il manifesto 19.10.16
Tanto rumore per tre decimali
di Luigi Pandolfi
Il
governo ha appena varato la manovra finanziaria per l’anno che verrà,
ora al vaglio della Commissione europea. Continuiamo a chiamarla «legge
di stabilità», ma da quest’anno c’è solo il bilancio dello Stato, nel
quale confluiscono tutte le misure previste dal governo dal lato delle
entrate e della spesa per il periodo di riferimento. Nella sostanza
cambia poco, ma l’operazione ha un suo significato, innanzitutto
politico. Quale? Quello di affermare il primato degli equilibri di
bilancio sugli effetti, e i benefìci, della politica fiscale. Un tempo
c’erano i Documenti di Programmazione Economica e Finanziaria (Dpef),
poi diventati Decisione di Finanza Pubblica, oggi Documenti di Economia e
Finanza (Def).
Nel cambio di denominazione, si è persa per strada
la parola «programmazione». Non una quisquilia lessicale, beninteso: la
«programmazione economica» è cosa ben diversa dalla lotta al deficit,
dal controllo paranoico della spesa pubblica per centrare gli obiettivi
fissati dalle regole di bilancio europee. Vale lo stesso discorso per le
«leggi finanziarie», diventate «leggi di stabilità» in omaggio alla
filosofia del rigore, oggi assorbite nella legge annuale di bilancio,
che, per definizione, deve sempre chiudere in equilibrio, «bilanciare»,
per l’appunto, le partite in entrata e quelle in uscita. Un atto
«dovuto», per certi versi, stante la nuova formulazione dell’art.81
della Costituzione, con la quale, accanto all’obbligo del pareggio
finanziario, è caduto anche il divieto di stabilire nuovi tributi e
nuove spese con la legge di bilancio.
Secondo il ministro dello
Sviluppo economico Carlo Calenda, però, il fiscal compact sarebbe «di
fatto già finito». Finito? Possibile che una così grande notizia non
abbia avuto alcun risalto sui media? Probabilmente si tratterà di un
auspicio, visto che ad oggi tutti gli atti adottati dal governo in
materia economica e finanziaria, fino all’ultima Nota di aggiornamento
al Def, sono stati elaborati secondo la metodologia ed i parametri
imposti dal Patto di stabilità. Di certo, non si può dire che la
rottamazione del fiscal compact passi dall’innalzamento del deficit, per
il 2017, dal 2 al 2,3% (strutturale dal 1,2% all’1,6%), come la manovra
prevede. Ma si sa: una cosa sono le dichiarazioni a mezzo stampa, altra
cosa sono i documenti ufficiali. E i numeri reali.
Anzi, chiediamoci: nella realtà, il deficit sale o scende?
Mettiamola
così: sale in base alle ultime previsioni, scende rispetto ai valori
reali degli ultimi anni. Nel 2014 era al 3% del Pil, nel 2015 al 2,6%,
per il 2016 si prevede di chiudere al 2,4%. Ha ragione Padoan, allora,
quando dice che il nostro Paese è «in regola», perché il deficit
continua a scendere, nonostante lo sforzo per l’emergenza migranti ed
eventi eccezionali come l’ultimo, devastante, terremoto che ha colpito
il centro Italia. Con orgoglio, l’ha rimarcato anche il premier: «è il
livello più basso da dieci anni a questa parte». La verità è che il
Patto di bilancio europeo è vivo e vegeto e rappresenta la cornice entro
cui si dipanano le scelte di politica economica e finanziaria degli
Stati che l’hanno sottoscritto, a cominciare dall’Italia, che da sempre
ci tiene a fare bella figura, a rispettarne le prescrizioni, ma sempre
«per il bene del Paese», naturalmente. Lo dimostra anche la manovra
appena varata. Infatti, per un’operazione del valore complessivo di 27
miliardi di euro, 15 miliardi sono di nuove entrate e tagli alla spesa
pubblica, per sterilizzare la cosiddetta clausola di salvaguardia
(aumento automatico di Iva e accise) a garanzia degli impegni assunti
con Bruxelles sul contenimento del deficit e del debito (fiscal compact
finito?).
Dal lato della spesa, coperta per una parte in deficit,
tolti 4,5 miliardi per le zone terremotate e 3 miliardi per i comuni che
accolgono i migranti, non rimangono che pochi spiccioli per i
pensionati, le famiglie, la scuola, la sanità, il contrasto alla
povertà. «Elargizioni» le ha chiamate, efficacemente, Mario Monti.
Investimenti
pubblici? Manco a parlarne, mentre si persevera con la politica di
incentivi alle imprese (giù Ires, arriva l’Iri, l’imposta sul reddito
imprenditoriale, con aliquota unica al 24%) e di favori alle banche, con
le solite misure dal lato dell’offerta in un mercato dove la gente
continua a non spendere. Tutto nella «norma», insomma. A Bruxelles,
intanto, c’è chi recita, come da copione, la parte del duro, annunciando
un controllo «esigente» sui conti italiani. Sembra che l’attenzione,
adesso, sia concentrata sullo sforamento del deficit strutturale
programmato, quello calcolato, in estrema sintesi, su scenari economici
ipotetici, futuribili, ma anche no.
Pierre Moscovici, commissario
agli Affari economici e finanziari, però, ha aperto uno spiraglio:
«Spero sinceramente che il referendum passi. Una sconfitta di Renzi a
aprirebbe un periodo di incertezza pericolosa. Ciò non vuole dire che
esamineremo il budget in funzione del referendum, la Commissione non fa
politica… ma non è insensibile al contesto politico». Che dire? Tanto
rumore per tre decimali.