il manifesto 1.10.16
Il mostro a due teste del Messico
Stritolati.
Da una parte la violenza delle bande criminali, dall’altra quella di
uno Stato complice e latitante. Nel mezzo una realtà fatta di
desaparecidos, fosse comuni e politici corrotti. Così per avere una via
d’uscita i giovani cresciuti nelle municipalità periferiche di Mexico
City recuperano l’identità comunitaria della "pandilla"
di Marino Ficco
CITTÀ
DEL MESSICO Ogni mattina le bacheche per gli annunci del metrò di Città
del Messico vengono ricoperte di volantini di familiari che cercano un
caro scomparso. Le edicole sono quotidianamente decorate con nuove foto
di morti ammazzati. La tv pubblica propone carrellate di omicidi e
sparizioni.
Dal 2006 il Messico è un paese in guerra. «L’offensiva
contro il narcotraffico dell’allora presidente Calderón ha scatenato
una spirale di violenza che non ha nulla da invidiare all’Afghanistan,
la Siria, lo Yemen e l’Iraq» dice la giornalista Veronica Basurto. Oltre
175mila morti in dieci anni di conflitto. 20.525 omicidi dolosi nel
2015. Più di 28.000 donne, uomini e bambini desaparecidos, scomparsi nel
nulla; 82 sindaci morti ammazzati in dieci anni; 11.257 omicidi nei
primi sette mesi del 2016, di cui 10 giornalisti. Cifre, dietro le quali
si infrangono i sogni dei giovani e degli oltre 22 milioni di
adolescenti del paese.
Il pericolo
«I giovani non sono un
pericolo, sono in pericolo» ripetono spesso Carlos Cruz ed Erika Llanos
Hernández, rispettivamente fondatore e direttrice dell’associazione
Cauce Ciudadano. «Il problema della violenza in Messico va al di là
delle droghe: è la conseguenza di un paese che ha dimenticato i suoi
giovani», continua Carlos, che fino al 2000 era il leader di una
pandilla, una banda che controllava gran parte del territorio della
delegazione Gustavo Madero, al nord di Città del Messico. «Fino al 2000
anche questo ristorante si trovava nel mio territorio e doveva obbedire a
noi» confessa Carlos mentre il cameriere ci porta dei deliziosi tacos
di pesce tipici dello stato di Jalisco. Per anni lui e la sua banda sono
stati responsabili di traffici illeciti e furti. E poi? «Eravamo in 23
quando avevamo 13 anni e solo in 3 siamo arrivati ai 17 – dice Carlos –.
Un giorno è morto un mio amico, allora abbiamo parlato col resto della
pandilla e alcuni di noi hanno deciso di abbandonare la violenza senza
rinnegare i nostri valori».
Da 16 anni la casa della nonna di
Carlos è diventata la sede dell’associazione, che cerca di fornire ai
giovani una comunità libera dalla violenza e strumenti per vivere una
vita migliore. Una sala polivalente permette di organizzare incontri ma
anche di ospitare l’atelier di fotografia, «dove si impara l’importanza
della luce», spiega Erika, la direttrice, che ha studiato sociologia
all’Universidad Nacional Autonoma de México. Una minuscola stanzetta è
diventata un pratico studio radiofonico: «Ho cominciato facendo radio
comunitaria – aggiunge Erika -, in questo contesto è un ottimo strumento
per creare ponti tra le persone». Nell’adiacente atelier di pittura
molti writer custodiscono bombolette e altri strumenti. Un altro studio è
il covo dei musicisti del quartiere, tra cui molti rapper, che provano e
registrano. Infine la cucina, che «permette di recuperare antiche
tradizioni culinarie e di portare ogni tanto un buon pasto ai compagni
detenuti che partecipano ai nostri atelier», spiega Giovanni.
«In
Europa non sapete più fare comunità – dice Carlos -. Noi mettiamo a
disposizione della comunità l’identità della pandilla. I giovani entrano
nelle bande alla ricerca di protezione e amicizia per poi diventare
semplici mercenari della criminalità». Molti si ritrovano in una spirale
di violenza per difendere il loro quartiere dagli attacchi esterni. Ma
nelle municipalità periferiche spesso il latitante è lo Stato. «Durante
l’infanzia abbiamo sofferto la violenza – aggiunge Carlos – e durante
l’adolescenza abbiamo cominciato a generarla».
Ma una piccola
associazione di periferia come può risolvere i problemi di un paese di
120 milioni di abitanti? «Una delle cose che abbiamo capito fin da
subito e che cerchiamo di rafforzare sempre più è la necessità di fare
rete con le altre organizzazioni che condividono i nostri obiettivi»
spiega Erika parlando di come è nata nel 2015 la Red RETOÑO, una rete di
associazioni che tentano di prevenire e risolvere i danni della
delinquenza organizzata. Tra queste ci sono anche Libera, l’associazione
anti-mafie italiana, e Marabunta, una «Brigata Umanitaria di Pace» che
da dieci anni partecipa alle manifestazioni per assicurarsi che non
avvengano violazioni dei diritti umani. Inoltre aiutano i familiari dei
desaparecidos nelle loro ricerche esplorando fondali marini, anfratti e
potenziali fosse comuni.
La morte e la beffa
Fernanda segue
le attività della Red RETOÑO e di Cauce Ciudadano per i familiari di
desaparecidos. Ci conosciamo un sabato mattina in un ex convento al sud
di Città del Messico, dove è in programma una formazione rivolta a
coloro che sono alla ricerca di un caro. «L’idea è di trasformare coloro
che stanno subendo un’ingiustizia in difensori dei diritti umani»
spiega Onil, originario di Cuba, che lavora per la rete. Ogni due
settimane c’è un incontro di formazione e alcuni dei familiari vengono
da stati molto lontani. Malgrado la formazione sia sulla differenza tra
genere e sesso, se possono prendono la parola e ne approfittano per
raccontare la vicenda della scomparsa del loro caro.
Araceli
Rodríguez Nava cerca il figlio Luis Ángel León Rodríguez, agente di
polizia, da oltre sei anni. Scomparso in circostanze misteriose insieme a
sei colleghi sulla strada verso Ciudad Hidalgo, nel 2013 si aggiunge la
beffa di un procedimento giudiziario con l’accusa di abbandono del
posto di lavoro e per non aver effettuato la dichiarazione dei redditi.
La madre accusa i gruppi criminali La familia michoacana e Los
caballeros templarios, un gruppo di fanatici che sfruttano il
cristianesimo per giustificare e imporre il loro regime del terrore.
«Anche se non troverò il mio Luis Ángel – conclude Araceli – sto
incontrando tante altre persone, sto dando vita alla vita… Questo mi dà
la forza per continuare la mia lotta contro un mostro a due teste: il
governo e la criminalità».
Recentemente è stato messo in piedi un
sistema di protezione dei familiari minacciati, migliore del dispositivo
che dovrebbe difendere i giornalisti. Per esempio J. vive e lavora in
località segreta, ma è libero di spostarsi dove vuole nel paese con la
scorta. Oltre a un sussidio economico riceve settimanalmente grandi
quantità di derrate alimentari «che regalo ad amici e parenti perché io
non me ne faccio niente di 20 kg di carne, patate, formaggio etc.» In
generale i dispositivi di protezione delle persone minacciate sono
semplici e non sempre efficaci, come nel caso del fotografo Rubén
Espinosa minacciato a Veracruz in seguito alle sue inchieste
sull’operato criminale del governatore Javier Duarte. Si cerca di far
trasferire la persona minacciata nella capitale, dove la presenza dello
Stato è più forte. «Spesso scompaiono professionisti che sono costretti a
lavorare per la criminalità, per esempio ingegneri, architetti, medici –
dice Veronica Besurto -. Inoltre si dà sempre la colpa al narcotraffico
per qualunque omicidio o sparizione, ma spesso è una scusa per
giustificare l’assenza di indagini, anche perché l’infiltrazione
criminale nella politica è molto alta».
Nello stato del Morelos è
particolarmente facile identificare le zone grigie di connivenza
silenziosa tra politica e criminalità. Nel 2014 è stata scoperta una
fossa comune presso Tetelcingo. «117 cadaveri, tra cui quattro bimbi,
che riportavano segni di morte violenta e torture sono stati sepolti
come se fossero spazzatura senza autopsia né identificazione di routine,
compito della procura dello Stato» accusa Valentina Peralta, zia di una
delle vittime. Per la prima volta un’università pubblica ha aiutato
un’associazione di familiari di desaparecidos nel tentativo di
identificare i corpi sepolti nella fossa comune, sostituendosi alla
procura inefficace e corrotta. Per il momento sono stati identificati i
resti di otto corpi dai familiari.
«L’ipotesi più probabile è che
ci sia stata la volontà di coprire dei delitti; siamo di fronte
all’opera di alcuni apparati dello Stato corrotti» accusa il dottor Ivan
Martinez Duncker, della Comisión Científica de Identificación Humana
della Universidad Autónoma del Estado de Morelos (Uaem). In seguito la
procura ha aperto un’inchiesta interna, confermando le falle
procedurali. Secondo Roberto Villanueva dell’Uaem le condizioni dei
cadaveri porterebbero il marchio di fabbrica del gruppo criminale degli
Zetas, molto forti nella regione, e che avrebbero siglato dei patti con
la classe dirigente. Nonostante tutto, da parte sua il governatore Graco
Ramírez risponde alle accuse affermando che la fossa è «totalmente
legale», che i cadaveri «furono regolarmente identificati» e che
«quest’inutile polverone è costato oltre 5 milioni di pesos alle casse
dello Stato». Inoltre ha annunciato un taglio ai fondi destinati
all’Uaem, l’università del dottor Duncker.
Fuori controllo
Situazioni
analoghe si possono trovare in tutti gli Stati della repubblica
messicana, ma in particolare nello stato di Veracruz, dove venerdì 2
settembre è stata trovata l’ennesima fossa comune con 192 corpi a
Xalapa. «Il problema di alcuni stati fuori controllo, come Tamaulipas e
Veracruz, si aggrava nel periodo di transizione di sei mesi tra le
elezioni e l’insediamento del nuovo governatore, quando lo Stato è
assente e la criminalità si rafforza» assicura Erika Hernández.
«Ma
il problema principale è sicuramente la tratta di esseri umani – dice
Fernanda – la cui analisi permette di capire molti dei problemi attuali
del paese». Grazie ai numerosi reportage nazionali e internazionali,
tutti sanno che Tenancingo, un piccolo paesino vicino Puebla, è la
capitale della tratta femminile, eppure lo Stato non interviene e
talvolta le sole associazioni non possono risolvere tutto. Le principali
vittime della tratta di esseri umani sono le giovani donne e i
migranti. In Messico l’icona dell’assistenza ai migranti si chiama
Alejandro Solalinde, un sacerdote che ha fondato un centro
d’accoglienza, Hermanos en Camino per i migranti dell’America centrale e
meridionale in cammino verso gli Stati Uniti. Vengono per la maggior
parte da Salvador, Honduras e Guatemala. «Fuggono dalla violenza delle
maras, da violenza, povertà e corruzione» ci spiega Paola, che coordina
Adolescentes en Camino, un nuovo centro aperto ad agosto nella periferia
nord della capitale per accogliere, proteggere e consigliare i migranti
minori in transito. Padre Solalinde ha deciso di aprirlo qui perché è
il solo posto franco di tutto il paese, dove nessuno è clandestino. I
venti ospiti del centro sono adolescenti abbandonati a loro stessi.
Alcuni sono sposati con figli nonostante non abbiano ancora compiuto 18
anni. C. ha 17 anni, un passato criminale nella famigerata Pandilla 18
di Città del Guatemala. Ha impugnato un’arma per la prima volta a 13
anni. «Certo che ho ammazzato qualcuno – dice – erano nemici che
tentavano di occupare il nostro quartiere; lo Stato ci abbandona e noi
dobbiamo difenderci».
Leo sogna di diventare cantante rap. In
Honduras non può. Proverà negli Stati Uniti. Gabriela sogna di fare la
maestra a Orizaba. In Messico non può. Troppa violenza. Proverà in
Europa. José sogna di ritrovare i fratelli scomparsi. Ha deciso di
restare. Non ha altra scelta. Ci tiene a farmi ascoltare la sua canzone
preferita, I Want to Break Free: «Voglio fuggire lontano dalle tue
bugie». E ricominciare a vivere.