governo israeliano ha fatto così dagli anni Sessanta.
Sono centinaia gli insediamenti colonici, ognuno controllato da presidi
militari. Una miriade di colonie, una ragnatela così fitta che ha
cancellato la continuità territoriale di un possibile Stato di
Palestina. E come se non bastasse il popolo palestinese è racchiuso da
un Muro voluto da Sharon, ma approvato da Peres. E sul quale il mondo
tace.
Politicamente la situazione palestinese è quasi peggiore.
Ieri tutti hanno apprezzato ai funerali di Shimon Peres il saluto tra
Netanyahu e Abu Mazen. Ma il presidente dell’Anp è ormai ostaggio della
Comunità internazionale, conta internamente sempre meno, sempre meno
convincente per le promesse di pace mancate. E l’annuncio della
cancellazione della data delle prossime elezioni palestinesi ha fatto
sorgere il motivato sospetto del timore per una affermazione di Hamas
anche in Cisgiordania.
Come avvenne nel 2006, quando vinse le
elezioni non solo a Gaza, e da allora cominciò una rottura drammatica,
molto indotta dall’esterno, tra Fatah e il movimento islamista che dura
tuttora.
Senza dimenticare che la cerimonia è stata disertata da
re Abdallah di Giordania e dal generale presidente egiziano Al Sisi, pur
alleati di ferro di Israele ma timorosi delle rispettive opinioni
pubbliche.
Resta da vedere quanto peserà il discorso di Obama,
forse l’ultimo sulla questione israelo-palestinese. Per un presidente
che a novembre uscirà di scena e che pur avendo annunciato di sentire il
dolore dei palestinesi senza diritti e terra, in questi sette anni e
con due mandati non ha fatto molto per migliorare quella condizione.
Mentre lo schema interpretativo sui Territori occupati palestinesi resta
quello ambiguo della «pace che viene dalla sicurezza»: era dello stesso
Peres che, oltre ad avere avviato i primi piani di colonizzazione, ha
trasformato Israele in una potenza nucleare speciale: ha l’atomica ma
resta fuori da ogni controllo e Trattato internazionale.
Le
proposte ripetute anche ieri da Netanyahu ricopiano la necessità della
forza ma, naturalmente, «per raggiungere la pace». Del resto l’ultimo
provvedimento di Obama, la consegna in questi giorni a Netanyhau di 38
miliardi di dollari in armi, va nella stessa direzione e per uno degli
eserciti più potenti del Medio Oriente e del mondo. Siamo dentro
l’algoritmo dell’occupazione militare «per fare la pace», da parte di
uno Stato, Israele, che non ha confini istituzionali e rivendica la sua
espansione. Aspettando Donald Trump, l’incendiario che vuole Gerusalemme
capitale indivisa d’Israele – quando le Risoluzioni Onu ribadiscono che
appartiene a due popoli e a tre religioni – oppure in attesa di Hillary
Clinton che ha promesso a Netanyahu che la comunità internazioanle non
deve intromettersi. La Palestina può attendere.
Ieri comunque ha
dominato la serena memoria di Obama, quando ha ricordato che con Peres,
«che ha incontrato dieci presidenti americani», parlava anche di Nelson
Mandela, tra gli ispiratori del presidente statunitense. Chissà che
diceva Shimon Peres di Mandela visto che i suoi governi israeliani
sostenevano il regime bianco dell’apartheid che imprigionò il leader
sudafricano fino 1994? Quel Mandela che fino all’ultimo sospiro ha
urlato al mondo intero: «La nostra libertà è incompleta senza la libertà
dei palestinesi».
Se, come ha ricordato il presidente americano, i
destini di Obama e Peres si sono incrociati, qual è il destino del
popolo palestinese?