il manifesto 19.10.16
Paolo Conte fra jazz e musica da camera
Il
maestro ha appena pubblicato il suo primo album solo strumentale dal
titolo «Amazing Grace» che raccoglie brani, «lasciati in quei cassetti
dove giace ancora qualcosa che prima o poi, chissà, uscirà»
di Fabio Francione
Il
prossimo anno, Paolo Conte andrà per gli ottanta anni, l’unico che, in
un radiofonico, incandescente, puntuto e polemico intervento, Valerio
Magrelli, ritiene, tra i cantautori e con il solo De Andrè, degno del
Nobel per la letteratura, appena assegnato a Bob Dylan. Ed è pura e
singolare coincidenza che tutto sia accaduto lo scorso 13 ottobre: un
giorno che si appresta ad essere ricordato, per alcuni versi, come
epocale; proprio in un tempo che di eventi quotidiani ne conta a
migliaia, tra cui la presentazione del nuovo album del cantautore
astigiano, e che al contrario registra anche la scomparsa di un altro
Nobel, Dario Fo, che non poco scandalo diciannove anni prima aveva
destato nell’establishment intellettuale italiano e mondiale.
E
vale oggi, oggi, la medesima levata di scudi per Dylan. E tutto sembra
tornare quando Conte accenna agli amici cantautori che avrebbero
meritato il Nobel, non oggi, ma negli anni settanta, per «il notevole
dispendio di energia poetica dissipato rispetto ad altre nazioni». Ma,
il sisma emotivo non sembra prendere più di tanto la platea d’addetti ai
lavori, in parte amicale, che, con venerata partecipazione, resta ad
ascoltare Conte che, inforcati un paio d’occhiali neri e sollecitato dal
conduttore di Tv Talk, Massimo Bernardini, parla – e si vede che ha
molta voglia di parlare – di sé, dell’album e di molto altro,
districandosi in modo «stravagante» tra pittura, storia del jazz e
musica da camera. Ci si accorge che il tutto accade con disarmante
semplicità, Conte fende gli argomenti con la sua proverbiale e raffinata
ironia, però di quella speciale che si ascolta nelle sue canzoni e non
fa alcun male, cercando di schermire forse una timidezza che, è sembrata
più appartenere ai suoi anni giovanili che al magnifico
«intrattenitore» d’oggi. A tal proposito, è un piacere ascoltarlo
descrivere la sua generazione alle prese con l’universo femminile e i
tentativi di possederlo, «mantenendo molta cavalleria».
Perché
Conte si sente «un novecentista», non solo musicalmente. Tutto «900»,
anche nelle aperture settecentesche di alcuni brani, è Amazing Grace: il
suo primo album strumentale che raccoglie frammenti sparsi – ecco
evocata una delle epifanie novecentesche che spillano il lavoro –suonati
negli anni novanta e occasionati da commissioni festivaliere come la
dozzina di pezzi confezionati per centenario montaliano o per pièce
teatrali, perlopiù non realizzate: «lasciati in quei cassetti dove giace
ancora qualcosa e che prima o poi, chissà, uscirà. Come hanno fatto
queste piccole cose» che contengono però l’essenza stessa della musica
dell’ex-avvocato: Chopin, Satie «che porta pure un po’ sfiga», il jazz
degli anni 20-30, «quello a mio avviso più rivoluzionario».
Conte è
un fiume in piena e aggiunge: «Non vi è un filo narrativo nella
disposizione dei brani. Suonano bene, tenevo a questo. I titoli dati
alle tracce non hanno rapporti con le stesse. Mi piacevano e se vi
dicessi quanti ne succedono prima di trovare quelle definitivi tra le
mie scartoffie» – e sono tutti molto «contiani»: dalla circense e
felliniana Pomeriggio zenzero alle virate bachiane, rilette attraverso
la generazione dell’80, di La Danse o il jazz non jazz di F.F.F.F. (For
Four Friends) e Fuga nell’Amazzonia in re minore fino a Sirat Al
Bunduqiyyah, struggente omaggio all’Oriente di Favola di Venezia di Hugo
Pratt.